SEZIONE MILETO
ITALIA. CALABRIA. MILETO ANTICA. ABBAZIA DELLA SS.MA TRINITA'. SEPULCHRUM (?) COMITIS ROGERIJ.
La questione della sepoltura di Roger d'Hauteville, conte di Calabria e Sicilia; - condottiero normanno e padre del re Ruggero II; - nonché fratello del duca Roberto il Guiscardo, è un problema ancora irrisolto. E forse come tale, rimarrà.
Questa pagina intende essere – ed è – un omaggio un riconoscimento un tributo a Chi in su la Mileto Amtiqua elevò l'aulico Canto.
Egli.
Mi fu Professore nei lontani anni in cui la Vita a Mileto a noi adolescenti appariva e solo una Galassia ma infinita.
Nel decennale della Morte giunga ora a Lui il mio saluto.
Questa pagina intende essere – ed è – un omaggio un riconoscimento un tributo a Chi in su la Mileto Amtiqua elevò l'aulico Canto.
Egli.
Mi fu Professore nei lontani anni in cui la Vita a Mileto a noi adolescenti appariva e solo una Galassia ma infinita.
Nel decennale della Morte giunga ora a Lui il mio saluto.
"Der Schmerz, der Stillstand des Lebens /
Lassen Die Zeit Zu Lang Erscheinen" //
1999. Giuseppe Occhiato, Vicende dei sarcofagi miletesi.
(+ Giuseppe Occhiato, Mileto, 1934 – Firenze, 28 gennaio 2010)
"Fra i tanti problemi presentati dai due sarcofagi miletesi, attribuiti per lunga tradizione, l’uno, a Ruggero I e, l’altro, ad Eremburga, sua seconda moglie, quello di ricostruire la cronologia delle vicende patite dai due manufatti nel corso dei secoli è certamente il minore. Ben altra cosa è, infatti, affrontare i numerosi aspetti molto più essenziali che li riguardano: e qui mi limito a citarne solo alcuni, quali, in primo luogo, il problema concernente la loro provenienza (Hipponion o Roma antica?), o quello dell’attribuzione stessa dei due reperti (soprattutto il sarcofago cosiddetto di Eremburga: non potrebbe essere appartenuto piuttosto a Giuditta, la prima moglie di Ruggero? E sulla base di quali argomentazioni è stato attribuito a Eremburga?) e, infine, il problema dei problemi, quello più affascinante e più lungamente dibattuto, riguardante la trasformazione della tomba di Ruggero in sepoltura a baldacchino: sicuramente opera di un Pietro d’Oderisio, ma eseguita quando, nel XII o nel XIII secolo? E su richiesta di quale committente, la vedova Adelaide o il figlio Ruggero II, oppure la stessa abbazia o addirittura la corte angioina di Napoli?
Non sono questioni semplici da risolvere, e Lucia Faedo, Alfonso De Franciscis, Francesco Negri Arnoldi, P. C. Claussen, Ingo Herklotz, Patrizio Pensabene e Marilisa Morrone, che le hanno affrontate, hanno concretamente portato avanti la ricerca con lavori che, pur contrastando spesso nelle conclusioni, costituiscono però degli importanti contributi alla graduale scoperta della verità. Gli studi concernenti il riutilizzo del materiale classico reperito nella Mileto normanna sono oggetto in questi giorni di approfondimenti da parte di P. Pensabene e di M. Morrone, i quali si occupano rispettivamente, l’uno, del materiale architettonico e, l’altra, del sarcofago di Ruggero, e sembra proprio che quest’ultima studiosa, sulla base di documenti iconografici mai prima presi in esame, stia per dire una parola pressoché definitiva circa l’identità del marmorario romano Pietro di Oderisio cui si deve l’allestimento del sarcofago ruggeriano in forma di monumento a ciborio.
Lo scopo di queste pagine è, tuttavia, meno ambizioso, giacché qui si vuole soltanto delineare cronologicamente le varie peripezie dei due sarcofagi: vicende piuttosto complesse, a volte contenenti datazioni erronee, spesso anche riferite in modo confuso o incompleto. Se ne offre, pertanto, un breve compendio esposto in senso diacronico, nel tentativo di porre ordine nel viluppo delle notizie sparse qua e là in testi, fra l’altro, non sempre facilmente reperibili.
Ruggero moriva a Mileto nel giugno del 1101, di angina pectoris. Il giorno solitamente ricordato della sua morte è il 22, ma potrebbe anche essere un altro dello stesso mese o di quello successivo, giacché le testimonianze contenute nei necrologi dell’epoca sono discordi. Così come sono discordi le attestazioni dell’età del conte, che alcuni vorrebbero morto a settantadue, altri a settanta anni. Romualdo Salernitano lo fa morire all’età di cinquantun anni, ma probabilmente si tratta di una svista, e va invece corretta in sessantuno, età accettata oggi da gran parte degli storici medievalisti (A. Hofmeister, D. J. A. Matthew, G. A. Loud, H. Houben). Ruggero sarebbe, perciò, giunto nell’Italia meridionale quand’era ancora un giovinetto di quindici o sedici anni, e non di ventisei come si è ritenuto finora. Poiché Romualdo di Salerno afferma che morì nel quarantesimo anno a partire da quando era diventato conte, ossia nel 1060, anche l’anno della sua nascita va spostato in avanti rispetto a quello fin qui tradizionalmente accettato e portato al 1040. L’imprecisione delle date è dovuta soprattutto al fatto che i cronisti del tempo (G. Malaterra, Romualdo Salernitano, Amato di Montecassino e Guglielmo di Puglia) si basavano soprattutto su fonti orali. Con l’ipotesi del 1040 quale anno di nascita concorda il Malaterra quando afferma che Ruggero arrivò nel Mezzogiorno mentre era di «iuvenilis aetas» (I, 19). E quella di Ruggero sarebbe in effetti un’età molto giovanile, secondo i parametri odierni, ma per l’epoca no: si pensi che Ruggero II venne proclamato «miles», ossia cavaliere, all’età di sedici anni, età in cui all’epoca si era considerati già maggiorenni. Basti ricordare che l’adoubement cavalleresco poteva avvenire ancora prima, dopo il compimento del quattordicesimo anno, anche se non esisteva un’età precisa per essere sottoposti al rito suddetto (H. Houben, E. Cuozzo).
Esaminata così en passant la questione dell’età del gran conte al momento della sua morte e solo per offrire un saggio della complessità dei problemi insiti nella ricostruzione storica di fatti e personaggi di età così lontane, seguiamo ora le vicende dei due sepolcri, a partire da quello di Ruggero (opera giudicata come appartenente alla prima metà del III sec. d. C.), entro il quale il Conte fu tumulato dopo la sua morte. Il corpo della contessa Eremburga, morta nel 1089, era stato composto in altra urna (del II sec. d. C.) situata non si sa bene se, come quella del marito, nella navata destra oppure in altro punto della chiesa abbaziale della SS. Trinità, edificio che il gran conte aveva destinato ad essere anche il centro spirituale e il sacrario familiare per gli Altavilla di Mileto, così come Venosa e Sant’Eufemia lo erano per gli altri Altavilla. La cittadina di Mileto, infatti, anche se non era mai divenuta sede stabile di governo, aveva costituito per Ruggero il suo punto di riferimento e di aggregazione più importante sia sul piano politico e strategico che su quello affettivo. Ad essa egli era rimasto sempre legato come a quell’oasi di pace e di ristoro a cui amava sempre ritornare durante e dopo le fatiche della conquista.
Accenniamo anche brevemente, prima di passare all’argomento specifico di queste pagine, al problema dell’originaria provenienza delle due casse marmoree. Sappiamo che in età medievale la scultura, e non solo quella funeraria, guardava anche ai modelli classici e romani come fonte d’ispirazione e di imitazione (A. Giuliano). Da Roma o da Ostia proveniva tutta una serie di sarcofagi che erano stati riutilizzati in numerosi centri italiani, da Genova a Firenze, da Amalfi a Messina, da Cagliari a Palermo, tanto per fare qualche esempio. Oltre che appropriarsi degli esemplari già pronti, in tutte le aree normanne dell’Italia meridionale e della Sicilia committenti e artisti ne creavano anche di nuovi, in qualche caso utilizzando il porfido di antiche colonne romane, abbozzandoli o eseguendoli nella stessa città eterna, come quelli della cattedrale di Palermo e del duomo di Monreale. Non solo, ma si giunse presto perfino a copiare alcuni modelli, ricreando de novo sarcofagi all’antica, come quelli di Ruggero e di Enrico, fratelli di Guglielmo II.
In questo clima di riviviscenza del mondo classico che vedeva l’elaborazione di nuovi sarcofagi in porfido e in marmo, eseguiti o abbozzati da marmorari di età normanna nella stessa Roma, si inseriscono i due sarcofagi miletesi: da considerare, però, non quali opere appositamente create per Ruggero e la moglie ma come esemplari originali fortemente indicativi di aulicità e di magnificenza, in quanto rappresentativi dell’allegoria del potere conseguito, riconducibile a quel «codice di prestigio del sepolcro che va lentamente formandosi fin dall’alto Medioevo» (Faedo). Sarebbe, così, da escludere la provenienza, fin qui concordemente e tradizionalmente accettata, che l’area di provenienza fosse l’antica Hipponion, dalla quale effettivamente molto altro materiale di spoglio, sculture, iscrizioni, elementi architettonici di pregio, venne trasferito a Mileto per essere riutilizzato nell’abbellimento dei due edifici sacri ruggeriani, la chiesa abbaziale e la cattedrale, e da accettare invece come molto probabile la provenienza dei due sarcofagi miletesi da Roma o da Ostia. È la tesi ventilata, per quanto riguarda l’urna di Ruggero, da L. Faedo e sostenuta da P. Pensabene, il quale, pur lasciando intravedere la possibilità che il sarcofago romano possa essere stato già in epoca antica utilizzato da qualche grande proprietario ipponiate o delle zone contermini, è dell’opinione che possa anche essere giunto direttamente da Roma in un momento più tardo rispetto alla morte del conte, ossia all’epoca della realizzazione del monumento funerario da parte del marmorario cosmatesco Pietro di Oderisio.
Fin qui le acquisizioni degli ultimi studi circa il problema dell’area di provenienza dei manufatti in questione. Riprendiamo ora il discorso delle peripezie a cui le due urne furono sottoposte nel corso dei secoli.
È da notare preliminarmente che dell’urna di Eremburga si comincia a parlare solo a partire dal 1693, con G. B. Pacichelli. Essa venne spesso scambiata dagli eruditi per la tomba della terza moglie di Ruggero, Adelaide, che invece è sepolta nella cattedrale di Patti, dove un’epigrafe ricorda inequivocabilmente la presenza del corpo della regina, morta a Patti nel 1118, all’età di circa cinquanta anni. Diverse altre attribuzioni sono state avanzate nelle varie epoche, fra cui quella che dovesse contenere le spoglie dei figli del conte. Quanto alla tomba di Ruggero, invece, non vi sono mai stati forti dubbi circa la pertinenza della cassa marmorea. Di essa si ha la prima notizia già nel XIII secolo, e precisamente per merito della Cronaca di Fra’ Corrado, resa nota dal Muratori, il quale riporta pure per la prima volta il famoso distico di versi leonini che connotava la sepoltura del conte:
Linquens terrenas migravit Dux ad amoenas
Rogerius sedes, nam Coeli detinet aedes.
Fino al 1659, anno del terremoto che abbatté al suolo la chiesa e il monastero della SS. Trinità, il sarcofago ruggeriano si trovava addossato alla parete laterale della navata destra della chiesa abbaziale, secondo quanto risulta dalla nota planimetria del 1581 di Ottavio Micosanto custodita nell’Archivio del Collegio Greco di Roma. Da altre fonti (Chronicon Siciliae, G. Barrio, R. Pirro, S. Mercati, G. B. Pacichelli) si sa che già al momento del seppellimento di Ruggero erano stati posti sul sepolcro i sopra citati versi leonini. Sembra però che la prima attestazione della sepoltura ruggeriana possa essere riportata ad una data più antica di quella di Fra’ Corrado, e precisamente al 1197, anno a cui risale un manoscritto medievale contenente una raffigurazione miniata del mausoleo (Cod. Bernense 120, f. 3), già ricordata da L. Faedo che, sulla scorta di J. Deer, l’attribuisce al re Ruggero II, mentre M. Morrone, sulla base di una nuova lettura della medesima miniatura, l’attribuisce più pertinentemente al padre, Ruggero I. Ciò consente, inoltre, alla studiosa di confermare, riprendendo l’ipotesi già avanzata dalla Faedo, una datazione alta da attribuire ai lavori di abbellimento della tomba di Ruggero, eseguiti da Pietro di Oderisio molto probabilmente nei primi decenni del XII sec., su committenza di Ruggero II, figlio e successore del gran conte.
A parere della stessa studiosa, si dovrebbe pure alla presenza del maestro cosmatesco in Mileto la realizzazione della tomba di Eremburga, per la quale venne riutilizzata un’urna della classe dei sarcofagi attici, databile, secondo A. De Franciscis, alla prima metà del II sec. d. C.
Nel disegno romano del 1581 non vi è tuttavia traccia dell’urna di Eremburga, che perciò è da supporre fosse situata altrove. Né se ne trova menzione nella Historia Chronologica dell’abate gesuita Diego Calcagni, vicario dell’abbazia, il quale riteneva che il corpo della contessa dovesse trovarsi tumulato nello stesso sarcofago del marito. Era, però, questa, opinione abbastanza diffusa, tanto da essere raccolta dall’ignoto visitatore che poté osservare la chiesa abbaziale anteriormente al sisma del 1659, lasciandone una breve notizia, pubblicata da S. Mercati. A quell’epoca il sarcofago non appariva nella forma architettonica ipotizzata dalla Faedo, con ciborio o baldacchino, anzi l’anonimo visitatore seicentesco, a proposito del fatto che esso si presentava come «opera antica di non molto artificioso disegno, e priva d’ornamento», avanza due supposizioni: la prima, che non fosse più collocato nel suo posto originario – il che, fra l’altro, giustificherebbe la scomparsa del baldacchino – e, la seconda, che nell’avello potesse essere stato seppellito non il conte Ruggero ma uno dei tanti normanni dello stesso nome.
Il cambiamento di posto sarebbe stato motivato dalle cattive condizioni statiche dell’edificio, compromesso da innumerevoli terremoti. Già all’epoca, infatti, la chiesa aveva « in molte parti sentito il pregiudicio del tempo, e di già in più d’un luogo riparata con nove altre imminenti rovine novo risarcimento richiede ». Ciò giustificherebbe anche il fatto che nel disegno romano del 1581 non si riconosce alcun indizio che faccia intravedere una costruzione di tipo architettonico sopra il sepolcro.
Il terremoto del 1659 non risparmiò né il monastero né la chiesa della SS. Trinità. I due sarcofagi vennero travolti nella rovina degli edifici e, durante i lavori di ricostruzione del monastero, quello del conte, secondo la testimonianza del Calcagni, trovò riparo nel cimitero adiacente alla chiesa abbaziale dove rimase negletto per diversi anni, finché non poté essere riportato dentro la chiesa appena ricostruita, a rioccupare il suo vecchio posto nella navata destra, in mezzo a due colonne, ricondotto «in meliorem, et nobiliorem formam». Uguale sorte dovette subire, crediamo, l’urna di Eremburga, anche se ancora di essa non emerge traccia in nessun documento.
La ricostruzione delle fabbriche monastiche e della chiesa si era protratta per un tempo piuttosto lungo, per circa un quarantennio, cioè, a partire dal 1660, versando i monaci in non floride condizioni finanziarie, tanto è vero che gli abati commendatari e i vicari dell’abbazia, fra cui lo stesso Calcagni, erano stati costretti a vendere numerosi preziosissimi marmi che non era stato possibile riutilizzare. La ricostruzione barocca dell’abbazia aveva avuto termine nel 1698, ma quella della chiesa doveva essere stata già completata qualche anno prima, almeno nel 1693, se è vero che un illustre viaggiatore del tempo, l’abate G. B. Pacichelli, aveva avuto modo di visitarne la fabbrica a quella data, come egli stesso ci informa in una delle sue Lettere pubblicate poi a Napoli nel 1695, nella quale ci lascia una descrizione della chiesa e del sarcofago di Ruggero. Ed è con il Pacichelli che abbiamo pure la prima menzione dell’urna poi detta di Eremburga («una cassa con più figure»), che egli però, come si è detto prima, attribuisce, secondo le credenze locali, ai figli del conte.
Con la ricostruzione barocca l’apparato decorativo dell’urna del conte dovette senz’altro subire una trasformazione rispetto al sepolcro medievale. Ma, prima di parlare di questa trasformazione, è opportuno chiarire quale fosse l’aspetto originario del monumento, cercando di precisarne pure meglio l’identità dell’autore. Come si presentava, infatti, in origine la sepoltura di Ruggero? Ed è verosimile che abbia provveduto lo stesso conte a far trasportare un sarcofago da Roma o da Ostia o da Hipponion che sia, pensando in vita ad allestire per sé un mausoleo degno del rango e della fama acquisita? O non è più plausibile pensare che il suo sarcofago e quello di Eremburga fossero stati trasportati da Roma insieme con la venuta dello stesso marmorario cosmatesco chiamato probabilmente da Adelaide o da Ruggero II durante la prima metà del XII secolo?
È verso questa tesi che propende M. Morrone, avvalorando la congettura di L. Faedo, mentre Negri Arnoldi e Claussen la confutano, affermando che il Petrus Oderisius citato nell’epitaffio scolpito sulla tomba di Ruggero sarebbe soltanto lo stesso autore della sepoltura di Clemente IV a Viterbo e di altri monumenti funerari e socio di Arnolfo di Cambio nel ciborio di San Paolo a Roma, operante nel terzo quarto del sec. XIII e di cui si perdono le tracce dopo il 1285. Per la Morrone il Petrus di Mileto altri non sarebbe – e le motivazioni con cui avvalora l’ipotesi sono convincenti – che un omonimo della stessa stirpe di marmorari, per cui si avrebbe un innalzamento alla prima metà del XII sec. della datazione del monumento, «che sarebbe stato così più plausibilmente realizzato dal figlio e successore del gran conte, il re Ruggero II, e non in età angioina».
Che aspetto aveva il monumento ipotizzato dalla Faedo? Si è già visto che le poche fonti di cui disponiamo (il disegno del 1581 e la breve descrizione anonima seicentesca riportata dal Mercati) sono mute in proposito; ma la studiosa, sulla scorta di rimandi a miniature e ad affreschi dell’XI sec. e di analogie con altre forme funerarie principesche coeve, normanne e non, o di età tardo-antica, nonché del ritrovamento di un frammento di architrave in porfido, avanza l’ipotesi di una sepoltura con copertura a edicola, o baldacchino, o ciborio, con fastigium e trabeazione in porfido, sostenuto da tre colonne poste davanti al lato lungo del sarcofago, al centro della quale, su un podio, poggiava il sarcofago stesso: era, come afferma la stessa studiosa, «un momento autoritario di glorificazione laica » già affermato dai normanni con la realizzazione delle tombe porfiree di Palermo e Monreale. Il distico leonino dell’XI sec. era venuto a far parte della stessa epigrafe che conteneva pure il nome del marmorario romano autore del monumento.
Diverso, invece, l’aspetto assunto dal sepolcro dopo la ricostruzione barocca. Secondo il Calcagni, il sarcofago, che aveva ripreso il posto occupato prima dell’evento sismico, era stato situato in mezzo a due colonne di marmo, privo di altra cornice architettonica, quindi senza più ciborio, che o al momento del sisma non esisteva già più o si era rotto in più pezzi in modo tale da non poter essere più ricomposto. La nuova sistemazione conservava però qualcosa del monumento antico. Il sarcofago era, infatti, sotto l’antica iscrizione, o epitaffio, scolpito sulla parete alla quale era addossato, parete che non era crollata durante il sisma, come sappiamo dal Calcagni. L’iscrizione, riportata dal vicario gesuita, era la seguente:
Rogerius Comes Calabriae, et Siciliae. Hanc sepulturam fecit Petrus Oderisius magister Romanus in memoriam. Hoc quicumque leges, dic, sit ei requies.
È strano, tuttavia, che l’ignoto viaggiatore citato dal Mercati non abbia notato tale epitaffio. Anzi, a questo proposito, egli annota: « Sopra di essa [cassa marmorea] nel muro veggonsi gli avanzi di alcuni caratteri greci, ma consumati dal tempo in guisa che non se ne comprende il sentimento». Questo che cosa significa? Che l’iscrizione originaria si era in gran parte sgretolata e l’epitaffio era una ricostruzione successiva, come suppone, fra l’altro, L. Faedo? Comunque la si voglia intendere, sta di fatto che l’iscrizione ci dice in modo inequivocabile che la sepoltura di Ruggero venne eretta da Petrus Oderisius e che questi ne allestì un monumento funebre coronato da un baldacchino in porfido, il marmo dei re.
Il già ricordato G. B. Pacichelli ci offre, in merito all’iscrizione, qualche elemento in più rispetto al Calcagni. Egli, pur riportando la medesima frase con qualche errore di trascrizione, attesta che era contenuta dentro un cerchio di marmo («nel giro di un marmo sferico») posto sopra l’urna. E un’ulteriore aggiunta ci viene ancora dal Calcagni, il quale, nell’Appendix alla Historia Chronologica, riferisce come, concluso il restauro del sepolcro, vi venisse apposta una lunga epigrafe commemorativa, dettata indubbiamente da lui stesso che all’epoca era vicario dell’abbazia, in latino (da lui riportata integralmente nell’Appendix), di cui facevano parte anche i due versi leonini già noti, e che si concludeva con la seguente attestazione: Instaurata tanti Principis, et fundatoris memoria. Anno MDCC. Il restauro, quindi, era stato ultimato nell’anno 1700.
Ancora una testimonianza, del 1762, ci completa l’immagine definitiva assunta dalla sepoltura, che, come si è potuto constatare, aveva contemporaneamente del vecchio e del nuovo. Ci proviene da uno dei tanti oppositori dell’abbazia, l’avvocato Natale M. Cimaglia. Mentre il Calcagni aveva dettato la lunga epigrafe per riaffermare la fondazione del monastero da parte del conte Ruggero e contrastare così le rivendicazioni del vescovi del luogo con i quali gli abati erano in lite da secoli, il Cimaglia, difensore delle pretese della parte avversa, confuta in una requisitoria pubblicata nel 1762 l’autenticità dei documenti abbaziali e definisce l’epigrafe del vicario come una «sciocca e capricciosa iscrizione», cercando di screditare la storia della fondazione dell’abbazia da parte di Ruggero e negando persino l’appartenenza del sarcofago allo stesso conte. Comunque sia, egli però ci lascia al contempo una più precisa e dettagliata descrizione del sepolcro. Apprendiamo così nuovi particolari, e cioè che il sarcofago era stato posto su di un basamento sul quale correva la lunga epigrafe del Calcagni, includente anche la nota coppia di versi leonini. Ma un altro elemento ci offre ancora l’avvocato Cimaglia, più importante per la ricostruzione dell’epigrafe antica scolpita da Pietro di Oderisio. Egli infatti osserva che sul muro retrostante all’avello si leggeva, distribuita in due grandi cerchi, la scritta Hanc sepulturam fecit Perus Oderisius Magister Romanus Hoc cuicumque leget dic sit ei requies, mentre, al di fuori dei cerchi e disposta in forma di croce, compariva la scritta Rogerii Comitis Calabriae et Siciliae. Molto probabilmente, anzi quasi sicuramente, si trattava dello stesso «marmo sferico» già notato dal Pacichelli, marmo che non si era disgregato nel terremoto del 1659 e che non si disgregò nemmeno successivamente, in quello del 1783, tanto è vero che Pompeo Schiantarelli ce ne ha potuto lasciare il disegno in una delle tavole (Rame VII) dell’Atlante allegato all’Istoria de’ fenomeni del tremuoto di Michele Sarconi.
Il Claussen rielabora la scritta, ridandole l’originario senso logico; essa pertanto suonerebbe così: Hanc sepulturam fecit Petrus Oderisius magister Romanus in memoriam Rogerii Comitis Calabriae et Siciliae. Hoc quicumque leges dic sit ei requies. Inoltre, lo studioso tedesco, sulla scorta della tavola dello Schiantarelli e della descrizione del Cimaglia, ne dà la ricostruzione grafica.
È dal Calcagni prima e dal Cimaglia dopo, pertanto, che veniamo a conoscere l’intervento del marmorario romano Pietro di Oderisio, cosa che ha aperto, come si è già accennato, numerose questioni, soprattutto tre: circa la committenza; circa l’identità dello stesso artista e circa il tipo di abbellimento eseguito. Su tutti e tre si è già detto in precedenza quanto qui si poteva dire. Su quello della committenza si ritorna ora soltanto per riunire in sintesi le varie posizioni degli studiosi, anche perché sembra che possa essere quanto prima aggiunta una parola definitiva da parte di M. Morrone.
Per la Faedo, la committenza sarebbe legata ai familiari prossimi del conte, o la vedova Adelaide o il figlio Ruggero II e, conseguentemente, l’abbellimento si collocherebbe nella prima metà del XII sec., prima però della morte di Ruggero II (1154). Per il Claussen, invece, è la stessa abbazia che, vedendosi minacciata nei propri diritti già a partire dal XIII sec. dai vescovi locali, cerca di riaffermare la fondazione regia del monastero, legandola con lo splendido monumento funerario cosmatesco alla perpetua memoria del suo fondatore. La Morrone, invece, riprende l’ipotesi della Faedo: il Petrus dell’epigrafe è solo un omonimo vissuto assai prima del Petrus attestato nel XIII sec. e identificato dal Negri Arnoldi (seguìto dal Claussen e da Ingo Herklotz) con il maestro della tomba di Clemente IV a Viterbo. Vi è, tuttavia, anche nello Herklotz una indicazione rivelatrice, che dovrebbe convalidare le ragioni della Morrone: « evidentemente gli Oderisio erano una di quelle famiglie di artisti rintracciabili nella Roma medievale per varie generazioni ». Che più? È sperabile, pertanto, che l’ipotesi della studiosa si tramuti presto in certezza sulla base delle nuove acquisizioni documentarie e delle ricerche da lei stessa portate avanti.
In seguito al terremoto del 1783, che abbatté per la seconda volta le fabbriche della SS. Trinità, i due sarcofagi, piuttosto danneggiati, rimasero incustoditi e abbandonati a se stessi tra le rovine della chiesa.
Seguiamo ora le vicende post-terremotali dei due reperti, cercando di recuperare il fil-rouge della cronologia e di ricostruire il percorso che li vide finalmente approdare entrambi al Museo Nazionale di Napoli. È possibile fare ciò sfogliando la folta letteratura che si è venuta formando dal 1784 ad oggi, attraverso le descrizioni, le lettere e le ricerche che numerosi viaggiatori, eruditi locali e studiosi, italiani e stranieri, (fra i quali si ricordano N. Ph. Desvernois, M. Sarconi, A. De Custine, A. Dumas padre, V. Capialbi, H. W. Schulz, D. Salazar, H. Gally-Knight, F. Avellino, L. de la Ville sur-Yllon, M. Morelli, P. Orsi, C. Naccari, C. A. Willemsen e D. Odenthal e B. Haarlov) hanno lasciato intorno ai due manufatti. Ai loro scritti, pertanto, si rimanda per un quadro completo dell’analisi critica svoltasi attorno ai sarcofagi, non essendo questo lo scopo delle presenti pagine. Perciò, avendo già preso in esame le varie posizioni degli studiosi circa le principali questioni presentate dai due monumenti, proseguiamo accennando solo alle peripezie cui essi andarono incontro dopo la tremenda catastrofe sismica del 1783.
Si è già detto che erano rimasti in abbandono tra le rovine dell’edificio ecclesiale. Ed ivi negli anni seguenti vennero visitati e amorevolmente descritti e studiati da numerosi degli eruditi e studiosi sopra ricordati.
Nel 1813, finalmente, per l’interessamento del generale francese Nicole Philippe Desvernois e del sindaco del tempo Nicola Francesco Taccone, l’urna di Eremburga ed il coperchio del sarcofago di Ruggero (per ora solo il coperchio, spezzato in due grossi frammenti) furono ricuperati e, insieme a molto altro materiale raccolto tra le macerie dei due edifici normanni, trasportati nella nuova Mileto, dove furono però ancora una volta lasciati all’aperto, in un prato adiacente alla nuova cattedrale, esposti alle ingiurie del tempo e alle offese degli uomini.
Altro materiale intanto veniva ricuperato fra i campi di rovine della città per andare ad abbellire le nuove abitazioni dei miletesi. Fra le altre cose, un importante frammento dell’urna di Eremburga venne salvato da Antonino Romano, Sindaco dei Nobili e uno dei primi sindaci della città ricostruita: assieme a molti altri pezzi sculturali e architettonici, sia di età classica che medievale e posteriore, esso venne destinato ad abbellire il giardino della sua abitazione nella nuova Mileto. Tutto questo notevole patrimonio sculturale è ora (dal 1999) passato alla proprietà del vescovo di Mileto, e molto probabilmente andrà ad incrementare il patrimonio di opere conservate nel locale Museo Statale.
A causa dell’ingombro e del peso che ne impedivano il trasporto, la cassa del sarcofago di Ruggero era stata lasciata sul posto, dove alcuni decenni appresso, e precisamente nel 1837, veniva segnalata da un viaggiatore straniero, H. Gally-Knight, che la ricorda abbandonata in mezzo ai vigneti che circondavano l’abbazia, e attorno agli stessi anni 1835-1837 veniva accuratamente descritta ed analizzata da Vito Capialbi, il quale nel 1838 affrontava pure il problema critico presentato dall’urna di Eremburga, ancora «esposta alle intemperie ed agli insulti degl’ignoranti e della vil plebaglia».
Giunta nella nuova Mileto, l’urna di Eremburga venne per qualche tempo riutilizzata come vasca, come apprendiamo dal De Franciscis: due fori praticati in basso in uno spigolo della cassa sono l’evidente segno di tale riutilizzo. Lo scrittore A. Dumas padre la rammenta nei suoi Souvenirs del viaggio da lui compiuto in Calabria nel 1835. Egli afferma che, attraversando la piazza dove sorgeva la villa comunale, ha modo di scorgere «una tomba antica raffigurante la morte di Pantesilea», una delle Amazzoni, elemento, questo, che si riferisce chiaramente all’urna di Eremburga, sui cui lati si svolge, come sappiamo, un rilievo con Amazzonomachia, e ne fa quindi eseguire uno schizzo dall’amico Jadin.
Finalmente, nel 1840, sia il sarcofago di Eremburga che quello di Ruggero, ricuperato quasi al completo e ricomposto nelle sue parti, venivano trasportati a Napoli per essere ospitati nell’allora Regal Museo Borbonico. Sul finire del secolo, quello di Ruggero, per influsso di D. Salazar, il quale riteneva che il sarcofago fosse copia normanna di altro sarcofago antico e perciò da considerare piuttosto come documento della fase normanna che come originale classico, veniva trasferito nel Museo di San Martino. Qui rimaneva fino al 1948, anno in cui veniva ricondotto ancora nel Museo Archeologico Nazionale, moderna denominazione del vecchio museo borbonico, e lì tuttora si trova. L’urna di Eremburga, invece, era ancora custodita presso lo stesso Museo Borbonico (quindi Museo Archeologico Nazionale), relegata però nei depositi, tanto che di essa si era persa ogni traccia sì da essere ritenuta irreperibile fin quasi ai nostri giorni (Willemsen-Odenthal).
Queste le vicende dei due manufatti sino alla metà del secolo appena passato. Il resto è cronaca dei nostri tempi. Mentre la tomba di Eremburga era posta in oblio, il sarcofago di Ruggero era rimasto a giacere in uno dei cortili del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dove giace tuttora abbandonato.
Qualcosa, però, sta mutando circa il destino dei due monumenti, sacri alla memoria dei miletesi. Il rinnovato interesse per le proprie memorie e la consapevolezza della rilevanza di opere d’arte appartenute alla propria storia stanno facendo sì che da reperti obliati e negletti i due sarcofagi diventino monumenti di capitale importanza, sui quali appuntare l’attenzione e di cui riappropriarsi come documenti non solo d’interesse archeologico ma anche e soprattutto come testimonianze ricche di valenza e di significati storici e affettivi. Forse, a così lunga distanza di tempo, si sta finalmente dando compimento all’appassionato monito del Capialbi: «Possano una volta i Calabresi riconoscere il pregio de’ monumenti dell’antica lor gloria, e possano questi essere conservati con più cura nella memoria de’ posteri!».Di recente, infatti, e precisamente nel 1998, l’urna di Eremburga, reintegrata con un calco in gesso riproducente il frammento di casa Romano (attualmente, come si diceva, di proprietà vescovile), veniva concessa in esposizione temporanea al Museo Statale di Mileto, appena istituito (1997), dove è tuttora. Quanto alla sua definitiva destinazione, allo stato attuale si è ancora in attesa di conoscere le decisioni delle autorità competenti; ma i cittadini miletesi, giustamente, si aspettano che il monumento resti per sempre a Mileto e possa così essere reintegrato con il frammento originale in sostituzione del calco in gesso. Per ciò che concerne, infine, il sarcofago di Ruggero, sono attualmente in corso le pratiche necessarie onde riportarlo nello stesso Museo miletese, affinché anch’esso trovi finalmente adeguata collocazione accanto a quello della moglie.
Bibliografia
- Calcagni D., Historia chronologica brevis Abbatiae Sanctissimae Trinitatis Mileti, Messanae, 1669.
- Capialbi V., Memorie per servire alla storia della santa Chiesa miletese, Napoli, 1846.
- Capialbi V., Cenno sul sarcofago della contessa Elemburga, ne «Il Maurolico», a. II, vol. 3°, n. 2 (30 AG.1838), Messina, pp.88-91.
- Cimaglia N. M., Della natura e Sorte della Badia della Santissima Trinità e S. Angelo di Mileto, Napoli, 1762.
- Claussen P. C., Magistri doctissimi romani, (Corpus Cosmatorum I), Stuttgart, 1987.
- Corrado (FRA’), Cronaca, in Muratori, Script. Rer. Ital., Milano, 1723, tomo I, p. II, pag.278).
- Cuozzo E., «Quei maledetti normanni», Napoli, 1989.
- De Franciscis A., Il sarcofago di “Eremburga”, in «Klearchos», 89-92, 1981, pp. 111-123.
- Desvernois N.-Ph., Mémoires 1789-1815, Paris, 1898.
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- Giuliano A., Motivi classici nella scultura e nella glittica di età normanna e federiciana, in «Federico II e l’arte del Duecento italiano», Atti della III settimana di studi di Storia dell’arte medievale dell’Università di Roma (15-20 maggio 1978), vol. I, Galatina, 1980, pp. 19-26.
- Herklotz I., «Sepulcra» e «Monumenta» del Medioevo, Roma, 1985.
- Houben H., Mezzogiorno normanno svevo: monasteri e castelli, ebrei e musulmani, Napoli, 1996.
- Mercati S., Calabria e Calabresi in un Ms del XII sec., in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», XII, 1942, p. 170 sg.
- Morrone M., L’antico nella Calabria medievale fra architettura di prestigio e necessità, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Age-Temps Modernes», 110, 1998, n.1, pp. 342-357.
- Negri Arnoldi F. Pietro d’Oderisio, Nicola da Monteforte e la scultura campana del primo Trecento, in «Commentari», XXIII, 1972, fasc. I-II.
- Pacichelli G. B., Lettere familiari, istoriche et erudite, tratte dalle memorie recondite dell’abate D. Gio. Battista Pacichelli, Napoli, 1695, tomo II; ristampa in G. VALENTE, Il viaggio in Calabria dell’abate Pacichelli (1963), Messina, 1966.
- Pensabene P., Contributo per una ricerca sul reimpiego e il «recupero» dell’Antico nel Medioevo. Il reimpiego nell’architettura normanna, in «Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte», serie III, 1990, pp. 5-138.
- Salazar D., Studi sui monumenti dell’Italia meridionale, parte seconda, Napoli, 1877.
- Sarconi M., Istoria de’ fenomeni del tremuoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone nell’anno 1783 posta in luce dalla Reale Accademia delle Scienze e delle Belle Lettere di Napoli, Napoli 1784.
- Willemsen C. A.– Odenthal D., Kalabrien, Köln, 1966.
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Giuseppe OCCHIATO. Profilo biografico a cura di Alessandro Gaudio © ICSAIC
"Scrittore, storico e pittore, nativo del rione Calabrò della cittadina normanna di Mileto e fortemente legato alla Calabria, ha vissuto e lavorato per un lungo periodo in Toscana, dapprima a Prato, dove si trasferì nel 1984 con la moglie Amelia Cirianni, poi a Firenze.
Rimasto precocemente orfano dei genitori (il padre Ernesto morì sulla nave di ritorno da Addis Abeba nel 1936; la madre, Aurora Maria Elsa Currà, scomparve l’anno successivo), la sua formazione venne curata dalla nonna materna, Maria Antonia Mesiano, illetterata, ma dotata di notevolissime capacità affabulatorie.
Occhiato ha compiuto studi classici al liceo di Vibo Valentia e, nel 1970, si è laureato a Messina in lettere moderne con una tesi dedicata al duomo normanno di Gerace. Docente di Storia dell’Arte e poi, dal 1977, preside, è stato uno stimato uomo di scuola fino al 1996.
Ha collaborato attivamente alla Deputazione di Storia Patria per la Calabria.
Si è interessato di storia e di architettura medievale calabrese e meridionale.
Le sue ricerche hanno contribuito a rivalutare il ruolo della Calabria normanna nel contesto del Romanico europeo; sono state altresì di grande stimolo alla promozione di campagne di scavi nelle aree delle antiche abbazie benedettine di Santa Maria di S. Eufemia Vetere e della SS. Trinità di Mileto e all’istituzione del Museo Statale di Mileto, inaugurato nel 1997.
È stato relatore in diversi convegni di storia.
Nel 1983 è stato consulente per la realizzazione della serie televisiva I segni e la storia, diretta da Pietro De Leo per i programmi della sede Rai della Calabria.
Ha mantenuto a lungo la direzione scientifica della Cooperativa “Nuova Ricerca”, che ha operato nell’ambito di un importante progetto promosso dal Centro Servizi Culturali di Vibo Valentia e finanziato dal Formez; i materiali prodotti nell’ambito di tale lavoro sono stati pubblicati nel volume intitolato Beni culturali a Mileto di Calabria, a cura di Gilberto Floriani, Franesco Palazzolo, Vincenzo Russo e il coordinamento di Ilario Principe (Barbaro, Oppido Mamertina 1982).
Ha collaborato ai «Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna», stampati presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Messina e diretti da Alessandro Marabottini che era stato il suo maestro, e ha pubblicato numerosi saggi su riviste italiane ed europee, nonché diversi volumi di storia.
Ha esordito nella narrativa nel 1989 con Carasace, romanzo incentrato sull’incursione aerea degli alleati sull’aeroporto di Vibo Valentia e sulle zone limitrofe che, nel luglio del 1943, causò la morte di oltre quaranta civili e che ebbe un impatto decisivo sull’immaginario del giovanissimo Giuseppe.
Ed è proprio nel romanzo che Occhiato, pur nel silenzioso “passaggio in ombra” sulla nostra terra, ha acquisito maggior fama.
Il suo romanzo-poema "Oga magoga. Cuntu di rizieri, di orì e del minatòtaro" - "romanzo universo” (nella definizione di Franco Moretti) di fenomenale estensione, frutto di vent’anni di lavoro e pubblicato nel 2000 − è stato accostato a un altro monstrum letterario del Novecento, l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo.
Si pensi che l’opera, frutto di mezzo secolo di lavoro, ebbe quattro redazioni in versi (tra il 1954 e il 1981) e altrettante in prosa (dal 1991 al 2000).
Nel 2006, Occhiato pubblicò Lo sdiregno, rifacimento di Carasace, e, l’anno successivo, L’ultima erranza.
Di Occhiato hanno scritto, tra gli altri, Lia Fava Guzzetta, Emilio Giordano, Antonio Piromalli, Caterina Verbaro, Marino Biondi, Neil Novello, Salvatore Carmelo Trovato, Alfio Lanaia, Francesco Mercatante, Marino Biondi, Nino Borsellino.
Da segnalare l’uscita, nell’aprile del 2019, di un numero monografico della «Rivista di Studi Italiani», a cura di Neil Novello ed Emilio Giordano, dedicato all’opera di Occhiato nel suo complesso e interamente disponibile on line.
La raccolta di saggi include studi editi, ripensati per l’occasione, e inediti.
L’ultimo romanzo di Occhiato, imperniato sull’Opera dei Pupi e intitolato "Opra meravigliosa", è ancora inedito.
Come inedita è anche una raccolta di proverbi risalente al 2007 e denominata ‘A Crisara’. Piccola cernita di proverbi calabresi.
Opere
- Carasace. Il giorno che della carne cristiana si fece tonnina, Progetto 2000, Cosenza 1989.
- Oga Magoga. Cunto di Rizieri, di Orì e del minatòtaro, 3 voll., Progetto 2000, Cosenza 2000 (ripubblicato, a cura di Emilio Giordano, dall’editore Gangemi di Roma nel 2019).
- Lo sdiregno, Ilisso-Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.
- L’ultima erranza, Iride-Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.
Bibliografia
- Antonio Piromalli, Giuseppe Occhiato narratore epico-popolare, «Letteratura e Società», IV, n. 2, maggio-agosto 2002, pp. 35-50.
- Caterina Verbaro, L’invisibile confine. La narrazione epica di Oga Magogatra umano e divino, «Filologia Antica e Moderna», XIII, n. 24, 2003, pp. 257-267.
- Lia Fava Guzzetta,Voci mediterranee tra lingua e letteratura: D’Arrigo, Occhiato, Camilleri, «Civiltà Italiana», Nuova Serie, n. 3, 2004, pp. 309-319.
- Salvatore Carmelo Trovato, Giuseppe Occhiato scrittore di Calabria. Teoria e prassi linguistica, in Gianna Marcato (a cura di), Dialetto. Usi, funzioni, forma, Atti del Convegno, Sappada\Plodn (Belluno), 25-29 giugno 2008, Unipress, Padova 2009, pp. 183-192.
- Emilio Giordano, Nella mente dei morti. Lo spazio letterario dell’ultimo Occhiato, «Forum Italicum», n. 2, 2010, pp. 405-436.
- Emilio Giordano, I mostri, la guerra, gli eroi. La narrativa di Giuseppe Occhiato, prefazione di Lia Fava Guzzetta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.
- Giovanni Russo, Giuseppe Occhiato, il talento di dosare le sfumature del linguaggio, «Corriere della Sera», 22 aprile 2013.
- Emilio Giordano, Gennaro Oriolo (a cura di), La grande magia. Mondo e Oltremondo nella narrativa di Giuseppe Occhiato, Atti del convegno di Firenze del 20 maggio 2011, Edizioni Studium, Roma 2014.
- Neil Novello, Emilio Giordano (a cura di), Mitopoesia dell’eone: cunti, stellari e dicerie. L’opera di Giuseppe Occhiato, «Rivista di Studi Italiani», a. XXXVII, n. 1, aprile 2019, on line al seguente URL: www.rivistadistudiitaliani.it.
Giuseppe Occhiato - Bibliografia. A cura di Giovanni Pititto.
- 1977. Giuseppe Occhiato, La SS. Trinità di Mileto e l’architettura normanna medievale, Abramo, Catanzaro 1977.
- 1984. Giuseppe Occhiato, Una “Memoria” inedita di Ignazio Piperni sull’antica città di Mileto (1744), (in collaborazione con Filippo Bartuli), Graficalabra, Vibo Valentia 1984.
- 1994. Giuseppe Occhiato, La Trinità di Mileto nel romanico italiano, prefazione di Emilia Zinzi, Progetto 2000, Cosenza 1994.
- 2001. Giuseppe Occhiato, Ruggero I d’Altavilla. Breve profilo di un condottiero, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001.
- 2001. Giuseppe Occhiato, Ruggero I d'Altavilla. Breve profilo di un condottiero, Progetto 2000, 2001, pp. 60. Collana: Il meridione come questione. ISBN-10: 8882760774ISBN-13: 9788882760779.
- 2001. Giuseppe Occhiato (a cura di), "Ruggero I e la provincia melitana". Catalogo della mostra, Rubbettino, 2001. ISBN-10: 8849801831 - ISBN-13: 9788849801835.
- 2017. Filippo Ramondino - Francesco Galante (a cura di), Mileto. Studi storici. Miscellanea di ricerche, Adhoc editore,Vibo Valentia , 2017. Tabularium Mileten ; 18. ISBN 978-88-96087-86-2.
Nella foto: Filippo Rev. Ramondino e Francesco Galante, alla presentazione dell'opera a loro cura: "Giuseppe Occhiato. Mileto. Studi storici. Miscellanea di ricerche". Il volume include studi e pubblicazioni di Giuseppe Occhiato, con particolare riferimento a quelli scritti tra la metà degli anni '70 ed il 2003. L'opera si concluderà con un ulteriore volume; ad oggi in elaborazione. Rispettivamente da sinistra a destra: Francesco Galante, l'archeologa Mariangela Preta, Filippo Ramondino.
2017. RAMONDINO. GALANTE. Filippo Ramondino - Francesco Galante (a cura di), Giuseppe Occhiato. Mileto: studi storici. Miscellanea di ricerche, 2016, Vibo Valentia. Editrice: ADHOC · ISBN 978-88-96087-86-2.