Francesco Gonin (Torino, 1808 - Giaveno presso Susa, 1889).
Il Gonin decorò con affreschi palazzi di Torino e di Racconigi; eseguì dipinti ad olio, alcuni conservati nel Palazzo Bianco di Genova ed alla Galleria d'Arte Moderna di Roma.
La sua fama è però legata alle illustrazioni dei Promessi Sposi, eseguite dal 1839 per incarico dello stesso Manzoni, il quale doveva offrire poi all'artista torinese un esemplare del romanzo con la, seguente dedica: "All'ammirabile suo traduttore e carissimo amico Gonin, l'autore".
7 Novembre 2007
Bartolomeo di Monaco
Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”
La scuola non rende un grande tributo a questo autore, facendolo detestare dagli studenti.
Così, bisogna da grandi riprendere in mano questo romanzo storico per apprezzarne il valore.
È accaduto a me che ripetei la lettura del libro tra il 1986 e il 1987, quando avevo oltre quarant’anni, e devo confessare che fui ammirato dallo stile dello scrittore, così elegante e ricco.
Quei periodi lunghi, oggi difficilmente ripetibili, sono destreggiati con grande maestria e ci mostrano le qualità di un narratore di razza.
Numerosi i passi che meriterebbero qui una segnalazione, ma basterà ricordarne alcuni per riscontrare quanto si va dicendo:
il colloquio tra don Rodrigo e fra Cristoforo del capitolo sesto;
il celebre “Addio ai monti” con il quale si conclude il capitolo ottavo; il saccheggio dei forni in Milano del capitolo dodicesimo;
la fuga verso Bergamo e l’incontro con il fiume Adda del capitolo diciassettesimo;
la conversazione tra il conte Attilio e il conte zio del capitolo diciottesimo;
l’esilarante cavalcata di Don Abbondio sulla mula del capitolo ventitreesimo;
la mirabile descrizione della peste nei capitoli trentunesimo e trentaduesimo;
lo struggente ritratto di Cecilia del capitolo trentaquattresimo.
Per non parlare delle figure divenute immortali, come quelle di: Don Abbondio,
Perpetua,
Agnese,
il dottor Azzeccagarbugli,
l’Innominato (celebre la descrizione della sua notte insonne),
don Rodrigo,
il cardinale Federigo Borromeo,
fra Cristoforo,
la monaca di Monza.
Sullo sfondo la guerra dei Trent’anni (pagine degne di nota quelle che descrivono la calata in Italia delle Compagnie di ventura e dei lanzichenecchi).
Ed ora una curiosità: ne “Il Giornale” di sabato 9 dicembre 1995 si scrive, a firma di Giancarlo Meloni, che il manoscritto da cui il Manzoni racconta di aver tratto ispirazione per la sua storia esiste davvero.
Lo scoprì uno studioso torinese, l’italianista Giovanni Getto, nella Biblioteca nazionale di Parigi, nel 1959.
Si tratta di un romanzo del 1644 scritto dal veronese Pace Pasini e intitolato “Historia del cavalier Perduto”.
(Da: bartolomeodimonaco.it/online/manzoni-alessandro/ )
I promessi sposi / Guida alla lettura
L'autore e il romanzo: Alessandro Manzoni
Guida alla lettura: Capitoli
Indice
1 Le edizioni del romanzo
2 La genesi del romanzo
3 La trama
4 I temi
5 Note
Le edizioni del romanzo
La prima idea del romanzo risale al 24 aprile 1821 [1], quando Manzoni cominciò la stesura del Fermo e Lucia, componendo in circa un mese e mezzo i primi due capitoli e la prima stesura dell'Introduzione.
Interruppe però il lavoro per dedicarsi al compimento dell'Adelchi, al progetto poi accantonato della tragedia Spartaco, e alla scrittura dell'ode Il cinque maggio.
Dall'aprile del 1822 il Fermo e Lucia fu ripreso con maggiore lena e portato a termine il 17 settembre 1823 (sarebbe stato pubblicato nel 1915 da Giuseppe Lesca col titolo "Gli sposi promessi").
In questa prima edizione è presente, in nuce, la trama del romanzo. Tuttavia, il Fermo e Lucia non va considerato come laboratorio di scrittura utile a preparare il terreno al futuro romanzo, ma come opera autonoma, dotata di una struttura interna coesa e del tutto indipendente dalle successive elaborazioni dell'autore.
Rimasto per molti anni inedito, il Fermo e Lucia viene oggi guardato con grande interesse.
Anche se la tessitura dell'opera è meno elaborata di quella de I promessi sposi, nei quattro tomi del Fermo e Lucia si ravvisa un romanzo irrisolto a causa delle scelte linguistiche dell'autore che, ancora lontano dalle preoccupazioni che preludono alla terza ed ultima scrittura dell'opera, crea un tessuto verbale ricco, dove s'intrecciano e si alternano tracce di lingua letteraria, elementi dialettali, latinismi e prestiti di lingue straniere.
Nella seconda Introduzione a Fermo e Lucia, l'autore definì la lingua usata
« un composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un po' anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall'una o dall'altra di esse. »
Anche i personaggi appaiono meno edulcorati e forse più pittoreschi di quella che sarà la versione definitiva.
Sullo sfondo la Lombardia del XVII secolo è dipinta come scenario non pacificato, il cui potere politico coincide con l'arbitrio del più forte, la cui ragione (come insegna La Fontaine) è sempre la migliore.
Romanzo dell'arbitrio e della violenza, mostra l' eterna oppressione dei potenti nei confronti degli "umili", riprendendo il tema già presente nell'Adelchi dei "due popoli", quello degli oppressi e quello degli oppressori, vicenda eterna di ogni tempo.
Una seconda stesura dell'opera (la cosiddetta Ventisettana, che è la prima edizione a stampa) fu pubblicata da Manzoni nel 1827, con il titolo I promessi sposi, storia milanese del sec. XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, e riscosse notevole successo.
La struttura più equilibrata (quattro sezioni di estensione pressoché uguale), la decisa riduzione di quello che appariva un "romanzo nel romanzo", ovvero la storia della Monaca di Monza, la scelta di evitare il pittoresco e le tinte più fosche a favore di una rappresentazione più aderente al vero sono i caratteri di questo che è in realtà un romanzo diverso da Fermo e Lucia. [2]
Manzoni non era, tuttavia, soddisfatto del risultato ottenuto, poiché il linguaggio dell'opera era ancora troppo legato alle sue origini lombarde.
Nello stesso 1827 egli si recò, perciò, a Firenze, per risciacquare - come disse - i panni in Arno, e sottoporre il suo romanzo ad un'ulteriore e più accurata revisione linguistica, ispirata al dialetto fiorentino considerato lingua unificatrice.
Ciononostante non sono pochi i lettori del romanzo a preferire la ventisettana per la ricchezza delle sue scelte lessicali, e per il retrogusto ancora schiettamente lombardo, che rendono questa versione decisamente più viva rispetto a quella successiva che viene, normalmente, stampata e di solito studiata a scuola.
Tra il 1840 e il 1842, Manzoni pubblicò quindi la terza ed ultima edizione de I promessi sposi, la cosiddetta Quarantana, cui oggi si fa normalmente riferimento.
Fondamentale, all'interno dell'economia dell'opera, il ruolo che assumono le illustrazioni del piemontese Francesco Gonin, cui l'autore stesso si rivolge per arricchire il testo di un apparato iconografico.
Il rapporto fra Manzoni e Gonin è di grande intesa, lo scrittore guida la mano del pittore nella composizione di questi quadretti.
La forza espressiva delle litografie del Gonin è impressionante, al lettore si rivela un mondo vastissimo di volti e fisionomie, sempre varissime; personaggi che passano dal solenne al grottesco, dall'ascetico al torbido, in una composizione che non trascura mai quella certa, accattivante, ironia che ogni lettore del romanzo ben conosce.
Su quest'ultimo punto si consideri, ad esempio, la vignetta che chiude l'introduzione, dove è di scena lo stesso scrittore, in camicione da notte e pantofole, mentre sfoglia davanti ad un rassicurante camino un librone, che potrebbe essere tanto il resoconto secentesco della vicenda, quanto il romanzo che chi legge ha sotto gli occhi in quel momento.
La più recente critica manzoniana, si pensi solamente a Ezio Raimondi o a Salvatore Silvano Nigro, ha lungamente sottolineato il valore esegetico di questo apparato di immagini, vero e proprio paratesto alla narrazione delle vicende matrimoniali dei due protagonisti.
Le moderne edizioni, che non si rifanno ai criteri della stampa anastatica, privano i lettori di uno strumento essenziale alla comprensione del testo.
Oggi sfugge anche ai più colti fruitori dell'opera di Manzoni che uno dei nodi principali de I promessi sposi consiste proprio nel rapporto che intercorre fra lettera e immagine.
Secondo un tipico cliché della narrativa europea fra Settecento e Ottocento, il narratore prende le mosse da un manoscritto anonimo del XVII secolo, che racconta la storia di Renzo e Lucia.
Nulla sappiamo dell'autore di questo manoscritto, salvo che ha conosciuto da vicino i protagonisti della vicenda, e non si esclude che lo stesso Renzo possa aver reso edotto questo curioso secentista lombardo della sua storia.
Il tòpos della trascrizione della vicenda narrata da un testo o trascritta dalla voce diretta di uno dei protagonisti permette all'autore di giocare sull'ambiguità stessa che sta alla base del moderno romanzo realistico-borghese, ovvero il suo essere un componimento di fantasia che, spesso, non disdegna di proporsi ai suoi lettori come documento storico reale ed affidabile.
Conclude il testo la Storia della colonna infame, in cui Manzoni ricostruisce il clima di intolleranza e ferocia in cui si svolgevano gli assurdi processi contro gli untori, al tempo della peste raccontata del romanzo.
Non è un'appendice ma il vero finale del romanzo, come dimostra l'impaginazione stessa, stesa dallo stesso Manzoni.
La genesi del romanzo
La genesi interna del romanzo I promessi sposi è costituita dalle idee di partenza, dall'ideologia di base che la poetica di Manzoni doveva propagandare.
È stata evinta soprattutto grazie alle lettere che lo stesso scrisse mentre stava preparando le diverse edizioni dell'opera.
Il suo romanzo era fondato, infatti, su tre perni principali: [3]
Il vero per soggetto:
l'autore mette al centro la ricostruzione storica degli eventi che caratterizzarono quei luoghi a quel tempo.
L'utile per scopo:
l'opera deve mirare ad educare l'uomo ai valori che Manzoni vuole diffondere.
L'interessante per mezzo:
l'argomento del romanzo deve essere moderno, popolare, e quindi avere forti legami con la realtà contadina ed operaia.
La genesi esterna, invece, comprende tutte le letture e gli autori che hanno ispirato Manzoni.
Tra le principali abbiamo l'Ivanhoe di Walter Scott, da cui l'autore prende l'ispirazione per la tipologia del romanzo che sarà a sfondo storico, la Storia Milanese (del 1600) di Giuseppe Ripamonti, da cui l'autore prende, appunto, la maggior parte degli avvenimenti storici che verranno intrecciati con le vicende dei personaggi. [4]. Altre fonti sono le opere dell'economista Melchiorre Gioia e del cardinale Federico Borromeo al cui scritto De Pestilentia Manzoni si ispirò per l'episodio della madre di Cecilia.
Secondo il critico Giovanni Getto una fonte per l'opera manzoniana potrebbe essere stata anche la Historia del Cavalier Perduto, romanzo erotico - cavalleresco del XVII secolo scritto dal vicentino Pace Pasini. [5] Il prof. Claudio Povolo dell'Università di Venezia con recenti documentati studi ha dimostrato che una ulteriore fonte del romanzo potrebbe essere la storia di Paolo Orgiano, signorotto di Orgiano (Vicenza), violento, rapitore di donne, condannato al carcere a vita nel processo del 1607. Molte sono le analogie con la vicenda descritta nei Promessi sposi. [6]
Molti personaggi e situazioni del romanzo manzoniano presentano analogie con precedenti opere della letteratura europea. L'argomento è trattato molto esaurientemente anche dal critico Giovanni Getto nel suo libro Manzoni europeo. Per limitarsi ad alcuni cenni, c'è da rilevare una evidente analogia fra il capolavoro manzoniano e i romanzi dello scozzese Walter Scott iniziatore del romanzo storico. Manzoni però elimina gli aspetti favolosi presenti nelle opere di Scott (per esempio, in Ivanhoe nel primo capitolo si parla del "favoloso dragone Wantley" e di "riti della superstizione druidica" ). Esistono rapporti con il gusto inglese del “quotidiano”, tipico del romanzo borghese dell’Inghilterra sette-ottocentesca (Samuel Richardson, Jane Austen, Thomas Hardy, William Thackeray, per citare gli autori più noti), gusto trasferito dal Manzoni sul mondo popolare. Riguardo all’Innominato, sono state notate analogie col mito satanico del “grande ribelle”, personaggio titanico e individualista presente in certi poeti romantici inglesi e tedeschi come Schiller e Byron (ad esempio ne I Masnadieri di Schiller e ne Il Corsaro di Byron). Egidio e, in minor misura, don Rodrigo richiamano gli eroi libertini del Settecento francese, moralmente anticonformisti, dissacratori della tradizione e rinnegatori della virtù nell’esaltazione del desiderio, degli istinti naturali, come i protagonisti dei romanzi del Marchese De Sade (Storia di Juliette, Justine ovvero le disavventure della virtù).
Lucia è la giovane innocente e virtuosa, perseguitata come Clarissa Harlowe dell’omonimo romanzo di Samuel Richardson, inoltre il suo rapimento si può avvicinare a quello di lady Rowena descritto da Walter Scott in Ivanhoe. Il rapimento di Lucia e la sua prigionia nel tetro castello dell’Innominato nonché la descrizione del castello e del suo ambiente (capitolo XX) richiamano analogie con il romanzo gotico, il genere “nero” inglese del Settecento: The monk di Matthew Gregory Lewis, The castle of Otranto di Horace Walpole, The Mysteriers of Udolpho di Ann Radcliffe.
Per la storia di Gertrude si è trovato un riferimento nel romanzo La monaca di Diderot: è la storia della monacazione forzata di una figlia della ricca borghesia. Nel romanzo di Diderot c’è però una avversione contro le istituzioni ecclesiastiche, risalente all'Illuminismo, che è assente in Manzoni. Inoltre si rileva una descrizione più positiva in Diderot in cui manca la cupezza tragica di Manzoni.
Sono riscontrabili echi dal romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau: la descrizione del paesaggio del lago di Ginevra (v. il lago di Como nel romanzo manzoniano), la figura di Giulia (lettera XVIII, III parte) che richiama quella di Lucia. Le avventure di Renzo sono accostabili a quelle del picaro dei romanzi picareschi spagnoli del XVI e XVII secolo. [7]
Note
"come è attestato dalla data che si legge all'inizio del manoscritto autografo". Lanfranco Caretti, Manzoni.Ideologia e stile, Einaudi, Torino, 1975, p.43
Lanfranco Caretti, Manzoni. Ideologia e stile, Einaudi, Torino 1975, pp.46-53
Lettera a Cesare d’Azeglio Sul Romanticismo (PDF), su digila.it. URL consultato l'11 agosto 2011.
I Promessi sposi, ed. Bulgarini, Firenze, 1992, commento di Gilda Sbrilli
http://www.gianniroghi.it/Testi/l%27europeo/6019%20%20%281%29.htm
http://ladomenicadivicenza.it/a_ITA_1634_1.html
Giovanni Getto, Manzoni europeo , Biblioteca europea di cultura, ed. Mursia, 1971.
Questa pagina è stata modificata per l'ultima volta il 13 feb 2012 alle 16:44.
Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons
(Da: https://it.wikibooks.org/wiki/I_promessi_sposi/Guida_alla_lettura )
La sua fama è però legata alle illustrazioni dei Promessi Sposi, eseguite dal 1839 per incarico dello stesso Manzoni, il quale doveva offrire poi all'artista torinese un esemplare del romanzo con la, seguente dedica: "All'ammirabile suo traduttore e carissimo amico Gonin, l'autore".
Bartolomeo di Monaco
Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”
La scuola non rende un grande tributo a questo autore, facendolo detestare dagli studenti.
Così, bisogna da grandi riprendere in mano questo romanzo storico per apprezzarne il valore.
È accaduto a me che ripetei la lettura del libro tra il 1986 e il 1987, quando avevo oltre quarant’anni, e devo confessare che fui ammirato dallo stile dello scrittore, così elegante e ricco.
Quei periodi lunghi, oggi difficilmente ripetibili, sono destreggiati con grande maestria e ci mostrano le qualità di un narratore di razza.
il colloquio tra don Rodrigo e fra Cristoforo del capitolo sesto;
il celebre “Addio ai monti” con il quale si conclude il capitolo ottavo; il saccheggio dei forni in Milano del capitolo dodicesimo;
la fuga verso Bergamo e l’incontro con il fiume Adda del capitolo diciassettesimo;
la conversazione tra il conte Attilio e il conte zio del capitolo diciottesimo;
l’esilarante cavalcata di Don Abbondio sulla mula del capitolo ventitreesimo;
la mirabile descrizione della peste nei capitoli trentunesimo e trentaduesimo;
lo struggente ritratto di Cecilia del capitolo trentaquattresimo.
Perpetua,
Agnese,
il dottor Azzeccagarbugli,
l’Innominato (celebre la descrizione della sua notte insonne),
don Rodrigo,
il cardinale Federigo Borromeo,
fra Cristoforo,
la monaca di Monza.
Sullo sfondo la guerra dei Trent’anni (pagine degne di nota quelle che descrivono la calata in Italia delle Compagnie di ventura e dei lanzichenecchi).
Lo scoprì uno studioso torinese, l’italianista Giovanni Getto, nella Biblioteca nazionale di Parigi, nel 1959.
Si tratta di un romanzo del 1644 scritto dal veronese Pace Pasini e intitolato “Historia del cavalier Perduto”.
(Da: bartolomeodimonaco.it/online/manzoni-alessandro/ )
I promessi sposi / Guida alla lettura
L'autore e il romanzo: Alessandro Manzoni
Guida alla lettura: Capitoli
Indice
1 Le edizioni del romanzo
2 La genesi del romanzo
3 La trama
4 I temi
5 Note
La prima idea del romanzo risale al 24 aprile 1821 [1], quando Manzoni cominciò la stesura del Fermo e Lucia, componendo in circa un mese e mezzo i primi due capitoli e la prima stesura dell'Introduzione.
Interruppe però il lavoro per dedicarsi al compimento dell'Adelchi, al progetto poi accantonato della tragedia Spartaco, e alla scrittura dell'ode Il cinque maggio.
Dall'aprile del 1822 il Fermo e Lucia fu ripreso con maggiore lena e portato a termine il 17 settembre 1823 (sarebbe stato pubblicato nel 1915 da Giuseppe Lesca col titolo "Gli sposi promessi").
In questa prima edizione è presente, in nuce, la trama del romanzo. Tuttavia, il Fermo e Lucia non va considerato come laboratorio di scrittura utile a preparare il terreno al futuro romanzo, ma come opera autonoma, dotata di una struttura interna coesa e del tutto indipendente dalle successive elaborazioni dell'autore.
Rimasto per molti anni inedito, il Fermo e Lucia viene oggi guardato con grande interesse.
Anche se la tessitura dell'opera è meno elaborata di quella de I promessi sposi, nei quattro tomi del Fermo e Lucia si ravvisa un romanzo irrisolto a causa delle scelte linguistiche dell'autore che, ancora lontano dalle preoccupazioni che preludono alla terza ed ultima scrittura dell'opera, crea un tessuto verbale ricco, dove s'intrecciano e si alternano tracce di lingua letteraria, elementi dialettali, latinismi e prestiti di lingue straniere.
Nella seconda Introduzione a Fermo e Lucia, l'autore definì la lingua usata
« un composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un po' anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall'una o dall'altra di esse. »
Anche i personaggi appaiono meno edulcorati e forse più pittoreschi di quella che sarà la versione definitiva.
Sullo sfondo la Lombardia del XVII secolo è dipinta come scenario non pacificato, il cui potere politico coincide con l'arbitrio del più forte, la cui ragione (come insegna La Fontaine) è sempre la migliore.
Romanzo dell'arbitrio e della violenza, mostra l' eterna oppressione dei potenti nei confronti degli "umili", riprendendo il tema già presente nell'Adelchi dei "due popoli", quello degli oppressi e quello degli oppressori, vicenda eterna di ogni tempo.
Una seconda stesura dell'opera (la cosiddetta Ventisettana, che è la prima edizione a stampa) fu pubblicata da Manzoni nel 1827, con il titolo I promessi sposi, storia milanese del sec. XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, e riscosse notevole successo.
La struttura più equilibrata (quattro sezioni di estensione pressoché uguale), la decisa riduzione di quello che appariva un "romanzo nel romanzo", ovvero la storia della Monaca di Monza, la scelta di evitare il pittoresco e le tinte più fosche a favore di una rappresentazione più aderente al vero sono i caratteri di questo che è in realtà un romanzo diverso da Fermo e Lucia. [2]
Manzoni non era, tuttavia, soddisfatto del risultato ottenuto, poiché il linguaggio dell'opera era ancora troppo legato alle sue origini lombarde.
Nello stesso 1827 egli si recò, perciò, a Firenze, per risciacquare - come disse - i panni in Arno, e sottoporre il suo romanzo ad un'ulteriore e più accurata revisione linguistica, ispirata al dialetto fiorentino considerato lingua unificatrice.
Ciononostante non sono pochi i lettori del romanzo a preferire la ventisettana per la ricchezza delle sue scelte lessicali, e per il retrogusto ancora schiettamente lombardo, che rendono questa versione decisamente più viva rispetto a quella successiva che viene, normalmente, stampata e di solito studiata a scuola.
Tra il 1840 e il 1842, Manzoni pubblicò quindi la terza ed ultima edizione de I promessi sposi, la cosiddetta Quarantana, cui oggi si fa normalmente riferimento.
Fondamentale, all'interno dell'economia dell'opera, il ruolo che assumono le illustrazioni del piemontese Francesco Gonin, cui l'autore stesso si rivolge per arricchire il testo di un apparato iconografico.
Il rapporto fra Manzoni e Gonin è di grande intesa, lo scrittore guida la mano del pittore nella composizione di questi quadretti.
La forza espressiva delle litografie del Gonin è impressionante, al lettore si rivela un mondo vastissimo di volti e fisionomie, sempre varissime; personaggi che passano dal solenne al grottesco, dall'ascetico al torbido, in una composizione che non trascura mai quella certa, accattivante, ironia che ogni lettore del romanzo ben conosce.
Su quest'ultimo punto si consideri, ad esempio, la vignetta che chiude l'introduzione, dove è di scena lo stesso scrittore, in camicione da notte e pantofole, mentre sfoglia davanti ad un rassicurante camino un librone, che potrebbe essere tanto il resoconto secentesco della vicenda, quanto il romanzo che chi legge ha sotto gli occhi in quel momento.
La più recente critica manzoniana, si pensi solamente a Ezio Raimondi o a Salvatore Silvano Nigro, ha lungamente sottolineato il valore esegetico di questo apparato di immagini, vero e proprio paratesto alla narrazione delle vicende matrimoniali dei due protagonisti.
Le moderne edizioni, che non si rifanno ai criteri della stampa anastatica, privano i lettori di uno strumento essenziale alla comprensione del testo.
Oggi sfugge anche ai più colti fruitori dell'opera di Manzoni che uno dei nodi principali de I promessi sposi consiste proprio nel rapporto che intercorre fra lettera e immagine.
Secondo un tipico cliché della narrativa europea fra Settecento e Ottocento, il narratore prende le mosse da un manoscritto anonimo del XVII secolo, che racconta la storia di Renzo e Lucia.
Nulla sappiamo dell'autore di questo manoscritto, salvo che ha conosciuto da vicino i protagonisti della vicenda, e non si esclude che lo stesso Renzo possa aver reso edotto questo curioso secentista lombardo della sua storia.
Il tòpos della trascrizione della vicenda narrata da un testo o trascritta dalla voce diretta di uno dei protagonisti permette all'autore di giocare sull'ambiguità stessa che sta alla base del moderno romanzo realistico-borghese, ovvero il suo essere un componimento di fantasia che, spesso, non disdegna di proporsi ai suoi lettori come documento storico reale ed affidabile.
Conclude il testo la Storia della colonna infame, in cui Manzoni ricostruisce il clima di intolleranza e ferocia in cui si svolgevano gli assurdi processi contro gli untori, al tempo della peste raccontata del romanzo.
Non è un'appendice ma il vero finale del romanzo, come dimostra l'impaginazione stessa, stesa dallo stesso Manzoni.
La genesi interna del romanzo I promessi sposi è costituita dalle idee di partenza, dall'ideologia di base che la poetica di Manzoni doveva propagandare.
È stata evinta soprattutto grazie alle lettere che lo stesso scrisse mentre stava preparando le diverse edizioni dell'opera.
Il suo romanzo era fondato, infatti, su tre perni principali: [3]
Il vero per soggetto:
l'autore mette al centro la ricostruzione storica degli eventi che caratterizzarono quei luoghi a quel tempo.
L'utile per scopo:
l'opera deve mirare ad educare l'uomo ai valori che Manzoni vuole diffondere.
L'interessante per mezzo:
l'argomento del romanzo deve essere moderno, popolare, e quindi avere forti legami con la realtà contadina ed operaia.
La genesi esterna, invece, comprende tutte le letture e gli autori che hanno ispirato Manzoni.
Tra le principali abbiamo l'Ivanhoe di Walter Scott, da cui l'autore prende l'ispirazione per la tipologia del romanzo che sarà a sfondo storico, la Storia Milanese (del 1600) di Giuseppe Ripamonti, da cui l'autore prende, appunto, la maggior parte degli avvenimenti storici che verranno intrecciati con le vicende dei personaggi. [4]. Altre fonti sono le opere dell'economista Melchiorre Gioia e del cardinale Federico Borromeo al cui scritto De Pestilentia Manzoni si ispirò per l'episodio della madre di Cecilia.
Secondo il critico Giovanni Getto una fonte per l'opera manzoniana potrebbe essere stata anche la Historia del Cavalier Perduto, romanzo erotico - cavalleresco del XVII secolo scritto dal vicentino Pace Pasini. [5] Il prof. Claudio Povolo dell'Università di Venezia con recenti documentati studi ha dimostrato che una ulteriore fonte del romanzo potrebbe essere la storia di Paolo Orgiano, signorotto di Orgiano (Vicenza), violento, rapitore di donne, condannato al carcere a vita nel processo del 1607. Molte sono le analogie con la vicenda descritta nei Promessi sposi. [6]
Molti personaggi e situazioni del romanzo manzoniano presentano analogie con precedenti opere della letteratura europea. L'argomento è trattato molto esaurientemente anche dal critico Giovanni Getto nel suo libro Manzoni europeo. Per limitarsi ad alcuni cenni, c'è da rilevare una evidente analogia fra il capolavoro manzoniano e i romanzi dello scozzese Walter Scott iniziatore del romanzo storico. Manzoni però elimina gli aspetti favolosi presenti nelle opere di Scott (per esempio, in Ivanhoe nel primo capitolo si parla del "favoloso dragone Wantley" e di "riti della superstizione druidica" ). Esistono rapporti con il gusto inglese del “quotidiano”, tipico del romanzo borghese dell’Inghilterra sette-ottocentesca (Samuel Richardson, Jane Austen, Thomas Hardy, William Thackeray, per citare gli autori più noti), gusto trasferito dal Manzoni sul mondo popolare. Riguardo all’Innominato, sono state notate analogie col mito satanico del “grande ribelle”, personaggio titanico e individualista presente in certi poeti romantici inglesi e tedeschi come Schiller e Byron (ad esempio ne I Masnadieri di Schiller e ne Il Corsaro di Byron). Egidio e, in minor misura, don Rodrigo richiamano gli eroi libertini del Settecento francese, moralmente anticonformisti, dissacratori della tradizione e rinnegatori della virtù nell’esaltazione del desiderio, degli istinti naturali, come i protagonisti dei romanzi del Marchese De Sade (Storia di Juliette, Justine ovvero le disavventure della virtù).
Lucia è la giovane innocente e virtuosa, perseguitata come Clarissa Harlowe dell’omonimo romanzo di Samuel Richardson, inoltre il suo rapimento si può avvicinare a quello di lady Rowena descritto da Walter Scott in Ivanhoe. Il rapimento di Lucia e la sua prigionia nel tetro castello dell’Innominato nonché la descrizione del castello e del suo ambiente (capitolo XX) richiamano analogie con il romanzo gotico, il genere “nero” inglese del Settecento: The monk di Matthew Gregory Lewis, The castle of Otranto di Horace Walpole, The Mysteriers of Udolpho di Ann Radcliffe.
Per la storia di Gertrude si è trovato un riferimento nel romanzo La monaca di Diderot: è la storia della monacazione forzata di una figlia della ricca borghesia. Nel romanzo di Diderot c’è però una avversione contro le istituzioni ecclesiastiche, risalente all'Illuminismo, che è assente in Manzoni. Inoltre si rileva una descrizione più positiva in Diderot in cui manca la cupezza tragica di Manzoni.
Sono riscontrabili echi dal romanzo epistolare Giulia o la nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau: la descrizione del paesaggio del lago di Ginevra (v. il lago di Como nel romanzo manzoniano), la figura di Giulia (lettera XVIII, III parte) che richiama quella di Lucia. Le avventure di Renzo sono accostabili a quelle del picaro dei romanzi picareschi spagnoli del XVI e XVII secolo. [7]
Note
"come è attestato dalla data che si legge all'inizio del manoscritto autografo". Lanfranco Caretti, Manzoni.Ideologia e stile, Einaudi, Torino, 1975, p.43
Lanfranco Caretti, Manzoni. Ideologia e stile, Einaudi, Torino 1975, pp.46-53
Lettera a Cesare d’Azeglio Sul Romanticismo (PDF), su digila.it. URL consultato l'11 agosto 2011.
I Promessi sposi, ed. Bulgarini, Firenze, 1992, commento di Gilda Sbrilli
http://www.gianniroghi.it/Testi/l%27europeo/6019%20%20%281%29.htm
http://ladomenicadivicenza.it/a_ITA_1634_1.html
Giovanni Getto, Manzoni europeo , Biblioteca europea di cultura, ed. Mursia, 1971.
Questa pagina è stata modificata per l'ultima volta il 13 feb 2012 alle 16:44.
Il testo è disponibile secondo la licenza Creative Commons
(Da: https://it.wikibooks.org/wiki/I_promessi_sposi/Guida_alla_lettura )
Manzoni copione. Articolo di Giorgio Di Rienzo
Sfoglio il resto lentamente. Soffoco a stento la mia totale assoluta mancanza di attesa. Come dunque finisce questa di certo non si può dire vivacissima Historia di Fermo e Lucia?
Sfoglio il resto lentamente. Soffoco a stento la mia totale assoluta mancanza di attesa. Come dunque finisce questa di certo non si può dire vivacissima Historia di Fermo e Lucia?
- E cos'è questo?
Un foglietto ingiallito di articolo dei tempi in cui pure l'avevo, l'Attesa. E' pure esso roso dal tempo:
"Renzo e Lucia, processo per stupro - una nuova ipotesi sulla fonte del romanzo di Alessandro Manzoni.
La scoperta degli atti di un processo, da parte dello storico Claudio Povolo, nell' archivio storico di Venezia. il signorotto rapi' la bella contadina. tutto (o quasi) accadde come nei " promessi sposi " : la vicenda di Fiore e Paolo Orgiano come Lucia e don Rodrigo. i critici: ma nel teatro della letteratura la realta' cambia volto. perche' non e' importante la scoperta di eventuali fonti d' ispirazione dello scrittore Dall' Archivio di Stato di Venezia una storia secentesca che si svolse a Vicenza e si concluse in tribunale. E' questa la fonte del romanzo di Alessandro Manzoni?
Renzo e Lucia, processo per stupro Il signorotto rapi' la bella contadina. Tutto (o quasi) accadde come nei "Promessi sposi".
Un giovane storico vicentino, Claudio Povolo, ha scoperto un nuovo, possibile manoscritto dell' "Anonimo" dei Promessi sposi.
Di una sua "Memoria", presentata all"Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti", ha dato notizia Vittore Branca sul "Sole 24 Ore".
Ne e' nato un caso a cui "Panorama" (...) dedica un servizio nelle pagine culturali.
Scoprire la fonte dei Promessi sposi e' un vecchio gioco. Incomincio' Stefano Stampa, figliastro di Manzoni.
"Sai cos'e' stato che mi diede l' idea di fare il romanzo?", gli confido' il patrigno:
"E' stata quella Grida, che mi venne sotto gli occhi per combinazione, e che faccio leggere dal dottor Azzeccagarbugli a Renzo, dove si trovano, fra le altre quelle penali contro chi minaccia un parroco perche' non faccia un matrimonio".
Poi venne la supposizione del Giorgini, genero di Manzoni, che metteva all'origine dei Promessi sposi un "mix" di letture che andava da Walter Scott al Ripamonti e al Gioia.
Cessate le voci dei testimoni, incominciarono le indagini degli eruditi.
Fino all'ipotesi di Giovanni Getto, che, ricco di una sterminata conoscenza della letteratura barocca, suggeriva in Pace Pasini l' "anonimo" e nella "Historia del cavalier perduto" il manoscritto.
C'e' una coincidenza di trama.
L'Historia racconta nel secondo capitolo la vicenda di una Luciana amata da Druso, la quale, rapita dal terribile Strappacuori, grazie a una conversione clamorosa, riesce a fuggire.
Ma per Getto non si tratta di una semplice coincidenza di trama.
Tra I promessi sposi e l'Historia del cavalier perduto molti sono i punti di contatto linguistico: e questi contano di piu' .
Disegno di Gallo Gallina (Cremona, 1796 - Milano, 1874)
Ed ecco ora spuntare un' altra interessante traccia.
Claudio Povolo ha frugato nell'Archivio di Stato di Venezia e, in una busta dei "Processi delegati ai Rettori" dal Consiglio dei Dieci, ha trovato una storia simile a quella di Renzo e Lucia.
E' il 1604.
Un signorotto vicentino, Paolo Orgiano, protetto da un potente conte zio dei Fracanzan e spalleggiato da un cugino Tiberio, scavezzacollo e scellerato come lui, insidia Fiore, una bella contadinotta diciassettenne, orfana di padre.
Fiore resiste alle lusinghe e sposa Vincenzo Galvan, un giovane contadino da lei amato.
Passa qualche tempo e in una sera d'inverno il signorotto ordina il rapimento della giovane: con l' aiuto dei suoi "bravi" fa arrivare la fresca sposa nel proprio palazzotto e li' la violenta con ferocia.
Lucia Fiore dunque fu di Paolo Orgiano don Rodrigo.
Non solo.
Fiore fu sodomizzata in quella notte dello stupro.
"Consta - si legge negli atti del processo celebrato l' anno dopo - che tutta quella notte voi (Paolo Orgiano) la conosceste carnalmente et anco due volte dalle parti posteriori; et ella medesima, tutta vergognosa della forza patita... si querela che la conoscesse violentemente anche contra natura... e che non volendo a modo alcuno sopportare un tal vituperio la costringeste con minacce".
Poi Paolo, probabilmente affaticato dalle sue formidabili maschili prestazioni, si addormento'.
Fatto si e' che Fiore, violata, umiliata, fuggi' discinta e scalza dal palazzotto del suo tiranno: torno' avvilita dal marito.
Renzo Vincenzo resto' cornuto, ma non dovette aspettare la peste giustiziera per placare la propria sete di vendetta.
Grazie a un fra' Lodovico, religioso impavido, difensore di ogni perseguitato, ottenne giustizia dal Tribunale.
Paolo Orgiano, forse difeso da un mediocre Azzeccagarbugli, fu condannato al carcere a vita da un incorruttibile giudice: mori' in carcere otto anni dopo.
Questa sarebbe insomma la vera storia dei Promessi sposi.
Claudio Povolo allega pezze d' appoggio, raccolte con l'abilita' di ottimo detective dell'erudizione.
Manzoni aveva amici vicentini e veneziani, di cui si danno i nomi.
Da questi amici conobbe la vicenda descritta nel processo, su cui imposto' il canovaccio del romanzo.
Nei Promessi sposi nascose o meglio travesti' persone, sposto' luoghi e date, per depistare contemporanei e posteri.
Niente di nuovo nella sostanza.
Gli storici, gli eruditi, non tollerano l' ambizione dei letterati di farsi testimoni "totali" della storia e allora, pur di svelarli come "copioni" delle loro noiose e precise cronologie, montano con grande perizia, indizi e tracce in una dimostrazione astratta di verita' , mandando in stato di grazia i voyeur della letteratura.
Perche' , saranno certo in molti a compiacersi del fatto che Lucia sia stata posseduta (nella realta' dei fatti) da don Rodrigo e tanto piu' saranno felici nel sapere che l'intoccabile, silenziosissima, eroina dei Promesso sposi abbia deposto in pubblico sulla sua squallida avventura.
"Volse - dichiaro' del suo persecutore - aver da far con me anco de drio come fanno le bestie".
Manzoni allora fu insieme copione e baro.
Non cambia nulla.
Manzoni copia tutto per frammenti e ci pasticcia sopra.
Non se ne vergogna affatto.
Anzi non fruga solo, famelico, fra verbali di processi o manoscritti.
Copia pezzetti qua e la' sparsi in tutta la letteratura dell'Occidente.
Poi monta questi ritagli, li cuce con attenzione.
Strappa di nuovo cio' che ha cucito e, con pazienza, mette un' altra volta insieme mille brandelli, in un gioco, faticoso e originale, di composizione nella scrittura.
Il gioco porta dentro a un labirinto, nel quale sarebbe bene sapersi smarrire senza paura, invece di cercare facili vie di uscita".
Giorgio Di Rienzo
"I critici: ma nel teatro della letteratura la realta' cambia volto.
"La fonte scovata da Claudio Povolo puo' incidere sul giudizio che gli studiosi hanno espresso finora sul romanzo del Manzoni?
E fino a che punto puo' essere importante rintracciare fatti e documenti che possono essere alla base di un capolavoro letterario?
La Lucia promessa a Renzo nella realta' sarebbe stata una povera contadinella veneta, orfana di padre, quindi facile preda, fatta rapire e stuprata (peggio, ripetutamente sodomizzata) da un nobilotto di campagna.
Se e' cosi' , possiamo immaginare l' imbarazzo di Manzoni, il suo stato d' animo nel raccontare quella storia.
"Non e' questo il punto", dice l' autorevole critico Carlo Bo.
E spiega che puo' darsi benissimo vi siano dei precedenti rispetto al romanzo manzoniano, ma che il valore dell' opera dipende da altre cose.
Quali? "Dalla capacita' di creazione", risponde Bo.
E aggiunge: "Manzoni ha una concezione morale della vita, quindi per lui i fatti sono dei pretesti, delle figure di sollecitazione.
Per fare un' opera come "I Promessi sposi" ci vuole ben altro che dei precedenti capaci di sollecitare la fantasia".
Per Bo, in sostanza, "si tratta di passare dal teatro della vita . oppure, come in questo caso, dal teatro della letteratura a una interpretazione del mondo, dei sentimenti e delle passioni umane".
Giancarlo Vigorelli, presidente del Centro nazionale di studi manzoniani, afferma che si dovra' aspettare la pubblicazione delle carte di "tanta scoperta", anche se "l'avallo gia' dato, in un suo articolo, da Vittore Branca e' garanzia d'attendibilita' ".
Tuttavia, ricordando anche la precedente scoperta di Giovanni Getto, relativa alla secentesca "Historia del cavalier perduto" di Pace Pasini, Vigorelli sostiene che "queste restano ricerche marginali rispetto alla creazione del romanzo manzoniano".
"Del resto", aggiunge, "lo stesso Manzoni, se da un lato nascondeva certe letture e fonti, dall' altro era il primo ad ammettere di avere rinvenuto "un dilavato e graffiato autografo".
Altre fonti, tutte benvenute, potrebbero saltar fuori, ma nei riguardi del Manzoni sara' bene ricordare che per lui il romanzo valeva per la sua verita', piu' che per quella realta' che pure lo condizionava".
Per il filologo Cesare Segre, la scoperta di Claudio Povolo sarebbe un "precedente oggettivo, che dimostra come gli scrittori siano sempre legati a un contesto - in questo caso storico - da cui possono trarre spunti".
Ma anche Segre e' dell' opinione che questo non tocca la grandezza, il genio dello scrittore: "Il valore non si giudica sulle sue invenzioni.
Basta pensare a grandi scrittori come Racine, i quali si rifacevano a tragedie greche, riprendendone piu' o meno fedelmente la trama.
In ogni caso, di racconti di ragazze rapite e delle quali s' impediva il matrimonio abbonda la letteratura barocca.
Anche di questo Manzoni avra' certamente avuto conoscenza".
Matteo Collura
De Rienzo Giorgio - Collura Matteo, Corriere della Sera, (9 luglio 1993), Pagina 27".
Lo rileggo. Ma cos'è questo concetto che vorrebbe apparire come dai caratteri problematici riferiti ad una manzoniana realtà inconoscibile ed indescrivibile che, comunque sia, la recensione dice di scorgere "al fondo" di un fenomeno che sostiene osservato, su uno sfondo - quale? quello del Monaco forse sulla Spiaggia? - al di là di una savianica in forse fugace apparenza del monaco folle, Tito, che scempia la Donna di Legno?
Laconicamente oscuro l'articolo con il semplice richiuderlo nella sua tomba in cui moltissimo fa ho pensato bene di seppellirlo.
E riprendo a leggere il mio libro.
Un buono robusto bicchiere di certo mi aiuta nell'approcciarmi ad uno dei temi più ostici di tali mie letture notturne: "Il Bacio di Giuda"
Disegno di Gallo Gallina (Cremona, 1796 - Milano, 1874).
Illustrazione de I Promessi Sposi
"Renzo all'osteria della luna piena « tirato fuori il terzo e ultimo di que' panì raccolti sotto la croce di san Dionigi, l'alzò per aria, gridando: « ecco il pane della provvidenza! »
All'esclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò:
« Viva il pane a buon mercato! »
«A buon mercato?» disse Renzo: ''gratis et amore».
«Meglio, meglio».
« Ma, » soggiunse subito Renzo, « non vorrei che lor signori pensassero a male.
Non è ch'io l'abbia, come si suol dire, sgraffignato. L'ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo ».
« Bravo! bravo » gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de' quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero".
All'esclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò:
« Viva il pane a buon mercato! »
«A buon mercato?» disse Renzo: ''gratis et amore».
«Meglio, meglio».
« Ma, » soggiunse subito Renzo, « non vorrei che lor signori pensassero a male.
Non è ch'io l'abbia, come si suol dire, sgraffignato. L'ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo ».
« Bravo! bravo » gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de' quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero".
Disegno di Gallo Gallina (Cremona, 1796 - Milano, 1874).
Illustrazione de I Promessi Sposi
"Renzo all'osteria della luna piena « tirato fuori il terzo e ultimo di que' panì raccolti sotto la croce di san Dionigi, l'alzò per aria, gridando: « ecco il pane della provvidenza! »
All'esclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò:
« Viva il pane a buon mercato! »
«A buon mercato?» disse Renzo: ''gratis et amore».
«Meglio, meglio».
« Ma, » soggiunse subito Renzo, « non vorrei che lor signori pensassero a male.
Non è ch'io l'abbia, come si suol dire, sgraffignato. L'ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo ».
« Bravo! bravo » gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de' quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero".
All'esclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò:
« Viva il pane a buon mercato! »
«A buon mercato?» disse Renzo: ''gratis et amore».
«Meglio, meglio».
« Ma, » soggiunse subito Renzo, « non vorrei che lor signori pensassero a male.
Non è ch'io l'abbia, come si suol dire, sgraffignato. L'ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo ».
« Bravo! bravo » gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de' quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero".
Roberto Focosi
(Milano, 1806 - Milano, 1862)
Illustrazioni de I Promessi Sposi.
"Litografia da un disegno di Roberto Focosi, raffigurante Renzo sul carro dei monatti; e un monatto che, per far fuggire gli inseguitori, « strappato d'addosso a un cadavere un laido cencio, l'annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l'alzò come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo, gridando: «aspetta, canaglia! » A quell'atto, fuggiron tutti, inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di nemici, e calcagni che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere».
V'è in questo disegno il particolare anacronistico del Duomo sullo sfondo con già la statua della Madonnina: che fu messa in opera più d'un secolo dopo: precisamente nel 1774".
V'è in questo disegno il particolare anacronistico del Duomo sullo sfondo con già la statua della Madonnina: che fu messa in opera più d'un secolo dopo: precisamente nel 1774".
Alessandro Guardassoni
(Bologna, 1819 - Bologna, 1888)
La conversione dell'Innominato
(dall'Album dell'Esposizione di Belle Arti in Milano, 1858)
Copertina di
La Milano dei Promessi Sposi.
Pubblicazione edita dall'Ufficio Stampa del Comune di Milano.
Referenze fotografiche:
Civica Raccolta delle Stampe ( Achille Bertarelli)
Museo di Milano
Biblioteca Comunale
Biblioteca d'Arte
Medagliere Milanese
Archivio Storico
Museo Teatrale alla Scala
Santo Gioia della RAI Radiotelevisione Italiana.
La mostra è stata promossa
dal Prof. Dott. Gian Guido Belloni.
L'allestimento è stato curato dal Prof. Domenico Petrosino.
L'esecuzione fotografica della Ditta Saporetti è stata diretta da Pantaleo Di Marzo.
Hanno collaborato :
Fernanda Marini, Severo Corti e Ovidio Canesi, tutti della Direzione delle Civiche Raccolte d'Arte.
(Da colophon)
1993. Vittore Branca, “I Promessi sposi di Vicenza. Le prepotenze di un Don Rodrigo e l’onestà di un Fra Cristoforo in una storia vera del Seicento veneto”, in Il Sole 24 ORE, domenica, 27 giugno 1993.
Vittore Branca, I promessi sposi di Vicenza: una storia vera
Negli Archivi Storici dello Stato di Venezia vengono ritrovati gli atti del processo contro un tale Paolo Orgiano, signorotto prepotente di un paese, per gli atti di persecuzione e violenza contro le giovani del paese. Dalla loro lettura Vittore Branca (1913-2004), un protagonista della vita culturale italiana del Novecento, ricava elementi di confronto e di analogia con la vicenda di Renzo, Lucia e don Rodrigo (e non manca neppure un provvidenziale padre Cristoforo), che se non giunge a un rapporto diretto di conoscenza del testo sicuramente illustra con efficacia la realtà sociale di un diffuso malcostume dell’epoca.
Notti di oltracotanti violenze da parte di signorotti, ancora in velleità da feudatari, su villani di ambo i sessi, quelle nella bassa Vicentina all’inizio del Seicento. Si scatenava, con impudenza da impunibile, nel villaggio tra Lonigo e Este, da lui dominato, Orgiano, quel don Rodrigo – don Giovanni da strapazzo che era il venticinquenne despota locale, Paolo Orgiano. Vantava un’antica nobiltà, intrecciata anche, attraverso delitti e faide e matrimoni, coi Fracanzan, e un consistente patrimonio fondiario e mobiliare. E la sua impunità era garantita, oltre che dal superstite clima feudale, da un potente conte-zio: il fratello della madre, Settimio Fracanzan, omicida di un rivale, ma, riuscito a passare, sia pur con difficoltà e prigionie, al di sopra della legge per la sua astuzia e la sua prepotenza e l’autorità della famiglia e della consorteria patrizia. Settimio sarebbe stato l’unico che avrebbe potuto frenare i soprusi continui che Paolo faceva soffrire alla misera società contadina. Era sì ancora sottomessa e umiliata come da secoli e secoli, ma proprio in quegli anni aveva manifestato una certa insofferenza verso le sopraffazioni nobiliari. Al conte-zio Settimio non riusciva sgradito quindi il clima di intimidazioni e di arbitri stabilito dal nipote tirannello campagnolo.
Era un tirannello spesso infoiato e violento con le belle villane del luogo: “sete sparso per uomo che n’abbia negoziate infinite donne anco contro natura” gli dirà il giudice, nel processo che citeremo, a proposito di Isabetta Fideletta condotta da sgherri a forza alla casa di Paolo e da lui sodomizzata, e a proposito di Angela violentata selvaggiamente e che piangendo esclamava “mi ha rovinata dal mondo, avendomi tolto ogni mio onore”. A molte giovani del villaggio veniva impedito il matrimonio, i fidanzati erano minacciati e bastonati e feriti dai “bravi” del signorotto stesso, che voleva per sé quelle belle prede. Alcune delle concupite riuscivano a concludere nozze più o meno clandestine, o si allontanavano dal paese per evitare il peggio.
Invece Fiore, povera ma avvenente orfana diciassettenne convivente con la madre vedova, resiste alle attenzioni pesantemente pressanti, tra profferte e minacce, del giovane nobile; e convola a giuste e oneste nozze con Vincenzo Galvan. Ma, poco dopo, una notte dell’inverno del 1604 è dai “bravi” di Paolo prelevata a forza dalla sua casa e trascinata nella dimora dell’Orgiano e violentemente stuprata e sodomizzata da lui e dal cugino Tiberto, figlio di Settimio: “Consta in processo – registra il giudice che citeremo – che tutta quella notte voi (Paolo) la conosceste carnalmente et anco due volte dalle parti posteriori; et elle medesima, tutta vergognosa della forza patita, ... si querela che la conosceste violentemente anche contro natura ... e che non volendo a modo alcuno sopportare un tal vituperio la costringesti con minacce...” “Volse aver da far ancor de drio come fanno le bestie... Io crisava e egli mi voleva dar dei pugni”, dichiara Fiore. E poi fugge discinta e scalza e giunge a casa sua in condizioni pietose, “anzi vien detto” aggiunge il giudice “che per aver fatto quel viaggio senza niente in piedi se li era rovinati i piedi, in modo che per alquanti giorni non puoté caminare...”.
Onde si vede che la meschina parla per termine di verità, portando tanti particolari come fa e non essendo verisimile che volesse vergognar se medesima sconfessando voi che sete reso formidabile (cioè “spaventoso”, “tremendo”) per le vostre operazioni in quei paesi del Visintin, se la forza della verità non la necessitasse a così fare.
La forza della verità – cioè la forza dell’evidenza dei fatti, confermata dalle testimonianze delle molte persone offese e di coloro che suffragavano la deposizione – era quella che colpiva nell’istruttoria l’onesto e intelligente giudice Giuseppe Medolago. Era “una forza che emergeva prorompente dal fascicolo istruttorio” nel processo svoltosi a Padova, in più riprese, dal 24 marzo al 15 settembre 1607, per volere del Consiglio dei Dieci di Venezia nell’ambito di procedimenti promossi dal settembre 1605 contro le prepotenze di alcuni esponenti della nobiltà vicentina (Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci, Processi delegati ai Rettori, busta 3). Gridava così forte quella “forza della verità” che induceva il giudice “a sorvolare sulle tante disquisizioni e sui tanti distinguo che i testi giuridici dell’epoca prevedevano come requisiti essenziali di una buona testimonianza. Ed era questa forza della verità che l’aveva profondamente convinto della colpevolezza dell’imputato” pur nobile, pur potente e prepotente, pur avvezzo all’impunità . Così ora illustra ampiamente e rigorosamente in una ampia, documentatissima, appassionante memoria, presentata per la stampa da Gaetano Cozzi e da me all’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, un giovane ma già autorevole storico vicentino, Claudio Povolo (che vivamente ringrazio per avermi consentito questa anticipazione in cui ho usato e userò più volte sue parole stesse). La “forza della verità” si poteva facilmente fare strada perché dietro quei villani c’era un sicuro confortatore e un coraggioso e fermo accusatore degli scellerati sopraffattori. Era riuscito persino a smuovere l’intera comunità di Orgiano convincendola a inviare a Vicenza e poi addirittura a Venezia, tramite due suoi procuratori, denuncia alla Signoria di quanto era accaduto e accadeva continuamente nel villaggio. Era un frate, aveva nome Lodovico (Lodovico Oddi); era stato pietoso raccoglitore in confessionale e fuori confessionale delle lagrime e dei lamenti di quelle povere giovani. E anch’egli sarà vittima delle malizie e delle calunnie del Conte-Zio Settimio simille a quelle di Attilio e don Rodrigo al Conte-Zio contro un altro Lodovico, poi padre Cristoforo (“protegge una contadinotta... e ha per questa creatura ... una carità molto gelosa”). Settimio non vedeva l’ora di togliere di mezzo un irriducibile oppositore, e operava quindi contro di lui pervicacemente a tutti i livelli: per questo Lodovico non sarà risparmiato dal provinciale e dalla Curia, come Cristoforo non lo fu dal Padre provinciale.
Eppure già al Concilio di Trento, come ha rilevato Gaetano Cozzi, i vescovi, trattando del matrimonio, erano stati categorici contro le violenze e i ricatti esercitati spesso dai potenti sulle giovani. Le stesse “istituzioni civili e religiose sulla spinta di una nuova sensibilità si erano apprestate a combatterli” come nota Povolo.
All’integerrimo Medolago padre Ludovico, quasi anticipazione del padre Cristoforo, appariva “la personificazione del Bene”, un uomo che con il suo coraggio e la sua onestà aveva saputo far fronte alle azioni delittuose di Paolo Orgiano; e a quest’ultimo il giudice poteva opporre che “appunto procedendo il travaglio che avete (voi, Paolo) da persona religiosa, s’ha da presumere che per termine di verità siate accusato e perseguitato da lui, non essendo verisimile che persona religiosa, che si è, si può dir, tolto fuori dal mondo voluntariamente per salvar l’anima, volesse poi dannarla con perseguitar et accusare falsamente”.
Paolo cercava di atteggiarsi a vittima di una persecuzione popolare (“non diedi mai si può dir uno schiaffo ad un gatto che non fosse il tutto denonziato et sempre alla peggio”) e in particolare di quella astiosa dei due procuratori e del Padre Lodovico. Medolago però implacabile: “quest’odio universale dà ancor lui argomento et indizio che siate persona di quelle qualità delle quali sete decantato in questi processi, non essendo verisimile che volessero veder la ruina di uno che operasse bene... Non è possibile che questi doi procuratori con il Padre solo possano mover un comun a cacciarvi contra, se le imputazioni che vi danno non fossero vere”. E ripugnava al giudice l'estrema difesa di Paolo che voleva contrapporre la sua “civiltà” il suo “onore cittadino” “aristocratico” alla “rabbia di tanti villani”.
“A un diritto particolaristico e fortemente connotato sul piano sociale, si andava lentamente sostituendo un diritto superiore che proveniva dalla suprema autorità dello Stato e che tendeva attraverso i suoi principi ad accogliere le istanze di tutti i governati”. Rispondeva del resto, questa tendenza, alla costante politica della Serenissima mentre espandeva il suo dominio sulla terraferma veneto-lombarda: tutelare e favorire il popolo contro le particolaristiche e autoritarie pretese dei nobili nelle varie città e nelle varie antiche signorie. Uomini, come Paolo, “appartenevano ormai ad un mondo che stava lentamente scomparendo di fronte all’affermazione di ideali e di costumi che nella città trovavano la più piena estrinsecazione esercitando sullo stesso mondo rurale una fortissima attrazione”.
È una coscienza che, in accordo alla tradizione politica della Serenissima, stava affermandosi risolutamente nello stato veneziano già tra Cinquecento e Seicento: una coscienza da cui discende consequenziale la condanna al carcere a vita per Paolo Orgiano (morirà in prigione nell’aprile del 1613).
Nello spagnolesco stato milanese ci vorranno invece ancora decenni e decenni – fino quasi al governo austriaco – prima dell’imporsi di una tale coscienza, prima di avere dei Medolago al posto dei podestà e degli azzeccagarbugli pavidi e servili: a togliere di mezzo, nel 1630, il don Rodrigo lecchese sarà la peste, non la giustizia. “Viva San Marco” grida Renzo giungendo in terra veneziana; i governanti qui “fanno le cose... quietamente... con giudizio... coltivando l’inclinazione degli operai” gli dice il cugino Bortolo, si preoccupano della gente minuta di fronte alla calata dei lanzichenecchi e al divampare della peste, nota direttamente poi il Manzoni.
Manzoni: è un nome e una presenza che ha sotteso continuamente la nostra narrazione delle scelleratezze e dei soprusi di quel don Rodrigo che è Paolo Orgiano e di quel cugino conte Attilio compagno di bagordi che è il cugino Tiberto, delle sofferenze di quelle Agnese e Lucia che sono la vedova e la figlia Fiore sposa a un contadino e vittima per la foia del tirannello locale, della sete di giustizia di quel fra Cristoforo – già Lodovico – che è padre Lodovico Oddi impavido difensore degli oppressi e accusatore del sopraffattore, e perciò bersaglio predestinato dei Conti-zio. Le fosche violenze di nobili vicentini su poveri villani e sulle loro nozze si profilano naturalmente così come anticipazioni, quasi filigrane, delle dolorose peripezie di Renzo e Lucia. Così del resto, anni fa, l’episodio del ratto di una Luciana da parte di uno spietato signorotto, nel romanzo seicentesco Historia del cavalier perduto di Pace Pasini, anche lui di Vicenza, aveva offerto l’occasione a un finissimo manzoniano come Giovanni Getto di proporre elegantemente una possibile filigrana vicentina per il rapimento di Lucia. Proprio a Vicenza, come ha illustrato anni fa il Mantese, Manzoni sostò, ebbe amicizie e rapporti di studio e di lettere.
Ma questa volta, se si volesse proprio pensare a un tramite per la conoscenza del processo Orgiano da parte del Manzoni, sarebbe più facile, come propone e documenta ampiamente il Povolo, pensare a amici veneziani del romanziere (che a Venezia, com'è noto, aveva dimorato vari mesi fra il 1803 e il 1804). Le carte di quel processo istruito dal Medolago – come in generale quelli promossi dal Consiglio dei Dieci e dagli Inquisitori – erano state deposte, alcuni anni dopo la fine della Repubblica, nelle varie sedi dell’Archivio, che stava costituendosi a Venezia. Già a partire dal 1812 vi aveva accesso e le consultava un amico – ammiratissimo – del giovane Manzoni, Andrea Mustoxidi. Era (fin dal 1803) amico fedele e collaboratore di Alessandro che gli affidò nel 1809 la sua Urania per la stampa; frequentava assiduamente la “sala rossa” di casa Manzoni, aperta solo a un gruppo ristretto di fedelissimi letterati e intellettuali, in certo senso consiglieri e collaboratori. Ma proprio in quegli anni stessi, dal 1812, “entrava a far parte dell' esigua équipe cui era stata affidata la conservazione degli antichi archivi della Repubblica un uomo che sicuramente conosceva bene l’ambiente milanese e probabilmente lo stesso Alessandro Manzoni: Agostino Carli Rubbi, figlio del più famoso Gianrinaldo. Li univa (Manzoni e Rubbi) un ambiente che entrambi conoscevano o avevano conosciuto molto bene; li univa un personaggio come Cesare Beccaria”; li univa, aggiungo, anche la passione per lo studio dei processi penali antichi, operante nel Manzoni fin dal ’21-’23 e dalla prima idea della Storia della colonna infame e dall’elaborazione del Fermo e Lucia. Il Rubbi, come prospetta il Povolo, aveva avuto dalle autorità politico-civili ampi poteri, aveva la facoltà di prevalere ufficialmente o privatamente documenti archivisti, faceva spesso viaggi a Milano. Non è impensabile che del processo di Orgiano abbia potuto giungere – attraverso il Mustoxidi o più probabilmente il Rubbi – notizia al Manzoni: una notizia però certo privata e confidenziale, perché le autorità austriache avevano imposto severe regole di segretezza per gli archivi del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori. Rubbi e Manzoni si trovavano “nella situazione reciproca di non poter svelare la consultazione di una fonte che era stata vietata dalle autorità austriache: l’accesso stesso agli altri fondi archivistici era del resto filtrato con attenzione dalle autorità austriache e le consultazioni degli studiosi furono sporadiche per tutta la prima metà del secolo”.
Seducente è l’ipotesi del Povolo di scorgere una sia pur “esile traccia” della conoscenza manzoniana di quel processo vicentino “proibito” in uno di quei silenzi o meglio di una di quelle oppressioni spesso così rivelatrici del Manzoni. Nella prima e provvisoria introduzione al Fermo e Lucia l’autore, dopo aver parlato del famoso manoscritto dell’anonimo, vantata fonte del suo narrare, voleva “antivenire un’accusa... grave e pericolosa... a questo scritto: cioè che non sia altrimenti fondato sopra una storia vera di quel tempo ma una pura invenzione moderna... un romanzo, genere proscritto nella letteratura italiana moderna, la quale ha la gloria di non averne o pochissimi”. E, dopo questa battuta sarcastica e antifascista, soggiungeva “Per... allontanare... questo sospetto... il migliore espediente sarebbe di mostrare il manoscritto, ma a questo egli non può indursi per altri e pur degni rispetti”.
È un discorso autoironico che il Manzoni “riprese un po’ tortuosamente nel saggio sul romanzo storico, laddove avrebbe sostenuto l’impossibilità di un genere che avrebbe semmai dovuto cedere alla storia”. Ma in quella frase, poi soppressa nella stesura definitiva, non poteva essere presente anche la preoccupazione di coprire il Rubbi e le sue confidenze “proibite” sul processo vicentino “manoscritto”? Certo, fino alla vigilia della pubblicazione dei Promessi Sposi, non sembra apparire – forse per rispetto alla filigrana vicentina? – il sottotitolo Una storia milanese del XVII secolo. Ma, conclude il Povolo, “il 18 marzo 1825 moriva Agostino Carli Rubbi. Intorno a quegli stessi giorni usciva il primo tomo dei Promessi Sposi con il sottotitolo che sembra indicare l’ormai autonoma affermazione di Alessandro Manzoni da un personaggio e da una vicenda processuale che pure, forse, gli avevano offerto trama e ispirazione per il suo grande romanzo”.
Siamo certo nell’ambito di quelle possibilità che sempre ci avvincono quando tentiamo di cogliere l’opera di un genio nel suo germogliare e nel suo prender a poco a poco la vita. Di quell’implicato e sollecitante intreccio nel Manzoni, fra suggestioni lievitanti dell’a corpo a corpo tra verità della storia e folgorante arbitrarietà della fantasia che interpreta la storia, ha splendidamente narrato proprio ora un manzonista e romanziere come Ferruccio Ulivi (Tempesta di marzo, ed. Piemme). Alla prima origine dei Promessi Sposi sarà la seicentesca “grida... contro chi minaccia un parroco perché non faccia un matrimonio”, come il Manzoni accennava al figliastro Stefano Stampa? o la lettura convergente di Walter Scott e del Ripamonti e del Gioia, come testimoniava la figlia Vittoria? o l'Historia de l cavalier perduto proposta dal Getto? O questa fosca e romanzesca storia di Orgiano?
Non si può escludere categoricamente nessuna di queste suggestioni, sia pur vaghe e occasionali. Ma per la invenzione del grande romanzo bisognerà soprattutto tenere sempre presente la dichiarazione allo Chauvet del Manzoni stesso sull’invenzione, in cui deve rimanere fondamentale “le besoin de la vérité”: “compléter l’histoire, en restituer, pour ainsi dire, la partie perdue; imaginer même des faits là où l’histoire ne donne que des indications; inventer au besoin des personnages pour représenter les mœurs connues d’une époque donnée; prendre enfin tout ce qui existe et ajouter ce qui manque, mais de manière que l’invention s’accorde avec la réalité, ne soit qu’un moyen de plus de la faire ressortir”. È l'invenzione di un “verosimile poetico”, definito con fulminea intuizione nel Del romanzo storico come “un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente”. È quella “storia più ricca” che nello stesso Discorso il Manzoni auspicava non come “un racconto cronologico di soli fatti politici e militari e, per eccezione, di qualche avvenimento straordinario d’altro genere”, ma come “una rappresentazione più generale dello stato dell’umanità in un tempo, in un luogo, naturalmente più circoscritto di quello in cui si distendono ordinariamente i lavori di storia nel senso più usuale del vocabolo”. È quel far storia totale, dell’uomo in tutte le sue espressioni, che più abbiamo amato e amiamo anche in questo nostro tempo (e che, in questo nostro tempo, qualcuno si è illuso di inventare).
Vittore Branca, “I Promessi sposi di Vicenza. Le prepotenze di un Don Rodrigo e l’onestà di un Fra Cristoforo in una storia vera del Seicento veneto”, in Il Sole 24 ORE, domenica, 27 giugno 1993
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2017. Tra Bigotta e Petronilla: Manzoni e i matrimoni a sorpresa
DICEMBRE 17, 2017
DA ENZO SARDELLARO
Nell’ormai lontano, e quasi mitico 1960, l’anno in cui comparve l’altrettanto mitica Dolce vita di Fellini, il Professor Giovanni Getto usciva con un libro che dal titolo stesso rinviava il lettore alle possibili fonti barocche dei Promessi Sposi: Echi di un romanzo barocco nei Promessi Sposi (1). Nel suo ragguardevole saggio, il Professor Giovanni Getto riscontrava indubbie similitudini del romanzo manzoniano con l’ Historia del Cavalier perduto, opera del vicentino Pace Pasini:
“ Nessuno si è mai accorto dell’importanza di questo libro, riconoscibile in tutta una serie di particolari che vi sono contenuti, i quali stanno in stretta e sorprendente relazione con i Promessi Sposi […] Nel Fermo e Lucia [Manzoni] ricordava invece ‘i celebri romanzi del Pasta, e fra questi anche l’ Historia del Cavalier perduto ( non ne sarà un’ironica spia quell’inizio: ‘La storia [e nella successiva stesura, la seconda del Fermo, proprio l’ Historia] si può veramente chiamare?’”.
Stabiliti ordunque i rapporti dei Promessi Sposi con il romanzo barocco, negli anni ’80 M. Fantuzzi, dal canto suo, riscontrò altre similitudini interessanti riguardo un famoso episodio dei Promessi Sposi, il “matrimonio a sorpresa”, con un eguale episodio della Gondola a tre remi di Girolamo Brusoni (2). Infatti, in un passo della Gondola, troviamo scritto:
“Faremo quello, che si potrà, disse Glisomiro, e nel caso, che noi siamo in presentaneo pericolo la legge dispensa l’osservanza di molti riti, che peraltro si ricercano alla validità di somiglianti misterij. A me basta, che Guglielmo dichiari Giustina sua moglie in presenza del sacerdote” (3).
Se il romanzo barocco può effettivamente aver offerto spunti a Manzoni, come nel caso del matrimonio sorpresa, nulla vieta però che lo stesso Manzoni possa esser venuto a conoscenza di un qualcosa di più concreto di un romanzo. Sappiamo la passione di Manzoni per la storia, né è da escludere che, “oltre” la letteratura, egli possa aver visto documenti storici rilevanti riguardo tale pratica. Esempi di matrimoni a sorpresa di “sapore” strettamente manzoniano ci vengono incontro dal Seicento veneto e lombardo.
Molto prima dei saggi di G. Getto e di M. Fantuzzi, precisamente nel 1951, G. B. Zanazzo, scrisse su Convivium un articolo molto interessante, in cui riportava esempi storicamente accaduti di matrimoni a sorpresa del secolo XVII (4). Zanazzo andò molto oltre le semplici fonti letterarie, scrivendo:
“ Il Manzoni, che ha ritratto con tanta realtà e fedeltà le luci e le ombre della Lombardia del sec. XVII, ha senza dubbio avuto tra le mani documenti che ritraevano al vivo questo espediente di matrimoni clandestini e di sorpresa”.
Il fatto.
“La mattina del venerdì 8 agosto 1681, il rettore della chiesa [di Mason vicentino], Don Giovanni Battista Lovisani, appena celebrata la Santa Messa, si era recato in Sagrestia, quando all’improvviso, mentre era ancora ‘parato’ con gli indumenti rituali, gli si presentò il parrocchiano Fiorio Pellegrino, accompagnato dalla fidanzata Lavinia Bigotta di Schio, e senza preamboli, con voce alta, ferma e risoluta pronunciò le parole: ‘Signor Parroco, questa è mia moglie’. A sua volta la Bigotta, con pari decisione […] rivolta al Fiorio, completò l’atto con la formula: ‘Signor Parroco, questo è mio marito’. Avevano condotto come testimoni i compaesani Pietro Vaccaro e Giovanni Pigato”. Indi, Zanazzo riportava anche il documento originale, ricavato dall’Archivio parrocchiale di Mason Vicentino, Registro dei matrimoni, anni 1658-1716, e vergato di pugno da Don Giovanni Battista Lovisani :
Alli venerdì 8 del mese d’agosto 1681
“A perpetua memoria et ad ogni bon fine et effetto notorio, noto io Giobatta Lovisan, Rettor di questa parrocchial chiesa di Mason, come nel giorno sudetto [sic], mentre io medemo [sic] (=io medesimo) havevo celebrato la Santa Messa et andavo nella sachrestia [sic] à dispararmi (= mentre andavo in sacrestia a spogliarmi dei paramenti sacri), avanti di me anchora [sic] parato si presentò Sig. Pelegrin Fiorio di questo loco (=località) di Mason mio parochiano [sic] il quale haveva de mano la signora Lavinia Bigotta da Schio, diocese [sic] vicentina e disse queste precise parole: questa è mia moglie è [= e , congiunzione] subito la ditta [=suddetta] signora Lavinia disse e sogionse [=soggiunse]: questo è mio marito, parlando del sudetto [sic] Sig. Pellegrino è dalli medessimi [ = e dai medesimi] furrono [sic] chiamati in testimoni del medesimo fatto da essi m. Pietro Vacaro [sic], m. Zuane Pigato, abidue (=ambedue] di Mason; essendovi ancho [=anche] molti altri ivi presenti quando sucesse [sic] tal fatto, a quali io opponendomi è [=e] dolendomi le dissi con parole assai aspre che non si faccevano [sic] in queste maniere gli matremonii (i matrimoni), et altre simili parole, al che altro non rispose il Sig. Pellegrino, che lo scusassi, et io del sucesso [sic] (= e io, di ciò che era successo) ne porsi subito con mie lettere haviso distinto (= informai immediatamente) al Rev. Sign. Mantovani, vicario generale dell’Ecc.mo et Rev.mo Sig. Cardinale Barbarigo, vescovo di Padova, mio Ordinario et ad ogni bon fine ho registrato in questo loco la presente memoria” (Archivio Parrocchiale di Mason, Registro dei matrimoni, 1688-1716).
A parte l’italiano maccheronico del nostro ottimo Curato di Mason Vicentino, il documento redatto dal nostro Don Abbondio di Mason parla chiaramente di un matrimonio a sorpresa che egli subì passivamente, al contrario del “vero” Don Abbondio, che fece il diavolo a quattro, dimostrando una presenza di spirito non comune, nonché l’agilità del ghepardo (la scena secondo l’Edizione Le Monnier del 1845):
“Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: ‘Signor curato in presenza di questi testimonj quest’è mia moglie.’ Le sue labbra non erano ancora tornate in riposo, che don Abbondio aveva già lasciata cader la quitanza afferrata colla mano e sollevata la lucerna, ghermito con la destra il tappeto che copriva la tavola, e tiratolo a sé con furia, gittando a terra libro, carta, calamaio e polverino; e balzando tra la seggiola e la tavola s’era avvicinato a Lucia. La poveretta con quella sua voce soave, e allora tutta tremante aveva appena potuto preferire: ‘E questo …’ che don Abbondio le aveva gittato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul volto, per impedirle di pronunziare intera la formola” (5).
Ad ogni modo, il matrimonio a sorpresa non costituiva poi una rarità così assoluta nel XVII secolo, e anche più tardi, tanto è vero che Zanazzo, citava altri due documenti simili, uno tratto dall’Archivio parrocchiale di Laverda, anni 1735-1829, e un terzo dall’Archivio parrocchiale di Breganze, anni 1779-1787, sempre di area vicentina.
La famiglia Manzoni aveva da secoli contatti diretti con Vicenza e il Vicentino, Alessandro, dal canto suo, era a Vicenza nel 1804, al suo ritorno da Venezia. G. Mantese, grande esperto di cose vicentine, scrisse che i Manzoni dell’area lombarda avevano “relazioni col Vicentino e proprio nella zona interessata dalla presenza dello scrittore […] I Manzoni di Milano già dal sec. XVI erano mercanti di seta, come gli Arrigoni, ed avevano, se non proprio un rappresentante fisso, certo un procuratore in Vicenza” (6).
“Assurti a fama letteraria grazie ad Alessandro Manzoni, questi matrimoni erano piuttosto diffusi in età moderna e vengono riscontrati parecchi casi anche a Vicenza e nel territorio […] Erano questi i matrimoni clandestini, cioè quelle unioni che venivano strette alla presenza del parroco e di testimoni all’uopo prodotti senza osservare le prescrizioni della Chiesa” (7).
Va da sé che è molto probabile che l’idea fosse venuta a Manzoni più per “esperienza” di cose sentite e da documenti storici piuttosto che da fonti letterarie, le quali altro non facevano se non registrare fenomeni sociali di ampia portata largamente conosciuti. Ora, senza stare a incomodare troppo Vicenza e il suo territorio, molto più vicino a Manzoni, nel Milanese, accaddero fatti consimili, debitamente registrati dai parroci locali. In uno di questi, di cui fu vittima Prete Giovita Buzzoni, ne diede notizia A. Manetti (8), il quale osservò:
“Per il matrimonio di sorpresa, se si toglie il romanzo del Brusoni, che del resto non sappiamo se fosse noto al Manzoni, quali esempi gli offrivano i testi storici a sua disposizione? Oggi siamo a conoscenza di due episodi storicamente documentati […] In provincia di Bergamo, ma allora soggetto alla diocesi di Milano, […] ne è conservata memoria in un documento dell’archivio parrocchiale. Eccolo: Primo Gennaio Mille Settecento e Dodici (1712)
Matrimonio a sorpresa
“Federico Rota quondam Francesco ha contratto Matrimonio clandestino con Petronilla figliuola del quondam Giovanni Regazzoni Quattrolegni. Venuti esso signor Federico, Petronilla e due testimoni Giacomo Buzzoni e Simone Buzzoni tutti di Val Torta in casa mia a un’ora di notte et senza farsi sentire, aperto l’uscio della Saletta ove io ero in quell’ora a studiare non sapendo cosa alcuna di questo attentato, disse il Signor Federico: ‘Sappia Signor Parroco alla presenza di questi testimoni come la qui presente Petronilla è mia moglie ed intendo sia mia moglie’. La detta Petronilla tostamente disse: ‘ Se voi Federico siete mio marito, io sono vostra moglie’. Restai tutto confuso a tal cosa inaspettata né prevista et mentre proferivano il loro sentimento volevo uscire dalla saletta, ma il detto Federico chiuse subito l’uscio e non mi fu più possibile l’uscita sicché dopo averli molto ripresi e detto apertamente che ‘non sapevo quello dicessero li scacciai di casa con parole cattive et anche con violenza assieme con li testimoni. Scrissi subito a Monsignore Vicario Generale il quale mi rispose che dovessi far intendere alli detti contraenti la scomunica incorsa e di presentarsi a Milano per esserne assolti. Ma il Signor Federico la notte stessa che fece questo si partì di Val Torta per Venezia et la Petronilla fu da me avvisata della scomunica et li 25 febbraio successivo fu anche da me assolta con facoltà et grazia datami da Monsignor Vicario Generale”.
Et in fede.
Prete Giovita Buzzoni
Parroco di Val Torta.
Se dovessi scegliere tra la Bigotta di Schio e la Petronilla di Val Torta, sceglierei la seconda, e non foss’altro perché Prete Giovita Buzzoni diede prova di più “bello stile” rispetto a “Giobatta Lovisan, Rettor [della] parrocchial chiesa di Mason”, il quale forse risentiva un po’ troppo del sostrato dialettale veneto. Ma al di là delle questioni linguistiche, rimane il fatto che Manzoni, tra Vicenza e Milano, ebbe la possibilità di registrare certi aspetti della realtà popolare che egli poté acquisire ben oltre le fonti letterarie. Anche perché, come chiosò A. Manetti riguardo lo stesso romanzo di Girolamo Brusoni, “non sappiamo se fosse noto al Manzoni”.
Note
1) G. Getto, “Echi di un romanzo barocco nei Promessi Sposi”, in Studi e problemi di critica testuale, Convegno di studi di filologia italiana …, 7-9 aprile 1960, Bologna, 1961, pp. 439-467. Anche in Lettere Italiane, 1960, XII, pp. 141-67, e dipoi ripubblicato in Manzoni Europeo, Milano, Mursia, 1971, da cui citiamo, p. 13, 49.
2) M. Fantuzzi, Meccanismi narrativi nel romanzo barocco, Padova, Antenore, 1975, pp. 262-278.
3) G. Brusoni, La gondola a tre remi: passatempo carnevalesco, In Venetia, Per Francesco Storti, MDCLVII [1657], p. 274.
4) G. B. Zanazzo, “Matrimoni di sapore manzoniano”, in Convivium, 1951, pp. 68-73.
5) I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Storia milanese del secolo decimosettimo, Firenze, Le Monnier, 1845, p. 109.
6) G. Mantese, Scritti scelti di storia vicentina …, Istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa, 1982, p. 308. Cfr. anche G. Franceschini, Manzoni a Vicenza, Nuova Antologia, 1924, fasc. 1246, p. 381.
7) A. Broglio & L. Cracco Ruggini, Storia di Vicenza: L’età della repubblica Veneta, 1404-1797, Neri Pozza, 1993, p. 193.
8) A. Manetti, “A proposito di matrimonio clandestino”, in Esperienze Letterarie, aprile-giugno 1980, Anno V, n. 2, pp. 84-89.
(Da: http://interpretazioni.altervista.org/bigotta-petronilla-manzoni-matrimoni-sorpresa/ )
Carlo di Gonzaga, duca di Nevers (1580 - 1637)
In: La Milano dei Promessi Sposi.
Pubblicazione edita dall'Ufficio Stampa del Comune di Milano.
Referenze fotografiche:
Civica Raccolta delle Stampe ( Achille Bertarelli)
Museo di Milano
Biblioteca Comunale
Biblioteca d'Arte
Medagliere Milanese
Archivio Storico
Museo Teatrale alla Scala
Santo Gioia della RAI Radiotelevisione Italiana.
La mostra è stata promossa
dal Prof. Dott. Gian Guido Belloni.
L'allestimento è stato curato dal Prof. Domenico Petrosino.
L'esecuzione fotografica della Ditta Saporetti è stata diretta da Pantaleo Di Marzo.
Hanno collaborato :
Fernanda Marini, Severo Corti e Ovidio Canesi, tutti della Direzione delle Civiche Raccolte d'Arte.
(Da colophon)
I Promessi Sposi
La guerra di successione di Mantova e del Monferrato:
È il conflitto in atto all'epoca delle vicende del romanzo (1628-1631), causa non secondaria della terribile carestia che affligge il Milanese e della calata dei lanzichenecchi che porteranno il contagio della peste: storicamente la guerra iniziò con la morte senza eredi diretti di Vincenzo II Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, i cui possessi vennero contesi tra Carlo Gonzaga di Nevers, sostenuto dalla Francia di Richelieu, e Ferrante Gonzaga duca di Guastalla, sostenuto dalla Spagna.
In seguito entrarono nel conflitto anche Carlo Emanuele I di Savoia e l'imperatore Ferdinando II d'Asburgo al fianco della Spagna, mentre Venezia e il papa Urbano VIII sostenevano la Francia.
Le truppe spagnole cinsero d'assedio la fortezza di Casale e il successivo diretto intervento della Francia causò la discesa in Lombardia delle truppe del generale boemo Albrecht von Wallenstein, che si abbandonarono a saccheggi e portarono nel Milanese la peste.
La guerra si concluse con un trattato di pace che riconobbe legittimo successore al ducato Carlo di Nevers, il quale si insediò formalmente nel 1631 pur essendo costretto a fare diverse concessioni territoriali ai Savoia e ai Gonzaga di Guastalla, nonché a ricorrere all'aiuto economico di Venezia dato lo stato di estrema povertà in cui versava la città di Mantova a causa della guerra.
Il conflitto è citato per la prima volta nel Cap. V durante il banchetto al palazzotto di don Rodrigo, quando quest'ultimo afferma di aver sentito dire che "a Milano correvano voci d'accomodamento" (il signorotto allude a trattative di pace allora promosse dal pontefice per scongiurare il conflitto, poi fallite).
Si riaccende una discussione tra il conte Attilio e il podestà, il quale sostiene che la Spagna avrà la meglio in questa contesa internazionale e si lancia in uno sconclusionato elogio del primo ministro di Filippo IV, il conte-duca Olivares, non essendo contraddetto da Attilio cui il cugino ha lanciato uno sguardo d'intesa (la Spagna alla fine sarà sconfitta e dunque tutte le previsioni del podestà saranno sconfessate).
L'autore torna a parlare della guerra nel Cap. XII, quando spiega le ragioni della carestia e ne attribuisce una buona parte al "guasto" e allo "sperperìo" di questo conflitto, dal momento che ai proprietari terrieri venivano imposte tasse esorbitanti per le necessità belliche e, soprattutto, le soldatesche depredavano i raccolti già scarsi per la cattiva stagione: emerge chiaramente la condanna da parte del romanziere di una guerra nata da assurde contese dinastiche e da questioni di politica internazionale, che tuttavia produce gravi conseguenze sulla vita delle popolazioni umili e ne peggiora la già precaria esistenza (il governatore dello Stato di Milano, don Gonzalo, è impegnato nell'assedio di Casale e non ha tempo per dedicarsi al problema della penuria di grano, avallando di fatto gli assurdi provvedimenti presi in merito dal gran cancelliere Ferrer che lo sostituisce).
In seguito lo stesso governatore (XXVII) tornerà di corsa a Milano dopo il tumulto del giorno di S. Martino e si lamenterà col residente di Venezia per l'asilo offerto al fuggiasco Renzo, al solo scopo di esercitare pressioni su uno Stato alleato dei Francesi e non far trasparire le difficoltà incontrate nell'assedio di Casale, che sta andando per le lunghe.
L'autore torna poi a parlare della guerra nel corso del Cap. XXVIII, in appendice all'ampia digressione dedicata all'inasprirsi della carestia, per dire che in seguito alla presa della rocca della Rochelle il card. Richelieu aveva portato le truppe francesi in Italia, causando il ritiro di quelle spagnole di don Gonzalo da Casale e lasciando poi una guarnigione al passo di Susa, salvo ritirarsi proprio quando le soldatesche dell'imperatore si apprestavano a entrare in Lombardia per cingere d'assedio la città di Mantova.
Il passaggio dei lanzichenecchi è visto con seria preoccupazione dalle autorità sanitarie in quanto si teme che possa portare la peste, di cui ci sono vari casi nelle truppe tedesche, tuttavia gli appelli al Tribunale di Sanità perché attui serie misure onde contrastare il diffondersi del contagio cadono nel vuoto e, poco dopo, lo stesso governatore di Milano don Gonzalo viene rimosso dal suo incarico, lasciando la città tra i fischi e le rimostranze della folla per l'incuria dimostrata durante il suo governo.
Nel settembre 1629 le truppe tedesche entrano in Valtellina seguendo il corso dell'Adda per portarsi a Mantova e il loro passaggio provoca ovunque saccheggi e devastazioni, dal momento che i lanzichenecchi sono soldati poco avvezzi alla disciplina e mantenuti più coi frutti delle spoliazioni che col soldo regolare: le popolazioni locali si rifugiano per lo più sui monti per scampare al saccheggio e fra queste persone ci sono anche don Abbondio, Agnese e Perpetua che trovano ospitalità nel castello dell'innominato (Capp. XXIX-XXX).
Il passaggio dei lanzichenecchi si lascia dietro una scia sinistra di morte e desolazione, oltre al terribile contagio della peste, e nell'occasione vengono citati i nomi di alcuni celebri condottieri imperiali, fra cui spiccano il Wallenstein, Jean de Merode, Ernesto Montecuccoli, Giovanni Altringer, Torquanto Conti.
La conclusione del conflitto viene ricordata incidentalmente dall'autore nel cap. XXXII, col dire che la guerra ha causato circa un milione di vittime (specie per l'epidemia peste di cui essa è stata causa non trascurabile) e alla fine, nonostante il "sacco atroce" di Mantova ad opera dei soldati tedeschi e l'occupazione della città durata oltre un anno, il trattato di pace ha riconosciuto come duca legittimo quello stesso Carlo di Nevers che si voleva escludere, quindi la guerra ha provocato tanti disastri per lasciare le cose sostanzialmente inalterate.
Manzoni aggiunge altre osservazioni amaramente ironiche circa i maneggi politici e i trattati segreti che hanno fatto seguito alla pace, incluso l'accordo in base al quale il duca di Savoia cedette Pinerolo alla Francia.
È rimasta giustamente celebre la tirata di don Abbondio contro le mire dinastiche del duca di Nevers e dell'imperatore, che si intestardisce a voler sostenere Ferrante Gonzaga a dispetto dei suoi immensi domini, e contro il governatore di Milano che dovrebbe "tener lontani i flagelli del paese" e invece li attira "per il gusto di far la guerra", mentre "ne va di mezzo chi non ci ha colpa": è il consueto punto di vista egoistico e interessato del curato, che tuttavia esprime l'indifferenza delle persone umili per le contese dinastiche che sono all'origine della guerra e che, nondimeno, producono conseguenze nefaste soprattutto per loro, specie pensando al successivo diffondersi della peste causato proprio dal passaggio delle truppe tedesche.
Don Abbondio esprime in sostanza il punto di vista dello stesso autore, sia pure col registro comico che è consueto in questo personaggio, dal momento che Manzoni condanna tutte le guerre nate per futili ragioni di potere e che causano dolore e sofferenze alla povera gente, prendendo quindi le distanze dalla storiografia tradizionale che invece magnificava le imprese di sovrani e condottieri senza badare alle tribolazioni degli umili (è in fondo la prospettiva dell'anonimo nell'Introduzione, quando il secentista dichiarava di non voler trattare del "rimbombo de' bellici Oricalchi", ma dei casi di "gente meccaniche, e di piccol affare", quindi delle vicende storiche che coinvolgono poveri contadini e personaggi di bassa condizione).
Dolci Presenze del Viandante seguono l'Ombra in questo Silenzio popolato di Assenza.
Viaggiare. Dentro. Fuori.
Occhi. Lago di Nuvole.
HISTORIA / DEL CAVALIER / PERDVTO / DI PACE PASINI / All'Illustrissimo Sig. il Sig. / GIO. FRANCESCO / LOREDANO / IN VENETIA. / Per Francesco Valuasensis. M.DC.XXXXIV. / AD INSTANTIA DELLI TVRRINI, / Si vende nella LIBRARIA della TORRE in Spadaria. / Con licentia de' Superiori, e Priuilegio. // HISTORIA / DEL CAVALIER / PERDVTO / DI PACE PASINI / All'Illustrissimo Sig. il Sig. / GIO. FRANCESCO / LOREDANO / IN VENETIA. / Per Francesco Valuasensis. M.DC.XXXXIV. / AD INSTANTIA DELLI TVRRINI, / Si vende nella LIBRARIA della TORRE in Spadaria. / Con licentia de' Superiori, e Priuilegio. // La venuta delli Ambasciatori del Rè di Dalmatia nel Campo Colonnese, e l'operato da loro. cap. Ixxx11. 396 Ciò, che auuenisse in Napoli, mentre le cose già dette successero. capitolo lxxx1 11. - 399 Il successo del trattato del Conte con, Erodoro, per ridursi in potere la Principessa di Dalmatia. cap.lxxx1v. Il combattimento trà li due Principi Orsino, e Colonnese, e ciò, che auuenisse. cap. lxxxv. - 4o6 La Battaglia, che seguì trà Druso, S& Argantiro, & il fine di essa. capitolo lyxxvi. - 410 Quello, che operasse il Rè de Persi per l'aggiustamento trà'l Duca, e'l Conte. cap. lyxxv11. 413 Continua l'operatione del Rè Saporeso, con la deliberation presa sopra la Principessa Dobbrizza. capitolo lxxxv 111. 4I L'arriuo di Dobbrizza in Giadra, e ci ch'indi ne seguisse. cap. Ixxx1x. 42o La raunanza del Senato di Giadra, e la deliberatione del Rè Ghergonico sopra l'affare in esso proposto capitolo 1xxxx. - - 424 Ciò, che trattasse il Rè Saporeso col Prencipe Rodoaldo, e la dichiaratione, che segui sopra il maritaggio della Principessa Dobbrizza |
PASINI, Pace
di Quinto Marini - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 81 (2014)
PASINI (Pasino, de Pasino, Pacino), Pace. – Nacque a Vicenza il 17 giugno 1583.
La famiglia, originaria della val Sabbia, si era trasferita, in un primo momento, a Schio; se ne trovano presenze a partire dal XV secolo. Non dovette essere di cospicua nobiltà e nel pieno Seicento alcuni Pasini di Vicenza figurano tra i mercanti di seta e panni grossi.
Assunti i rudimenti grammaticali a Vicenza, nei primi anni del Seicento Pasini compì studi giuridici a Padova (fu in seguito ascritto al collegio dei giuristi di Vicenza, cfr. Archivio di Stato di Vicenza, Corporazioni soppresse - Collegio giuristi, b. 2845), ma ben presto trascurò la giurisprudenza per interessarsi della nuova scienza (fu in contatto con Galileo Galilei e con Johannes Kepler) e soprattutto per dedicarsi alla filosofia, seguendo assiduamente le lezioni di Cesare Cremonini, impegnato nel commento 'mortalista' della Fisica e del De coelo di Aristotele e seguace dell’aristotelismo critico e razionalistico di Pietro Pomponazzi, che metteva in discussione il principio dell'immortalità dell'anima e alcuni dogmi cattolici. A tale adesione alcuni biografi settecenteschi (Nicola Comneno Papadopoli, Paolo Calvi), riprendendo moralisticamente il ritratto libertino delle Glorie de li Incogniti, attribuiscono la causa di futuri guai di Pasini e della relegazione per due anni a Zara.
Come invece dimostra una serie di documenti dell’Archivio di Stato di Venezia, fu la natura violenta di questo degno esponente della riottosa nobiltà di provincia di primo Seicento a determinare il provvedimento giudiziario. Per un futile contenzioso privato (un diritto di passaggio riconosciuto a dei vicini), insieme con il fratello Vittelio e alcuni sicari, il 9 luglio 1623 nella villa Pavaran, ora frazione di Campiglia dei Berici, Pasini uccise l’avvocato Roberto Malo e ne ferì gravemente il fratello; nel marzo del 1624 fu condannato a cinque anni di relegazione a Zara, poi ridotti di circa la metà (fu assolto e liberato il 28 gennaio 1627).
Nuovamente integrato nella società vicentina, fu dal 25 luglio 1630 vicario a Barbarano e dall’8 luglio 1635 a Orgiano, dove era già stato agli inizi della carriera, nel 1618. La sua vita dovette scorrere come quella di tanti nobili di provincia, tra affari privati non sempre tranquilli (nella Biblioteca civica di Vicenza ci sono i documenti della lite con un nobile Fracanzani, cfr. Archivio dal Ferro Fracanzani, Serie Processi, b. 113), responsabilità amministrative, passione letteraria e interessi culturali, spesso rivolti al più importante coté intellettuale veneziano, a personaggi come Baldassarre Bonifacio o ai facoltosi accademici Incogniti e al loro leader Giovan Francesco Loredano (ebbe rapporti anche con i conterranei Guido Casoni, Pietro Paolo Bissaro, Francesco Belli, Liberal Motense). Né mancarono gli ossequi al potere della Serenissima: dediche e composizioni sono spesso dirette a podestà, capitani e dogi (Domenico e Francesco Molin, Girolamo Priuli, Vincenzo Grimani ecc.). L'attività culturale costellò un’esistenza sostanzialmente modesta e, a parte il periodo dell’esilio in Dalmazia, circoscritta tra Vicenza, Padova e Venezia: con una discreta accensione negli ultimi anni, per un più stretto legame con gli Incogniti e per una produzione letteraria in incremento quantitativo e qualitativo.
Pasini morì a Padova nella seconda metà del 1644.
L'esordio letterario di Pasini avvenne nel 1612 con un libretto in dodicesimo stampato a Vicenza da Francesco Grossi, Rime varie, et Gli increduli, overo De' rimedii d'amore, dialogo di Pace Pacino.
La minuscola miscellanea contiene sedici componimenti in metro vario e un dialogo finora ignoto alla critica. Le Rime varie sono tutte di tematica amorosa, secondo una casistica artificiosa occasionale che sembra discendere dalle Rime amorose di Giovan Battista Marino, ma il conterraneo Casoni ha senz'altro avuto il suo influsso insieme a quel marinismo veneto (Loredano, Pietro Michiele e altri) che recuperava anche l'eredità di Petrarca attraverso il Tasso «settentrionale» e certe linee di Chiabrera, di Testi, di Ciampoli. Molto interessante è il dialogo Gli increduli, overo De' rimedii d’amore, impostato sullo schema usuale dell'incontro di gentiluomini – qui Marcantonio Montechiaro, Marzio Capirossi e Teseo Lipi – in luoghi vicentini, poi sviluppati in spazi surreali e allegorici, cornice non del solito trattato d’amore (il titolo riecheggia l’ovidiano Remedia amoris, ma alcuni aspetti rinviano alla Magia d’amore di Casoni), bensì di un racconto tutto barocco su «certi accidenti maravigliosi» capitati a Teseo in preda a farneticazione amorosa.
La seconda opera a stampa di Pasini è un componimento di quasi 900 versi settenari ed endecasillabi sciolti, uscito nel 1614 a Vicenza presso Francesco Grossi e dedicato a un membro dell'illustre famiglia Molino: Campo Martio, overo Le bellezze di Lidia.
Dopo l'avviso A chi legge che precisa il rispetto della «religion catolica romana» per termini usati «credendo da cristiano e scrivendo da poeta» (ibid., pp. 5 s.), l’autore celebra ancora con un procedimento allegorico le bellezze della sua donna, inserendola in un vivace spazio reale di Vicenza – Campo Marzio era il passeggio di dame e gentiluomini – e quindi coinvolgendola in un «successo inusitato e strano»: in una nube le appare Amore circondato dalle nove muse, le quali intonano le lodi delle singole parti del corpo di Lidia con una progressione di metafore continuate.
Nel 1618 Pasini ebbe dalla sua città l’incarico di scrivere il prologo al Torrismondo del Tasso, messo in scena al Teatro Olimpico – unica rappresentazione nel Seicento – alla presenza dell’ambasciatore francese a Venezia, Leone Bruscart.
Il testo fu inserito nella raccolta complessiva delle Rime di Pace Pasini (Vicenza, Eredi F. Grossi, 1642, ed è costituito di 150 endecasillabi sciolti. Per bocca di Ercole, «protettor dell’Academia Olimpica», Pasini celebra i «Gigli d’or» della monarchia francese.
Di non scarso rilievo, perché documento dell’interesse di Pasini verso la nuova scienza e le implicazioni religiose della filosofia empirica acquisita a Padova, è una lettera scritta a Kepler da Vicenza nel Capodanno del 1621.
Dopo aver lodato in forbito latino l’astronomo tedesco, Pasini gli pone cinque quesiti. I primi quattro riguardano problemi tecnico-astronomici, sulla costruzione della figura, sui confini, sulla grandezza dei pianeti e sul loro moto. L'ultimo quesito è di scottante argomento dottrinale-religioso: «Ultimum quaenam sit de opificio certior doctrina; qui enim hac in re Ptolomaeum sequuntur, hircum (ut aiunt) mulgere, ni fallor, experientia didici» (Epistolae ad Joannem Kepplerum, Lipsia 1718, p. 693).
Ancora di ambito politico-encomiastico è Il sogno de l’illustrissimo sig. Pietro Memo, ristampato ad apertura della sezione Honori nelle Rime del 1642, ma risalente al 1623 (il 7 maggio di questo anno il nobile veneziano concludeva l’incarico di podestà di Vicenza relazionando al Senato, cfr. Relazioni dei Rettori veneti in Terraferma, VII, Podestaria e Capitanato di Vicenza, Milano 1976, pp. 287-290).
Il poemetto di sessantasei ottave, costruito sul modello di visione del Somnium Scipionis, ma anche con ambiziosi calchi danteschi e con citazioni da Ovidio e dall’iconologia contemporanea, racconta allegoricamente come il Sogno trasporti il podestà attraverso i cieli sino alla via Lattea, dove trova gli eroi che hanno illustrato la sua famiglia. In particolare, lo zio Marcantonio, già al governo di Vicenza, Bergamo, Padova e infine doge dal 1612, presentate le glorie del casato e descritta la sede celeste, incita il nipote a guadagnarsi questa beatitudine tramite l’impegno politico.
Di notevole importanza storico-biografica, poiché datata «Di Padova li 27 Genaro 1629» e dedicata a Giovanni Ciampoli, è la canzone La Relegazione, che si legge in un’edizione con proprio frontespizio (Vicenza, G. Amadio, 1642) alla fine della sezione Miscugli delle Rime del 1642.
Dopo un decennio di silenzio editoriale seguono intensi gli ultimi quattro anni di vita: Pasini dà alle stampe l’opera omnia delle sue poesie, preceduta da un trattato sulla metafora, e, svolta notevole, rivela la sua vena narrativa partecipando con due testi alle Cento novelle amorose de i Signori Accademici Incogniti, postumi nell'edizione di Venezia, Guerigli, 1651 (Parte seconda, nov. XV, pp. 89-94; già nella stessa posizione in Novelle amorose de’ Signori Academici Incogniti, a cura di G.B. Fusconi, Venezia, Guerigli, 1643; e Parte terza, nov. XXXVII, pp. 261-267), e soprattutto scrivendo il romanzo che lo renderà famoso, l’Historia del Cavalier Perduto.
Il Trattato de' passaggi dall’una metafora all’altra, et de gl’innesti delle stesse, edito a Vicenza nel 1640 da Giacomo Zampieroni e poi ristampato nel 1642 da Giacomo Amadio, si inserisce nella vasta trattatistica dell’età barocca aderendo alle linee sperimentali degli Incogniti veneziani. In una quarantina di pagine l’autore si propone di mostrare «che cosa sia metafora, di quante sorti siano le metafore, et in che siano differenti dall’allegoria e dall’enimma»; quindi «come la metafora nella nostra favella, o ragionare, possa adoperarsi»; infine «le autorità di quelli c’hanno approvato gli innesti et i trappassi da metafora a metafora di genere diverso» (La metafora. Il trattato e le rime di Pace Pasini, a cura di M.T. Pedretti, 2005, p. 6).
La raccolta complessiva delle sue Rime fu stampata a Vicenza nel 1642 con dedica al doge Francesco Erizzo. Oltre al recupero di quasi tutte le Rime varie del 1612, è notevole la suddivisione in sezioni tematiche (Errori, Honori, Dolori, Verità, Miscugli), che riporta alla Lira del Marino, modello fondamentale, omaggiato nei sonetti 14 e 15 degli Honori.
Ultima e più nota tra le opere di Pasini (almeno per la rilevanza acquisita con il saggio di Giovanni Getto) è l’Historia del Cavalier Perduto, stampata a Venezia nel 1644 da Francesco Valvasense, l’editore degli Incogniti, e dedicata al leader della stessa Accademia, Loredano (due lettere attestano che ne seguì la stesura e ringraziò per la dedica: G.F. Loredano, Lettere, Venezia 1655, pp. 277, 442 s.).
L’opera si inserisce nella tradizione del romanzo barocco veneto e dei narratori Incogniti, secondo una linea che intreccia avventure cavalleresche amorose a tematiche storico-politiche (Biondi, Loredano, Bisaccioni, Belli, Brusoni iniziale), e di altri romanzieri italiani (evidenti gli influssi del primo Calloandro di Giovanni Ambrogio Marini o del Principe Altomiro di Poliziano Mancini). L’ambientazione storica è ripresa dall’Italia liberata dai Goti del vicentino Gian Giorgio Trissino, ma sullo sfondo della guerra tra Totila e i Bizantini (metà del VI secolo) vivono temi e valori della società nobiliare del Seicento quali l’onore e la reputazione. Alla labilità storica, che permette l’innesto anacronistico della guerra tra Orsini e Colonnesi, corrisponde la labilità geografica: le zone d’azione principali rimangono quelle ben note al Pasini, tra i Monti Berici e i Colli Euganei, nei castelli del veronese, del vicentino e del padovano, nonché la Dalmazia e Giadra conosciute in esilio, ma si estendono all’Italia tutta, a Bologna, Firenze, Napoli, gli Abruzzi, le Puglie e l’Oriente, varcando le coste d’Africa e il Mediterraneo, oltre Gibilterra, e non risparmiando il Nord (Gallia, Germania, Inghilterra, e Irlanda). La struttura narrativa circolare si regge sulla misteriosa identità del protagonista, il Cavalier Perduto, il quale impegna quasi tutta la prima metà del romanzo nell’affannosa inchiesta di se stesso. Scoperta la quale – è Adoino, figlio del duca Mundilla Orsini – vive tutto il resto del romanzo guerreggiando contro Policarpo, principe dei Goti, e quindi contro i Colonnesi guidati da Rodoaldo, fino al matrimonio finale con Dobbrizza di Giarda agevolato dall'azione diplomatica di un misterioso re persiano, Saporeso, che impone ai contendenti un «atto cortese e generoso e grande». Finale altamente politico: un romanzo barocco iniziato come avventurosa inchiesta di se stesso, termina nel nome della ragion di Stato e dell’utilità della pace in un «secol di ferro».
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci, Criminali, filza 50; Comuni, filze 368, 373; Vicenza, Biblioteca civica, Mss., 3395: G. Da Schio, Persone memorabili in Vicenza, c. 10r; Le Glorie de' gli Incogniti, o vero gli huomini illustri dell’Accademia de' Signori Incogniti di Venezia, Venezia 1647, pp. 368-371; B. Pagliarino, Croniche di Vicenza, Vicenza 1668, p. 336; N.C. Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini, II, Venezia 1726, p. 297; Biblioteca e storia di quegli scrittori così della città come del territorio di Vicenza che pervennero fin ad ora a notizia del P.F. Angiolgabriello di Santa Maria [Paolo Calvi], carmelitano scalzo vicentino, VI, Vicenza 1782, pp. LXXVII-LXXX; G. Getto, Echi di un romanzo barocco nei «Promessi sposi», in Lettere italiane, XII (1960), pp. 141-167; Id., Il romanzo veneto nell'età barocca, in Barocco europeo e barocco veneziano, a cura di V. Branca, Firenze 1963, pp. 177-204; M. Zoric, Due romanzieri veneti del Seicento e il mondo slavo, in Culture regionali e letteratura nazionale, Atti del VII Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, Bari, 31 marzo - 4 aprile 1970, Bari s.d., pp. 423-445; M. Capucci, P. P., in Romanzieri del Seicento, a cura di M. Capucci, Torino 1974, pp. 151 s.; G. Mantese, Il Manzoni e Vicenza. Il «Cavalier Perduto» del vicentino P. P. e i «Promessi sposi», in Manzoni, Venezia e il Veneto, a cura di V. Branca - E. Caccia - C. Galimberti, Firenze 1975, pp. 89-124; M. Santoro, L'Historia del Cavalier Perduto di P. P., in "La più stupenda e gloriosa macchina". Il romanzo italiano del sec. XVII, a cura di M. Santoro, Napoli 1981, pp. 163-230; G. Auzzas, Le nuove esperienze della narrativa: il romanzo, in Storia della cultura veneta, IV, 1, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 274 s.; G. Baldassarri, «Acutezza» e «ingegno»: teoria e pratica del gusto barocco, ibid., pp. 233 s.; A. Mura Porcu, Note sulla lingua dell’«Historia del Cavalier Perduto», in Sentir e meditar. Omaggio a Elena Sala Di Felice, a cura di L. Sanna Nowé - F. Cotticelli - R. Puggioni, Roma 2005, pp. 99-108; C. Povolo, Il romanziere e l’archivista. Da un processo veneziano del ’600 all’anonimo manoscritto dei «Promessi sposi», Sommacampagna 2004, pp. 44-48; La metafora. Il trattato e le rime di P. P., a cura di M.T. Pedretti, Trento 2005; Q. Marini, Fortuna e sfortuna di un letterato seicentesco, in Per civile conversazione con Amedeo Quondam, a cura di B. Alfonzetti et al., Roma 2014, pp. 723-738.
(Da: http://www.treccani.it/enciclopedia/pace-pasini_(Dizionario-Biografico)/ )
BIBLIOGRAFIA
Ripamónti, Giuseppe
Ripamónti, Giuseppe. - Storico (Tegnone, Brianza, 1573 - Rovagnate 1643), canonico, insegnò al seminario di Milano; per la sua Historia ecclesiae mediolanensis (1617-25), pubblicata sotto gli auspici del card. Federico Borromeo, fu nominato cronista della città dai decurioni di Milano e storiografo regio ...
Tesàuro, Emanuele
Tesàuro, Emanuele. - Letterato (Torino 1592 - ivi 1675). Entrato nel 1611 nella Compagnia di Gesù, fu insegnante di retorica e predicatore, quindi precettore e storico di corte dei Savoia; nel 1635 uscì dalla Compagnia, restando sacerdote secolare, e passò al servizio dei principi di Carignano. Autore ...
Basile, Giambattista
(pseudonimo anagrammatico: Gian Alesio Abbattutis). - Scrittore in lingua e in dialetto (Giugliano in Campania 1566 - ivi 1632), fratello di Andreana. Lasciata assai presto la sua città natale, viaggiò lungamente per tutta Italia: dapprima fu al servizio di Venezia (1600-08), come soldato nelle milizie ...
Vèrri, Pietro
Vèrri, Pietro. - Economista e letterato (Milano 1728 - ivi 1797), figlio di Gabriele; fratello di Alessandro e di Carlo. Uomo d'assai varia cultura e di notevole indipendenza di pensiero, tipico rappresentante del riformismo settecentesco, dotato di senso del limite e del concreto, Verri, Pietro legò ...
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Dunque, Pasini Pace rimane a noi famoso soprattutto per la vicenda legata al romanzo del Manzoni.
Lo studioso Giovanni Getto, giovane titolare della cattedra di letteratura italiana all’università torinese, ha fatto una scoperta singolare che ha messo in subbuglio il mondo fitto e polemico dei manzoniani.
Giovanni Getto frugava negli scaffali della Biblioteca nazionale di Torino. Doveva preparare un corso, per la Fondazione Cini, sulla civiltà veneziana del ’600. Era la prima volta, probabilmente, che quei volumi ch’egli andava raccogliendo venivano degnati di attenzione: erano romanzi da quattro soldi, fumettoni scritti nella prosa dei marinisti da strapazzo. Proprio quella, fra l’altro, così argutamente derisa da Alessandro Manzoni nella “Introduzione” al romanzo suo. Ma perché Giovanni Getto cercava questi libri? Per scoprire la continuità della narrativa italiana, per seguire il filo con cui il romanzo italiano ha attraversato sei secoli per approdare al Manzoni. Fra gli altri, dunque, nelle mani del professor Getto capitò un volume rilegato in pergamena, stampato a Venezia nel 1644, che s’intitolava Historia del Cavalier Perduto. L’autore era un certo Pace Pasini, vicentino. Il professor Getto si mise pazientemente a leggerlo. Furono i primi capitoli a colpirlo: il romanzo raccontava la storia di una Luciana amata da Druso, la quale veniva rapita dal potente Strappacuori e affidata ad una Agnese. Lo Strappacuori abitava un misterioso castello, protetto da bravi dai nomi granguignoleschi. La povera Luciana riusciva però a fuggire. Infine arrivava la peste.. Eccetera. Giovanni Getto si fece attento. Riprese la lettura da capo, sostituendo mentalmente Lucia a Luciana, e Fermo a Druso: le analogie tra il fumetto di Pace Pasini con la prima stesura dei Promessi Sposi, quella che si conosce sotto il titolo di Fermo e Lucia, erano innegabili, anzi sorprendenti.
I venticinque lettori dei Promessi sanno che il romanzo comincia con uno scampolo di prosa seicentesca: “L’Historia si può veramente definire una guerra illustre contro il Tempo...”. Poi l’autore, quasi perduta la pazienza di trascrivere tali fiori, l’interrompe a mezzo, e spiega di avere trovato un manoscritto anonimo del Seicento, con una storia “molto bella”: così bella, dice, che sarebbe un peccato non farla conoscere. Ma come mantenerla nella forma originale, di cui ha dato un saggio, e che risulta a tal punto illeggibile? Eccola. Dunque, “rifatta” in prosa moderna e senza tanti fronzoli, pur conservandone il sugo: così conclude il Manzoni. Ma non ci fu mai critico o letterato al mondo che abbia dato credito a questa “elegante invenzione” di un anonimo inesistente, e i commenti delle edizioni e i professori di tutte le scuole insegnano ancor oggi che in queste pagine il Manzoni ha voluto atteggiarsi in un amabile giochetto letterario, inventando lui sia l’anonimo sia il campione di prosa marinista. Nessuno, d’altra parte, si è mai posto seriamente la domanda del perché il Manzoni abbia escogitato questo trucco piuttosto inutile, e perché abbia poi ripetutamente citato il suo anonimo per tutto il corso del romanzo.
Giovanni Getto ha scoperto che l’anonimo si chiama Pace Pasini. I raffronti tra l’Historia del Cavalier Perduto, Fermo e Lucia e i Promessi Sposi hanno mostrato che le analogie non si fermano alla linea generale del racconto, ma si estendono ai dettagli, in una fitta rete di rispondenze. Ecco qualche esempio. “Tradimento, tradimento!” grida un bravo di Strappacuori, quando Luciana gli scappa... e “Tradimento, tradimento!” grida don Abbondio nel Fermo e Lucia durante la notte degli imbrogli. E la scena che segue (tutti accorrono e trovano un gran silenzio, come niente fosse successo) è quasi gemella. Quando Luciana s’è involata, Strappacuori misura furibondo a grandi passi, come don Rodrigo, una sala del suo castello. Un servo va a spiare le mosse di Luciana travestito da mendicante, così come il Griso si presenta alla casetta di Lucia per studiarne la disposizione. Il rapimento di Lucia avviene in carrozza, e quello di Luciana in barca: però nel Fermo e Lucia la contadina veniva fatta passare dalla carrozza a una barca. E così via.
Le analogie tra il romanzo barocco e la prima stesura dei Promessi Sposi sono fitte, ma ancora più fitte, in certi punti, sembrano quelle con l’edizione definitiva, tanto che il professor Getto avanza l’ipotesi che il Manzoni abbia riletto l’Historia fra l’una e l’altra stesura.
Non si tratta, è chiaro, di un’imitazione, e nemmeno di una derivazione, nel senso poetico, ma piuttosto di un riferirsi preciso dell’autore moderno alla testimonianza di un autore contemporaneo ai fatti narrati. Il Manzoni si era preparato con cura al suo romanzo storico, e aveva letto e riletto numerosi testi secenteschi. Il vero titolo del suo libro, si ricordi, è “I Promessi Sposi: storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni”. Egli voleva rimanere fedele a dei personaggi, a un ambiente, a un clima. “Con questo”, scrive il professor Getto, “non si vorrà ridurre non dico l’Historia del Cavalier Perduto come romanzo, ma nemmeno un semplice episodio di esso a una “fonte”. Si vuole solo cogliere un’eco, un susseguirsi di echi operanti nella mente del Manzoni durante la stesura di alcune pagine del suo romanzo”.
Così il terribile Strappacuori diventa mezzo Innominato e mezzo don Rodrigo, così la luna che illumina la fuga di Luciana è un poco quella che rischiara il sagrato di don Abbondio e un poco l’altra che accompagna Renzo in fuga verso l’Adda; e le due fughe (di Luciana e di Renzo) vanno a braccetto insieme con la notte degli imbrogli. Ma questi, taglia corto Giovanni Getto, sono detriti: l’opera d’arte ne rimane al di là e al di sopra.
Ma che dire della vera e propria pagina secentesca che sta al principio dei Promessi Sposi, di questa esercitazione, come è stata creduta fino a oggi, d’un romanziere in vena di malizie? L’oscuro Pace Pasini, nella dedica della sua Historia del Cavalier Perduto, si arrovella in formule d’eleganza, e tra una similitudine e un’immagine tira in ballo il sole, i pianeti, la sostanza e gli accidenti. Ebbene. l’“invenzione” manzoniana parla della “Maestà del re cattolico che è quel Sole che mai non tramonta”, parla degli “altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti”, e arriva alla “sostanza” della Narrazione e ai purissimi “accidenti”.
Si può esser certi che il Manzoni abbia avuto tra le mani questo romanzo barocco? Il dubbio non è più lecito, afferma il professor Getto: sarebbe un caso “addirittura miracoloso” che due autori senza essersi letti, e con una tanto diversa mentalità e capacità artistica, si siano trovati su un cammino così frequente d’incontri. Per di più sappiamo di quelle assidue letture del Manzoni per prepararsi alla sua “storia milanese, scoperta e rifatta”.
Un altro passo sarebbe da fare, a questo proposito: condurre nelle biblioteche storiche (quelle frequentate dal Manzoni) la medesima ricerca che ha fatto in quella torinese Giovanni Getto. Tra gli scaffali polverosi che conservano i romanzacci barocchi, non richiesti in lettura da almeno due secoli, potrebbe esserci la copia dell’Historia del Cavalier Perduto che il Manzoni potè avere, e forse qualche Historia un poco diversa, di altro autore, ma capace anch’essa di far luce sulle vere origini letterarie del capolavoro della nostra narrativa. Che l’“anonimo lombardo” sia il vicentino Pace Pasini, è fortemente sospetto, ma non ancora certissimo. Di certo sappiamo che le origini di Pace Pasini sono sicuramente milanesi. Comunque, si è arrivati alla fonte.
Nel prezioso libro “Civiltà veneziana -di Istituto di storia dell'arte (Fondazione "Giorgio Cini") – 1976” troviamo importanti informazioni che riguardano la ricostruzione genealogica dei Pasini di Vicenza e di Schio. Questo è introduttivo alla bibliografia di Pace Pasini, autore del romanzo “Historia del cavalier perduto di Pace Pasini. Questo è l’articolo per intero:
Giovanni Mantese – Il Manzoni e Vicenza, il “Cavalier Perduto” del vicentino Pace Pasini e “I Promessi Sposi”
Pace Pasini
Non è facile ricostruire la storia della famiglia vicentina dei Pasini e ciò perchè i suoi capostipiti possono essere stati più di uno come più di una erano certamente le famiglie vicentine che nei secoli XV-XVI avevano un membro chiamato Pace.
(Osservando le varie forme in cui si corrompe nei documenti il nome Pace, sembra che si sia arrivati al cognome Pasini attraverso i seguenti passaggi: Pace latinizzato in “Pacius”, corrotto poi in “Paxius” e “Paxinus” donde “de Paxinis”)
Quando il cronista vicentino Paglierini afferma che i Pasini di Vicenza derivano da un Pasino di Sovizzo, a parte la suggestione che in lui può ave esercitato il nome famoso di Vincenza Pasini cui si diceva fosse apparsa la Vergine sul Monte Berico, merita credito; in effetti i documenti testimoniano l’esistenza di una famiglia Pasini in Sovizzo nel ‘4-500. Ma nel cinquecento troviamo documentata un’altra famiglia Pasini che non proviene nè da Vicenza nè da Sovizzo, ma dalla Val Sabbia (BS) e si era stabilita a Schio.
(Arch. Not., Avicenna Francesco, alla data: 2 giugno 1571. “Magn.cus d. Stephanus q. Spect. Artium et medicine doctoris d. Jacobi de Magrade... investivit ser Franciscum q. Faustini Paxini de Oledo Vallis Sabie districtus Brixiensis... de duabus domibus... cum uno maleo”. Gli antenati di Lodovico e Valentino Pasini erano dunque lavoratori del ferro. Nel 1579 (29 agosto) a Schio, più precisamente a Pieve dove era il Maglio (in contrada Plebis Turrisbelvicini), detto Francesco nominava procuratore suo figlio Gio. Battista – Arch. Not., Baldo Baldi, alla data)
Dei Pasini di Vicenza si ha documentata memoria fin dalla seconda metà del sec. XV, epoca in cui visse il capostipite “Paxinus” il quale arricchitosi, non so come, chiese al cardinale Zeno, vescovo di Vicenza di potersi costruire una cappella nella sua possessione di Campiglia (Paverani).
(Arch. Not., Bart. D’Aviano, alla data 25 ottobre 1494. “Exhibita nobis peticio tua (di Pietro fu Pasino) continebat qualiter Paxinus quondam genitor tuus legavit quod per te in villa Pavarani pertenenciarum Campilie vinc. Districtus penes domum constructam per dictum Paxinum... ecclesia una cum domuncula...”)
Era il primo ingresso dei Pasini in quella splendida e solatia Riviera Berica nella quale un secolo più tardi un suo discendente, anche lui chiamato Pace, imposterà la trama del suo romanzo “Il Cavalier perduto”, il misterioso libro dal quale il Manzoni prenderà probabili stimoli per scrivere l’immortale suo capolavoro. La ricerca archivistica impostami permette di ricostruire documentatamente le linee sostanziali della discendenza del suddetto capostipite fino al nostro letterato Pace.
Il suddetto Piero fu Pasino nel 1509 compare nel numero dei cavalieri vicentini mandati dal Comune di Vicenza come oratori all’imperatore Massimiliano.
Nulla si conosce della vita e opera di un Pace figlio del suddetto Piero; si sa soltanto che in data 15 agosto 1588 era già morto e che suo figlio Pietro abitava o possedeva in contrà dell’Isola una casa data in affitto a Francesco Campiglia fratello della poetessa vicentina Maddalena Campiglia.
(In altri documenti si dice che la casa di Francesco Campiglia era situata “in contracta de Planculis” cioè oltre l’attuale piazza Matteotti sulla strada che va a ponte S. Paolo. Comunque, il documento suona così: “in contracta Insule... in domo Petri de Pasinis q. Pacis conducta ad affictum per magn.cum d. Franciscum Campilia (Arch Not., Gio Batta Vaienti q. Speranza, alla data).
E’ probabile che questa casa dell’Isola (attuale piazza Matteotti) sia stata la prima residenza dei Pasini dopo che ebbero ricevuta la “Civilitas” o cittadinanza vicentina.
Trovo infatti, sempre a proposito della cappella della contrà di Paverani, che in data 11 novembre 1589 detto Pietro fu Pace faceva rogare un atto pubblico nella sua casa situata in contrà S. Michele. Si tratta di un patrimonio dotale che egli fissava alla sua nuova cappella dedicata alla Madonna della Neve per assicurarle il regolare servizio religioso.
Questo Pietro (junior) fu padre del letterato Pace Pasini, autore del romanzo “Il cavalier perduto”. Si chiamava “Hortensia” (Loschi?) la moglie di Pietro (junior) ma dai documenti risulta che a quest’epoca esisteva un ramo della famiglia Pasini, parallelo a quello del Nostro. Trovo infatti che in data 19 gennaio 1669 Bartolomeo e Gio Battista q. Pietro residenti in Vicenza in contrà dell’oratorio dei Servi cedettero a certo Iseppo Preato parte del loro negozio di “canevo e lino”. Erano dunque mercanti e tale figura pure il loro fratello “Iseppo Pasini q. Pietro mercante nell’inclita dominante”. Questi in data 31 luglio 1672 fondò una mansioneria con messa quotidiana a S. Maria Nova dove era monaca una sorella Giustina (suor Gaetana) q. Pietro Pasini.
(Tutti i documenti si trovano in Arch. Not., Gio. Battista Pisani, alle rispettive date. Oltre a Bartolomeo, Gio. Batta, Giuseppe e Giustina, trovo ancora un altro loro fratello sacerdote: don Francesco fu Pietro Pasini).
Non si può ammettere che fossero fratelli del Nostro, il cui padre, anche lui chiamato Pietro, fece testamento nel 1567 in età ancora giovane: il figlio Pace non era ancora nato.
Ma prima di parlare del più illustre personaggio della famiglia Pasini, del quale gioverà ricordare subito le idee religiose poco ortodosse, fortemente influenzate dall’aristotelismo di Cesare Cremonino e del Pomponazzi, bisognerà dire una parola sopra un Alessandro Pasini luterano “che stava a Vicenza, natural de uno gentil’homo di Pasini”. Trattandosi di un figlio illegittimo, è difficile trovare per Alessandro il posto che gli spetta nell’albero genealogico Pasini. Penso però che sia figlio di Pace e fratellastro di Pietro (junior) e quindi zio paterno del letterato in questione. Va tenuto ben presente il nome di questo anabattista anche perchè, come è noto, da noi l’anabattismo si sviluppò sullo sfondo della tradizione razionalistica padovana. Inolte si può ritenere che il pensiero dello zio abbia esercitato un fascino sull’animo del nipote.
Questi, ossia Pace di Pietro (junior), nacque a Vicenza il 17 giugno 1583. Trattandosi di un coetaneo dello storico Francesco da Barbarano si può pensare che anche lui abbia compiuti i suoi studi a Vicenza col precettore Alessandro Lucidi o qualche altro “grammatice professor” di quegli anni. Portatosi a Padova subì il fascino, come si è detto, del razionalismo insinuatogli dal maestro Cesare Cremonini, dedicandosi con profitto ma senza costanza, allo studio della giurisprudenza, tanto da essere proposto per la laurea che però rifiutò per approfondirsi sulla filosofia aristotelica, sempre alla scuola del Cremonini. Ritengo che abbia concluso il suo periodo di studi a Padova intorno all’anno 1660-62, una decina d’anni prima che entrasse in quell’ateneo, per conseguirvi la laurea in giurisprudenza, il suddetto storico da Barbarano figlio “exc.mi iuris utriusque doctoris d. Drusi de Mironibus”.
Secondo il Calvi le idee razionalistiche assorbite dal Pasini all’università e dal medesimo propalate poi a Vicenza, quando vi fece ritorno, ne provocarono l’esilio e la sua relegazione a Zara. Sbaglierò ma la cosa non mi convince. Gli eretici non venivano banditi: il bando era la punizione riservata a delitti contro la società, specialmente agli omicidi.
E’ vero che l’esagerata prudenza da lui rilevata nel suo “Campo Martio ovvero le bellezze di Lidia” lo presenta sotto l’incubo di possibili sanzioniinquisitoriali. “Dichiaro – egli premetteva al suo scritto – che qualunque volta si trovasse fato, destino... io li ho posti solamente perchè il comune parlare n’è pieno... senza voler pregiudicare a buoni costumi, alla riverenza che si deve alle cose sacre et alla verità della nostra santissima fede et Religione Cattolica Romana”.
Proprio in quegli anni ad Arbe, poco lontano da Zara, si trova relegato Otto Thiene, il nobile vicentino che unitamente a Girolamo da Porto vendette o almeno fu invitato a vendere la sua casa sul Corso per la prima fondazione di un Collegio per i padri Gesuiti prossimi a fare il loro ingresso in Vicenza. Non saprei dire quanto sia durato il suo esilio in Dalmazia. Con certezza si sa che in data 22 luglio 1618 Pace Pacini (o Pasini) andò Vicario a nome della città di Vicenza, nel Vicariato civile di Orgiano ma già negli anni 1612 e 1614 stampava rime a Vicenza presso il Grossi. Può essere utile a sapersi che la zona di Orgiano nella seconda metà del sec. XVI fu interessata dalla presenza di arabattisti. Il 25 giugno 1630 ottenne dalla città lo stesso mandato per il Vicariato di Barbarano (25 giugno 1640). Conoscendo la scrupolosa serietà usata dal Consiglio Comunale nella nomina dei Vicari del territorio, si deve concludere che Pace Pasini, tornato dall’esilio nei primi anni ‘600, diede buone prove di vita seria e responsabile.
In data 16 agosto 1627, all’età di 44 anni, sposò la nobile vicentina Laura Anguissola, e va rivelato che alla sacra cerimonia presenziò in qualità di “comprare l’anello” il ben noto architetto vicentino Ottavio dei Bruni di Revese.
Se non erro, detta Laura era sorella di Alfonso q. Gio. Giacomo Pelo Anguissola, autore del poema “L’albergo degli infelici amanti” (Venezia 1587) ristampato nel 1602 dall’Angeglieri.
Non ho documenti per pronunciarmi sulla buona riuscita o meno di detto matrimonio, ma è certo che Pace Pasini intorno al 1635, quando già aveva toccato la cinquantina, sposò in seconde nozze una certa Cassandra non meglio specificata, popolana, probabilmente. Questo fu certamente un felice matrimonio che rese il Nostro padre di due figli maschi: Sebastiano e Girolamo ancora “pupilli” nel 1651 come pare da atto pubblico rogato a nome di Cassandra in quella casa dominicale costruita un secolo prima dall’antenato, “Paxinus” nel Paverano (Campiglia).
Il Nostro era già morto da sette anni, se risponde al vero la data di morte del 1644 tramandata da Calvi. Il documento in parola riguarda un affitto di 50 campi, ma non trovo altri documenti che ricostruiscano la discendenza di Pace Pasini nei due figli Sebastiano e Girolamo.
Secondo il Calvi, egli sarebbe morto a Padova dove si era ritirato per curare meglio certi suoi acciacchi. Si dovrà pensare che dopo la sua morte la moglie Cassandra e due figli abbiano trasferita la residenza a Padova? In tal caso però non si spiega la continuazione della linea di Vicenza in un “Pasinus” che potrebbe (me è solo un’ipotesi azzardata) essere preso nel senso di Pace e identificato col Nostro; oppure si potrebbe pensare che detto Pasini sia nato dal primo matrimonio di Pace con la nobile Anguissola; ma anche quì l’ipotesi non sembra verosimile. Forse è più ovvio ritenere che accanto al ramo dei Pasini della linea del nostro Pace se ne sia sviluppata un’altra oppure che si sia estesa a Vicenza, per motivi di interesse, la linea di Schio. Di tale linea si è visto che nel 1579 vivevano Francesco e un figlio di nome Gio. Battista. Il sepolcro non datato di un Francesco Pasini è documentato dal Faccioli. Se tale inurbamento del ramo dei Pasini di Schio risponde a verità si dovrebbe ritenere che Gio. Battista fu Francesco ebbe un figlio di nome Pasino il quale fu padre del filosofo e medico Gio. Battista Pasini laureatosi a Padova il 22 dicembre 1685.
Dal suo matrimonio con una certa Lucetta, non meglio specificata, ebbe almeno un figlio di nome Giuseppe, morì nell’aprile 1695 e in data 23 di detto mese il notaio Gio. Marcantonio Gatti ne eseguiva l’inventario degli oggetti conservati nelle sue residenze l’una presso l’oratorio dei Servi e l’altra all’Anconetta.
Il Pasini ebbe amicizie con letterati e scienziati anche famosi d’Italia: fu in corrispondenza con l’astronomo Giovanni Keplero ed è autore di parecchie rime oltre ad un trattato sulle metafore. Ma l’opera sua più ponderosa è la “Historia del cavalier perduto” (Venezia Valvasense 1644) dedicata a Gio. Francesco Loredano capitano di Vicenza negli anni 1638-1640.
Tornando indietro nel tempo, addirittura agli inizi del quindicesimo secolo, proprio nel vicentino è accaduto un episodio che ha lasciato un ricordo indelebile in tutta la città. Si tratta della Storia di Monte Berico che ora narriamo.
Nei primi decenni del 1400, imperversava a Vicenza una pestilenza ostinata, importata dai soldati nella guerra tra la Repubblica Veneta ed i Visconti di Milano.
II 7 maggio del 1426, come ogni giorno, una certa Vincenza Pasini, malgrado i suoi settanta anni, si recava a Monte Berico per portare del cibo a suo marito Francesco che lavorava in una piccola vigna sul colle.
Ma quel giorno non doveva essere uguale a tutti gli altri: giunta in prossimità di una croce d’ulivo di fronte alla quale era solita pregare, infatti la donna fu testimone di una serie di fenomeni destinati a lasciare un segno nella città di Vicenza.
Tra un bagliore di luce e alcuni suoni misteriosi, apparve, profumando l’aria, un'immagine con vesti d’oro luminosissime.
La povera donna, sconvolta, cadde a terra sbalordita, ma l’apparizione la rincuorò rivelandosi e, poggiandole la mano sulla spalla destra, le disse di andare in città e convincere i vicentini a costruire un tempio nel punto in cui la Vergine si era manifestata, e che se i vicentini avessero scavato, in quel luogo ne sarebbe scaturita una sorgente; infine, prese la Croce di rami d’ulivo, tracciò con essa il perimetro del tempio richiesto e, dopo aver detto che coloro che vi fossero recati in preghiera la prima domenica del mese, avrebbero ricevuto delle grazie, piantò per terra la Croce e scomparve.
La donna divulgò subito la notizia in città, parlandone anche con il Vescovo, ma non venne creduta. Questa incredulità durò due anni, precisamente fino al 2 agosto 1428, quando la Vergine, riapparendo a Vincenza, rinnovò l’appello.
Questa volta il Vescovo e le autorità importanti della città decisero di effettuare un sopralluogo a Monte Berico, dove effettivamente constatarono il solco ancora inspiegabilmente integro tracciato dalla prima apparizione.
Il 25 agosto si decise quindi di avviare i lavori di costruzione del tempio; al tempo stesso, venne effettuato uno scavo nel luogo preciso indicato dalla Vergine, e da lì, come promesso, scaturì una fonte d’acqua, che tra l’altro contribuì al fabbisogno dei lavori di costruzione.
In coincidenza con questi fatti la peste diminuì sensibilmente, per poi in breve tempo scomparire del tutto dalla città. Inoltre, l’acqua stranamente scaturita risultò dai poteri miracolosi, guarendo chi la beveva: questo prodigio durò 81 anni, esattamente fino a che la fonte si seccò improvvisamente quando venne condotto un cavallo malato che guarì.
La costruzione al principio rappresentava una primitiva chiesetta, nucleo originario di quello che, con successivi ampliamenti, sarebbe diventato il più bello ed importante Santuario mariano del Veneto: quello “della Madonna di Monte Berico”.
La Basilica-Santuario è oggi costituita dall’insieme di due chiese: una di stile gotico, completata nella seconda metà del 1400; l’altra, di stile barocco, ampliata e completata da un certo Borella, dopo un primo ampliamento su disegno del Palladio (1576).
Tornando a parlare di Vincenza, come è scritto nel libro di Todescato, essa era chiamata la fortunata veggente. Proveniva da una famiglia dei Paxini o Pasini, che a quell’epoca in diversi nuclei familiari abitavano nei paesi vicini, ed erano agricoltori che coltivavano i propri o gli altri campi “ad partem”.
Nel libro Miscelanea di storia veneta – tomo V – anno 1899 – serie seconda si narra delle origini e della storia dei Pasini di Vicenza. Di seguito quanto scritto:
Venne a Vicenza da Milano con Pasino Dal Pozzo nel 1350, se crediamo alle Glorie degli Incogniti. Pagliarino la dice venuta a' suoi tempi da Creazzo. Fu ascritta al Consiglio Nobile di Vicenza, dove nel 1510 avea un posto.
Aveva sepolcri ai Carmini, agli Scalzi e a S. Biagio.
A donna Vincenza Pasini appariva nel 7 Marzo 1426 e nel 2 Agosto 1428 sul Monte Berico, dove stava pregando, la Vergine Madre di Dio, comandandole di annunziare ai Vicentini di fabbricarle in quel luogo una chiesa, se volevano esser liberati dalla peste che devastava le loro contrade. Della prodigiosa apparizione si conserva nella patria Biblioteca un documento ben più prezioso che l'autorità spesso vacillante di tutti i cronisti e gli storici cittadini, il processo originale del memorando avvenimento, composto due soli anni dopo, per ordine di coloro che presiedevano alla pubblica cosa, dal dottissimo giureconsulto Giovanni da Porto, e dichiarato vero in ogni sua parte dai notai della città, e dalla giurata testimonianza di moltissimi cittadini e forestieri. Il corpo della Ven. Vincenza Pasini, morta nel l43l, sepolto dapprima nel cimitero comunale e in seguito trasportato nel monastero d'Ogni Santi nel sepolcro costruito appositamente, venne finalmente trasferito nel Santuario di Monte Berico, dove si conserva tuttora presso l'altare della Madonna. Nella ricognizione del corpo fatta dal celebre medico Alessandro Massaria, fu constatato che l'osso della spalla destra per l’impressione miracolosa fatta dalla mano della Vergine, era ancora molle e rubicondo.
Pietro fu nel 1509 inviato ambasciatore dai Vicentini all'Imperatore Massimiliano. Pasini Pace, suo figliuolo, filosofo e poeta, dovette subire due anni d'esilio in Zara per le sue torie opinioni in filosofia. Fattane ammenda ritornò in patria e fu Vicario in vari Castelli del Vicentino. Morì nel l64l sessantenne. Le sue lettere meritarono d'essere impresse con quelle di Galileo Galilei e di altri nella famosa edizione delle opere di Keplero.
VICENZA
Un’altro ramo Pasini si ebbe da Pasino dal Pozzo, originario di Milano e trasferito a Vicenza nel 1450. Da lui discese un certo Pace Pasini nato a Vicenza il 17 giugno 1583 e morto a Padova nel 1644.
Dal libro “Biblioteca e storia di quegli scrittori così della città come del territorio di Vicenza, scritto da Angiolgabriello Di Santa Maria, pubblicato nel 1779 in Vicenza, troviamo le seguenti importanti informazioni:
La stravagante curiosa vita di Pace tratta l’abbiamo e dalle “Glorie degl’incontri” e dall’ “Abate Papadopoli”, ove è distesa; e da noi si offre in Epilogo.
Vorrebbono i primi, che la famiglia di esso si appelli Pasini da un certo Pasino dal Pozzo, che abbandonata nel 1450 Milano, si trasferì ad abitare a Vicenza, e da cui discende quel Pietro, che nel 1509 mandò poi la città oppressa Imbasciadore a Massimiliano. Costui (proseguono) è il proavo di Pace, figliuolo d’un altro Piero; dal quale nacque il dì 17 Giugno del 1583, e da cui in età conveniente fu Pace avviato allo studio di Padova a coltivare il suo sommo ingegno, e ad apprender scienze. Sulle prime attese ivi Pace alla filosofia sotto Cesare Cremonino da Cento; ma istrutto sufficientemente si rivolse alla giurisprudenza, non già per professarla, siccome il padre voleva, ma per vaghezza piuttosto, e per ornamento. Anche in essa di corto fece tali progressi, che gli si offerse bentosto la Laurea del Dottorato: la egli la ricusò con costanza, e invece si applicò tutto e davvero alla lettura de’ poeti, alle matematiche, all’astrologia; e ripigliata però la scuola del suo Cremonino, ove perfezionossi nella fisica, e nella metafisica, si ridonò pien di dottrina alla Patria. Il vero è, che spargendo quì senza molta cautela e prudenza i condannati Dogmi appunto del Cremonino intorno all’essenza dell’anima, e si concitò contro l’odio dei cittadini, e provocò il rigore dei tribunali per modo, che dopo incontrate più liti, tribolazioni, e disavventure gli fu mestieri fuggir dalla Patria, e per un biennio (senza perdersi però mai di coraggio) viver esule in Zara, Capitale della Dalmazia. Su quel castigo peraltro si riconobbe, e riabilitato a conviver tra i suoi, frenò in appresso la lingua, migliorò i sentimenti, e divenuto con esultazione della città tutta circospetto e modesto, si accompagnò in matrimonio con un’onesta Donzella, che propagò la sua stirpe decorosamente. La Patria allora li impiegò in più Vicariati de’ suoi Castelli, ed in altre onorevoli cariche; e visse provveduto nobilmente, e tranquillo fino all’anno 1644; in cui nell’età di 62 anni morì in Padova, ov’era passato per tentar di rimettere la salute, logora già e cagionevole.
In occasion del suo esilio, e de’ suoi viaggi, contrasse amicizia col celebre Astronomo e Matematico Cesareo, Giovanni Kepplero, a cui scrisse alcune dotte lettere, che unite a quelle di Galileo Galilei, di Gianantonio Magiori, e di altri italiani, oltre le moltissime degli Oltramontani, che leggonsi negli atti di Lipsia, doveano aver luogo nella famosa edizione di tutte le opere del Kepplero, ideata in Danzica da Michele Gottliebe Hanschio, di cui ragiona il giornale de’ Letterati d’Italia.
Nelle ore d’ozio poi compose le altre cose che seguono, e delle quali diamo il frontespizio:
Rime Varie, & Gl’increduli, ovvero de’ rimedi d’Amore, Dialogo di Pace Pasini, dedicato al molto illustre Signor Conte Giacomo Godi. In Vicenza, appresso Francesco Grossi, 1612, in 12.
Un Trattato delle Metafore.
Novelle Amorose, che stanno con quelle degli Accademici Incogniti.
Poema prosa compositum, inscriptumque Eques pessumdatus.
La Relegazione. Canzone dedicata all’illustrissimo, e Reverendissimo Giovanni Ciampoli da Pace Pasini Vicentino. Stampa in Padova per Guaresco Guareschi nel 1629, in 4.
La Cleopatra moglie di Tolomeo Epifane. Tragedia riportata dagl’Incogniti, e lodata dal Tomasini.
Rime di Pace Pasini, divise in Errori, Honori, Dolori, Verità e Miscugli. Dedicate al Serenissimo Francesco Erizzo, doge di Venezia. In Vicenza 1617 per gli eredi di Francesco Grossi, in 12. Sono pag. 356 con la Dedicatoria dell’Autore.
Finalmente c’è di lui Sonetto al Co: Pietro Paolo Bissari nella superiormente citata, Pace Guerriera.
Avvì poi nella visiera alzata, Hecatoste di Scrittori, che vaghi di andare in maschera fuor del tempo di Carnevale sono scoperti da Gio: Pietro Giacomo Villani Sanese (cioè dal P. Angelico Aprosio da Ventimiglia), stampata in Parma, per gli eredi del Vigna 1689, in 12, avvi, dico, il seguente periodo:
Pace Pasini Poeta Vicentino si duole di una sua canzone, che ha per argomento: Amante Geloso sequestrato; e comincia:
Dunque da raggi onde’l mio cor s’alluma
Viverò lunge in tenebrosi horrori: e prosegue:
Veggasi a pag 25 delle rime stampate in Vicenza per gli H.H. di FrancescoGrossi, 1617 in 12: e parla ivi il Villani nella sua Pentecoste a proposito del Cavalier Giambattista Marini, che peraltro comparisce Plagiario senza sua colpa.
Nelle sullodate Glorie degl’Incontri sotto il ritratto di Pace si leggono questi versi:
Astra Physique Sciens, versu prosaque disertus,
Nomine Mens totus vaticinante vocor.
Questo il ramo genealogico presunto:
Pasino dal Pozzo (nel 1450 abbandona Milano per recarsi a Vicenza)
Pasino da Sovizzo
Pasini Pietro (1509 ambasciatore a Vicenza)
Pasini Pace (m. 1588)
Pasini Pietro (nato attorno al 1540) sp. Loschi ? Hortensia (test. 1567)
Pasini Pace (n. 1583 VI – m. 1644 PD) sp. Anguissola Laura, sp 2° nozze Cassandra
Figli: Sebastiano - Girolamo