Vasari, Giorgio
(n. 30 luglio 1511, Arezzo - m. 27 giugno 1574, Firenze)
Descrizione dell'opere di Giorgio Vasari, pittore et architetto aretino
(n. 30 luglio 1511, Arezzo - m. 27 giugno 1574, Firenze)
Descrizione dell'opere di Giorgio Vasari, pittore et architetto aretino
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Avendo io in fin qui ragionato dell'opere altrui, con quella maggior  diligenza e sincerità che ha saputo e potuto l'ingegno mio, voglio anco nel fine  di queste mie fatiche raccòrre insieme e far note al mondo l'opere che la divina  bontà mi ha fatto grazia di condurre; perciò che, se bene elle non sono di  quella perfezzione che io vorrei, si vedrà nondimeno da chi vorrà con sano  occhio riguardarle, che elle sono state da me con istudio, diligenza et  amorevole fatica lavorate, e perciò, se non degne di lode, almeno di scusa;  sanzaché, essendo pur fuori e veggendosi, non le posso nascondere. E però che  potrebbono, per aventura, essere scritte da qualcun altro, è pur meglio che io  confessi il vero, et accusi da me stesso la mia imperfezzione, la quale conosco  da vantaggio; sicuro di questo, che se, come ho detto, in loro non si vedrà  eccellenza e perfezzione, vi si scorgerà per lo meno un ardente disiderio di  bene operare, et una grande et indefessa fatica, e l'amore grandissimo che io  porto alle nostre arti. Onde averrà secondo le leggi, confessando io apertamente  il mio difetto, che me ne sarà una gran parte perdonato.   
Per cominciarmi dunque dai miei principii, dico che avendo a bastanza  favellato dell'origine della mia famiglia, della mia nascita e fanciullezza, e  quanto io fussi da Antonio mio padre con ogni sorte d'amorevolezza incaminato  nella via delle virtù, et in particolare del disegno, al quale mi vedeva molto  inclinato, nella vita di Luca Signorelli da Cortona, mio parente, in  quella di Francesco Salviati et in molti altri luoghi  della presente opera, con buone occasioni non starò a replicar le medesime cose.  Dirò bene, che dopo avere io ne' miei primi anni disegnato quante buone pitture  sono per le chiese d'Arezzo, mi furono insegnati i primi principii, con qualche  ordine, da Guglielmo da Marzilla franzese, di cui avemo di sopra raccontato  l'opere e la vita. Condotto poi l'anno 1524 a Fiorenza da Silvio Passerini  cardinale di Cortona, attesi qualche poco al disegno sotto Michelagnolo, Andrea del Sarto et altri. Ma essendo l'anno  1527 stati cacciati i Medici di Firenze, et in particolare Alessandro et  Ippolito, coi quali aveva così fanciullo gran servitù per mezzo di detto  Cardinale, mi fece tornare in Arezzo don Antonio mio zio paterno, essendo di  poco avanti morto mio padre di peste; il quale don Antonio tenendomi lontano  dalla città, perché io non appestassi, fu cagione, che per fuggire l'ozio, mi  andai esercitando pel contado d'Arezzo, vicino ai nostri luoghi, in dipignere  alcune cose a fresco ai contadini del paese, ancor che io non avessi quasi ancor  mai tocco colori; nel che fare m'avvidi che il provarsi e fare da sé aiuta,  insegna e fa che altri fa bonissima pratica. L'anno poi 1528, finita la peste,  la prima opera che io feci fu una tavoletta nella chiesa di San Piero d'Arezzo  de' frati de' Servi, nella quale, che è appoggiata a un pilastro, sono tre mezze  figure: Sant'Agata, San Rocco e San Bastiano. La qual pittura, vedendola il  Rosso, pittore famosissimo, che di que' giorni venne in Arezzo, fu cagione che  conoscendovi qualche cosa di buono, cavata dal naturale, mi volle conoscere e  che poi m'aiutò di disegni e di consiglio. Né passò molto che per suo mezzo mi  diede Messer Lorenzo Gamurrini a fare una tavola, della quale mi fece il Rosso  il disegno, et io poi la condussi con quanto più studio, fatica e diligenza mi  fu possibile, per imparare et acquistarmi un poco di nome. E se il potere avesse  agguagliato il volere sarei tosto divenuto pittore ragionevole, cotanto mi  affaticava e studiava le cose dell'arte, ma io trovava le difficultà molto  maggiori di quello che a principio aveva stimato.   
Tuttavia, non perdendomi d'animo, tornai a Fiorenza, dove, veggendo non poter  se non con lunghezza di tempo divenir tale che io aiutassi tre sorelle e due  fratelli minori di me, statimi lasciati da mio padre, mi posi all'orefice; ma vi  stetti poco, perciò che venuto il campo a Fiorenza l'anno 1529, me n'andai con  Manno orefice e mio amicissimo a Pisa, dove, lasciato da parte l'esercizio  dell'orefice, dipinsi a fresco l'arco che è sopra la porta della Compagnia  vecchia de' Fiorentini, et alcuni quadri a olio, che mi furono fatti fare per  mezzo di don Miniato Pitti, abbate allora d'Agnano fuor di Pisa, e di Luigi  Guicciardini, che in quel tempo era in Pisa. Crescendo poi più ogni giorno la  guerra, mi risolvei tornarmene in Arezzo, ma non potendo per la diritta via et  ordinaria, mi condussi per le montagne di Modena a Bologna; dove, trovando che  si facevano per la coronazione di Carlo Quinto alcuni archi trionfali di  pittura, ebbi così giovinetto da lavorare con mio utile et onore. E perché io  disegnava assai acconciamente, arei trovato da starvi e da lavorare, ma il  disiderio che io aveva di riveder la mia famiglia e' parenti, fu cagione che,  trovata buona compagnia, me ne tornai in Arezzo, dove, trovato in buono essere  le cose mie, per la diligente custodia avutane dal detto don Antonio mio zio,  quietai l'animo et attesi al disegno, facendo anco alcune cosette a olio di non  molta importanza.   
Intanto, essendo il detto don Miniato Pitti fatto non so se abbate o priore  di Santa Anna, monasterio di Monte Oliveto in quel di Siena, mandò per me; e  così feci a lui et all'Albenga loro generale alcuni quadri et altre pitture.  Poi, essendo il medesimo fatto abbate di San Bernardo d'Arezzo, gli feci nel  poggiuolo dell'organo, in due quadri a olio, Iobbe e Moisè. Per che, piaciuta a  que' monaci l'opera, mi feciono fare innanzi alla porta principale della chiesa  nella volta e facciate d'un portico alcune pitture a fresco, cioè i quattro  Evangelisti con Dio Padre nella volta et alcun'altre figure grandi quanto il  vivo, nelle quali se bene, come giovane poco sperto, non feci tutto che arebbe  fatto un più pratico, feci nondimeno quello che io seppi e cosa che non  dispiacque a que' padri, avuto rispetto alla mia poca età e sperienza.   
Ma non sì tosto ebbi compiuta quell'opera, che, passando il cardinale Ipolito  de' Medici per Arezzo in poste, mi condusse a Roma a' suoi servigii, come s'è  detto nella vita del Salviati, là dove ebbi commodità, per cortesia  di quel signore, di attendere molti mesi allo studio del disegno. E potrei dire  con verità questa comodità e lo studio di questo tempo essere stato il mio vero  e principal maestro in questa arte, se bene per innanzi mi aveano non poco  giovato i sopra nominati, e non mi s'era mai partito del cuore un ardente  desiderio d'imparare et uno indefesso studio di sempre disegnare giorno e notte.  Mi furono anco di grande aiuto in que' tempi le concorrenze de' giovani miei  eguali e compagni, che poi sono stati per lo più eccellentissimi nella nostra  arte. Non mi fu anco se non assai pungente stimolo il disiderio della gloria et  il vedere molti esser riusciti rarissimi e venuti a gradi et onori. Onde diceva  fra me stesso alcuna volta: «Perché non è in mio potere con assidua fatica e  studio procacciarmi delle grandezze e gradi che s'hanno acquistato tanti altri?  Furono pure anch'essi di carne e d'ossa, come son io». Cacciato dunque da tanti  e sì fieri stimoli e dal bisogno che io vedeva avere di me la mia famiglia, mi  disposi a non volere perdonare a niuna fatica, disagio, vigilia e stento per  conseguire questo fine. E così propostomi nell'animo, non rimase cosa notabile  allora in Roma, né poi in Fiorenza et altri luoghi ove dimorai, la quale io in  mia gioventù non disegnassi: e non solo di pitture, ma anche di sculture et  architetture antiche e moderne, et oltre al frutto ch'io feci in disegnando la  volta e cappella di Michelagnolo, non restò cosa di Raffaello, Pulidoro e  Baldassarre da Siena, che similmente io non disegnassi in compagnia di Francesco Salviati, come già s'è detto nella  sua vita. Et acciò che avesse ciascuno di noi i disegni d'ogni cosa, non  disegnava il giorno l'uno quello che l'altro, ma cose diverse; di notte poi  ritraevamo le carte l'uno dell'altro, per avanzar tempo e fare più studio, per  non dir nulla che le più volte non mangiavamo la mattina se non così ritti, e  poche cose. Dopo la quale incredibile fatica, la prima opera che m'uscisse di  mano, come di mia propria fucina, fu un quadro grande di figure quanto il vivo  d'una Venere con le Grazie, che la adornavano e facevan bella, la quale mi fece  fare il cardinale de' Medici; del qual quadro non accade parlare, perché fu cosa  da giovanetto, né io lo toccherei, se non che mi è grato ricordarmi ancor di  que' primi principii e molti giovamenti nel principio dell'arti. Basta che quel  signore et altri mi diedero a credere che fusse un non so che di buon principio  e di vivace e pronta fierezza. E perché fra l'altre cose vi avea fatto per mio  capriccio un satiro libidinoso, il quale, standosi nascosto fra certe frasche,  si rallegrava e godeva in guardare le Grazie e Venere ignude, ciò piacque di  maniera al cardinale, che, fattomi tutto di nuovo rivestire, diede ordine che  facessi in un quadro maggiore pur a olio la battaglia de' satiri intorno a'  fauni, silvani e putti, che quasi facessero una baccanalia; per che, messovi  mano, feci il cartone e dopo abbozzai di colori la tela, che era lunga dieci  braccia.   
Avendo poi a partire il cardinale per la volta d'Ungheria, fattomi conoscere  a papa Clemente, mi lasciò in protezione di Sua Santità che mi dette in custodia  del signor Ieronimo Montaguto suo maestro di camera, con lettere che volendo io  fuggire l'aria di Roma quella state, io fussi ricevuto a Fiorenza dal duca  Alessandro, il che sarebbe stato bene che io avessi fatto; perciò che volendo io  pure stare in Roma, fra i caldi, l'aria e la fatica, amalai di sorte, che per  guarire fui forzato a farmi portare in ceste ad Arezzo. Pure, finalmente guarito  intorno alli dieci del dicembre vegnente, venni a Fiorenza dove fui dal detto  Duca ricevuto con buona cera, e poco appresso dato in custodia al magnifico  Messer Ottaviano de' Medici, il quale mi prese di maniera in protezzione, che  sempre, mentre visse, mi tenne in luogo di figliuolo; la buona memoria del quale  io riverirò sempre e ricorderò come d'un mio amorevolissimo padre.   
Tornato dunque ai miei soliti studii, ebbi comodo, per mezzo di detto  signore, d'entrare a mia posta nella sagrestia nuova di San Lorenzo, dove sono  l'opere di Michelagnolo, essendo egli di quei giorni andato a Roma, e così le  studiai per alcun tempo con molta diligenza così come erano in terra. Poi,  messomi a lavorare, feci in un quadro di tre braccia un Cristo morto, portato da  Niccodemo, Gioseffo et altri alla sepoltura, e dietro le Marie piangendo. Il  quale quadro, finito che fu, l'ebbe il duca Alessandro, con buono e felice  principio de' miei lavori; perciò che non solo ne tenne egli conto mentre visse,  ma è poi stato sempre in camera del duca Cosimo, et ora è in quella  dell'illustrissimo Principe suo figliuolo, et ancora che alcuna volta io abbia  voluto rimettervi mano per migliorarlo in qualche parte, non sono stato  lasciato.   
Veduta dunque questa mia prima opera, il duca Alessandro ordinò che io  finissi la camera terrena del palazzo de' Medici, stata lasciata imperfetta,  come s'è detto, da Giovanni da Udine. Onde io vi dipinsi quattro  storie de' fatti di Cesare: quando, notando, ha in una mano i suoi comentarii et  in bocca la spada; quando fra abruciare i scritti di Pompeo, per non vedere  l'opere de' suoi nemici; quando, dalla fortuna in mare travagliato, si dà a  conoscere a un nocchieri; e finalmente il suo trionfo, ma questo non fu finito  del tutto. Nel qual tempo, ancor che io non avessi se non poco più di diciotto  anni, mi dava il Duca sei scudi il mese di provisione, il piatto a me, et un  servitore, e le stanze da abitare, con altre molte commodità. Et ancor che io  conoscessi non meritar tanto a gran pezzo, io facea nondimeno tutto che sapeva  con amore e con diligenza; né mi pareva fatica dimandare a' miei maggiori quello  che io non sapeva, onde più volte fui d'opera e di consiglio aiutato dal Tribolo, dal Bandinello e da altri.   
Feci adunque in un quadro alto tre braccia esso duca Alessandro, armato e  ritratto di naturale, con nuova invenzione et un sedere fatto di prigioni legati  insieme e con altre fantasie. E mi ricorda che oltre al ritratto, il quale  somigliava, per far il brunito di quell'arme bianco, lucido e proprio, che io vi  ebbi poco meno che a perdere il cervello, cotanto mi affaticai in ritrarre dal  vero ogni minuzia. Ma disperato di potere in questa opera accostarmi al vero,  menai Iacopo da Puntormo, il quale io per la sua  molta virtù osservava, a vedere l'opera e consigliarmi; il quale, veduto il  quadro e conosciuta la mia passione, mi disse amorevolmente: «Figliuol mio,  insino a che queste arme vere e lustranti stanno a canto a questo quadro, le tue  ti parranno sempre dipinte, perciò che se bene la biacca è il più fiero colore  che adoperi l'arte, e nondimeno più fiero e lustrante è il ferro. Togli via le  vere e vedrai poi che non sono le tue finte armi così cattiva cosa, come le  tieni». Questo quadro, fornito che fu, diedi al Duca, et il Duca lo donò a  Messer Ottaviano de' Medici, nelle cui case è stato insino a oggi, in compagnia  del ritratto di Caterina allora giovane sorella del detto Duca e poi Reina di  Francia, e di quello del magnifico Lorenzo Vecchio. Nelle medesime case sono tre  quadri pur di mia mano e fatti nella mia giovanezza. In uno Abramo sacrifica  Isac, nel secondo è Cristo nell'orto, e nell'altro la cena che fa con  gl'Apostoli.   
Intanto, essendo morto Ipolito cardinale, nel quale era la somma collocata di  tutte le mie speranze, cominciai a conoscere quanto sono vane, le più volte, le  speranze di questo mondo, e che bisogna in se stesso, e nell'essere da qualche  cosa, principalmente confidarsi. Dopo quest'opere, veggendo io che il Duca era  tutto dato alle fortificazioni et al fabricare, cominciai, per meglio poterlo  servire, a dare opera alle cose d'architettura, e vi spesi molto tempo. Intanto,  avendosi a far l'apparato per ricevere l'anno 1536 in Firenze l'imperatore Carlo  Quinto, nel dare a ciò ordine il Duca comise ai deputati sopra quella onoranza,  come s'è detto nella vita del Tribolo, che m'avessero seco a disegnare tutti  gl'archi et altri ornamenti da farsi per quell'entrata. Il che fatto, mi fu  anco, per beneficarmi, allogato, oltre le bandiere grandi del castello e  fortezza, come si disse, la facciata a uso d'arco trionfale, che si fece a San  Felice in piazza, alta braccia quaranta e larga venti; et appresso l'ornamento  della porta a San Piero Gattolini, opere tutte grandi e sopra le forze mie. E,  che fu peggio, avendomi questi favori tirato addosso mille invidie, circa venti  uomini, che m'aiutavano far le bandiere e gl'altri lavori, mi piantarono in sul  buono, a persuasione di questo e di quello, acciò io non potessi condurre tante  opere e di tanta importanza. Ma io, che aveva preveduto la malignità di que'  tali, ai quali avea sempre cercato di giovare, parte lavorando di mia mano  giorno e notte, e parte aiutato da pittori avuti di fuora, che m'aiutavano di  nascoso, attendeva al fatto mio et a cercare di superare cotali difficultà e  malivoglienze con l'opere stesse.   
Il qual mentre Bertoldo Corsini, allora generale proveditore per sua  eccellenzia, aveva rapportato al Duca che io aveva preso a far tante cose, che  non era mai possibile che io l'avessi condotte a tempo, e massimamente non  avendo io uomini et essendo l'opere molto a dietro; per che, mandato il Duca per  me e dettomi quello che avea inteso, gli risposi che le mie opere erano a buon  termine, come poteva vedere sua eccellenzia a suo piacere, e che il fine  loderebbe il tutto; e partitomi da lui, non passò molto che occultamente venne  dove io lavorava, e vide il tutto, e conobbe in parte l'invidia e malignità di  coloro che sanza averne cagione mi pontavano addosso. Venuto il tempo che doveva  ogni cosa essere a ordine, ebbi finito di tutto punto e posti a' luoghi loro i  miei lavori, con molta sodisfazione del Duca e dell'universale. Là dove quelli  di alcuni che più avevano pensato a me, che a loro stessi, furono messi su  imperfetti. Finita la festa, oltre a' quattrocento scudi che mi furono pagati  per l'opere, me ne donò il Duca trecento, che si levarono a coloro che non  avevano condotto a fine le loro opere al tempo determinato, secondo che si era  convenuto d'accordo. Con i quali avanzi e donativo maritai una delle mie  sorelle, e poco dopo ne feci un'altra monaca nelle Murate d'Arezzo, dando al  monasterio oltre alla dote, o vero limosina, una tavola d'una Nunziata di mia  mano, con un tabernacolo del Sacramento in essa tavola accomodato, la quale fu  posta dentro nel loro coro, dove stanno a ufiziare.   
Avendomi poi dato a fare la Compagnia del Corpus Domini d'Arezzo la tavola  dell'altar maggiore di San Domenico, vi feci dentro un Cristo deposto di croce,  e poco appresso per la Compagnia di San Rocco cominciai la tavola della loro  chiesa in Firenze. Ora, mentre andava procacciandomi sotto la protezione del  duca Alessandro onore, nome e facultà, fu il povero signore crudelmente ucciso,  et a me levato ogni speranza di quello che io mi andava, mediante il suo favore,  promettendo dalla fortuna. Per che mancati, in pochi anni, Clemente, Ipolito et  Alessandro, mi risolvei, consigliato da Messer Ottaviano, a non volere più  seguitare la fortuna delle corti, ma l'arte sola, se bene facile sarebbe stato  accomodarmi col signor Cosimo de' Medici nuovo duca. E così tirando innanzi in  Arezzo la detta tavola, e facciata di San Rocco con l'ornamento, mi andava  mettendo a ordine per andare a Roma, quando per mezzo di Messer Giovanni  Pollastra, come Dio volle (al quale sempre mi sono raccomandato e del quale  riconosco et ho riconosciuto sempre ogni mio bene), fu' chiamato a Camaldoli,  capo della congregazione camaldolense, dai padri di quell'eremo a vedere quello  che disegnavano di voler fare nella loro chiesa. Dove giunto, mi piacque  sommamente l'alpestre et eterna solitudine e quiete di quel luogo santo, e se  bene mi accorsi di prima giunta che que' padri d'aspetto venerando, veggendomi  così giovane, stavano sopra di loro, mi feci animo e parlai loro di maniera, che  si risolverono a volere servirsi dell'opera mia nelle molte pitture che andavano  nella loro chiesa di Camaldoli a olio et in fresco. Ma dove volevano che io  innanzi a ogni altra cosa facessi la tavola dell'altar maggiore, mostrai loro  con buone ragioni che era meglio far prima una delle minori, che andavano nel  tramezzo, e che finita quella, se fusse loro piaciuta, arei potuto seguitare;  oltre ciò non volli fare con essi alcun patto fermo di danari, ma dissi che dove  piacesse loro, finita che fusse l'opera mia, me la pagassero a lor modo, e non  piacendo me la rendessero, che la terrei per me ben volentieri. La qual  condizione parendo loro troppo onesta et amorevole, furono contenti che io  mettessi mano a lavorare.   
Dicendomi essi adunque che vi volevano la Nostra Donna col Figlio in collo,  San Giovanni Batista e San Ieronimo, i quali ambidue furono eremiti et abitarono  i boschi e le selve, mi parti' dall'ermo e scorsi giù alla Badia loro di  Camaldoli, dove fattone con prestezza un disegno, che piacque loro, cominciai la  tavola, et in due mesi l'ebbi finita del tutto e messa al suo luogo, con molto  piacere di que' padri (per quanto mostrarono) e mio; il quale in detto spazio di  due mesi, provai quanto molto più giovi agli studii una dolce quiete et onesta  solitudine, che i rumori delle piazze e delle corti, conobbi dico l'error mio,  d'avere posto per l'addietro le speranze mie negl'uomini e nelle baie e  girandole di questo mondo. Finita dunque la detta tavola, mi allogorono  subitamente il resto del tramezzo della chiesa, cioè le storie et altro, che da  basso et alto vi andavano di lavoro a fresco, perciò che le facessi la state  vegnente, atteso che la vernata non sarebbe quasi possibile lavorare a fresco in  quell'alpe e fra que' monti. Per tanto, tornato in Arezzo finì la tavola di San  Rocco, facendovi la Nostra Donna, sei Santi et un Dio Padre, con certe saette in  mano figurate per la peste. Le quali mentre egli è in atto di fulminare, è  pregato da San Rocco et altri Santi per lo popolo. Nella facciata sono molte  figure a fresco, le quali insieme con la tavola sono come sono. Mandandomi poi a  chiamare in val di Caprese fra' Bartolomeo Graziani, frate di  Sant'Agostino dal Monte San Savino, mi diede a fare una tavola grande a olio  nella chiesa di Santo Agostino del monte detto, per l'altar maggiore. E così  rimaso d'accordo, me ne venni a Firenze a vedere Messer Ottaviano, dove stando  alcuni giorni, durai delle fatiche a far sì che non mi rimettesse al servizio  delle corti, come aveva in animo; pure io vinsi la pugna con buone ragioni, e  risolveimi d'andar per ogni modo, avanti che altro facessi, a Roma. Ma ciò non  mi venne fatto se non poi che ebbi fatto al detto Messer Ottaviano una copia del  quadro, nel quale ritrasse già Raffaello da Urbino papa Leone, Giulio  cardinale de' Medici et il cardinale de' Rossi, perciò che il Duca rivoleva il  proprio, che allora era in potere di esso Messer Ottaviano. La qual copia che io  feci è oggi nelle case degl'eredi di quel signore, il quale nel partirmi per  Roma mi fece una lettera di cambio di 500 scudi a Giovanbatista Puccini, che me  gli pagasse ad ogni mia richiesta, dicendomi: «Serviti di questi per potere  attendere a' tuoi studii; quando poi n'arai il commodo, potrai rendermegli o in  opere, o in contanti a tuo piacimento».   
Arrivato dunque in Roma di febraio l'anno 1538, vi stei tutto giugno,  attendendo, in compagnia di Giovanbatista Cungi dal Borgo mio garzone, a  disegnare tutto quello che mi era rimaso indietro l'altre volte che era stato in  Roma, et in particolare ciò che era sotto terra nelle grotte. Né lasciai cosa  alcuna d'architettura o scultura che io non disegnassi e non misurassi; in tanto  che posso dire con verità che i disegni ch'io feci in quello spazio di tempo  furono più di trecento. De' quali ebbi poi piacere et utile molti anni in  rivedergli, e rinfrescare la memoria delle cose di Roma. Le quali fatiche e  studio, quanto mi giovassero, si vide tornato che fui in Toscana nella tavola,  che io feci al Monte San Savino, nella quale dipinsi con alquanto miglior  maniera un'Assunzione di Nostra Donna, e da basso, oltre agl'Apostoli che sono  intorno al sepolcro, Santo Agostino e San Romualdo.   
Andato poi a Camaldoli, secondo che avea promesso a que' padri romiti, feci  nell'altra tavola del tramezzo la Natività di Gesù Cristo, fingendo una notte  alluminata dallo splendore di Cristo nato, circondato da alcuni pastori che  l'adorano. Nel che fare andai imitando con i colori i raggi solari, e ritrassi  le figure e tutte l'altre cose di quell'opera dal naturale e col lume, acciò  fussero più che si potesse simili al vero. Poi, perché quel lume non potea  passare sopra la capanna, da quivi in su et all'intorno, feci che suplisse un  lume che viene dallo splendore degl'Angeli che in aria cantano Gloria in  excelsis Deo, senzaché in certi luoghi fanno lume i pastori, che vanno  attorno con covoni di paglia accesi, et in parte la luna, la stella e l'Angelo  che apparisce a certi pastori. Quanto poi al casamento, feci alcune anticaglie a  mio capriccio con statue rotte, et altre cose somiglianti. Et insomma condussi  quell'opera con tutte le forze e saper mio, e se bene non arrivai con la mano e  col pennello al gran disiderio e volontà di ottimamente operare, quella pittura  nondimeno a molti è piaciuta. Onde Messer Fausto Sabeo, uomo letteratissimo et  allora custode della libreria del Papa, fece, e dopo lui alcuni altri, molti  versi latini in lode di quella pittura, mossi per aventura più da molta  affezzione, che dall'eccellenza dell'opera; comunche sia, se cosa vi è di buono,  fu dono di Dio.   
Finita quella tavola, si risolverono i padroni che io facessi a fresco nella  facciata le storie che vi andavano; onde feci sopra la porta il ritratto  dell'eremo, da un lato San Romualdo con un doge di Vinezia, che fu sant'uomo, e  dall'altro una visione, che ebbe il detto Santo là dove fece poi il suo eremo,  con alcune fantasie, grottesche et altre cose che vi si veggiono. E ciò fatto,  mi ordinarono che la state dell'anno a venire io tornassi a fare la tavola  dell'altar grande. Intanto il già detto don Miniato Pitti, che allora era  visitator della congregazione di Monte Uliveto, avendo veduta la tavola del  Monte S. Savino e l'opere di Camaldoli, trovò in Bologna don Filippo Serragli  fiorentino, abbate di S. Michele in Bosco, e gli disse che avendosi a dipignere  il refettorio di quell'onorato monasterio, gli pareva che a me e non ad altri si  dovesse quell'opera allogare; per che fattomi andare a Bologna, ancor che  l'opera fusse grande e d'importanza, la tolsi a fare, ma prima volli vedere  tutte le più famose opere di pittura che fussero in quella città, di bolognesi e  d'altri. L'opera dunque della testata di quel refettorio fu divisa in tre  quadri: in uno aveva ad essere quando Abramo nella valle Mambre apparecchiò da  mangiare agl'Angeli; nel secondo Cristo che essendo in casa di Maria Madalena e  Marta, parla con essa Marta, dicendogli che Maria ha eletto l'ottima parte; e  nella terza aveva da essere dipinto S. Gregorio a mensa co' dodici poveri, fra i  quali conobbe essere Cristo. Per tanto messo mano all'opera in quest'ultima  finsi San Gregorio a tavola in un convento, e servito da monaci bianchi di  quell'Ordine, per potervi accomodare que' padri, secondo che essi volevano.  Feci, oltre ciò, nella figura di quel santo Pontefice l'effigie di papa Clemente  VII, et intorno, fra molti signori, ambasciadori, principi et altri personaggi  che lo stanno a vedere mangiare, ritrassi il duca Alessandro de' Medici per  memoria de' beneficii e favori che io aveva da lui ricevuti, e per essere stato  chi egli fu, e con esso molti amici miei; e fra coloro che servono a tavola,  poveri, ritrassi alcuni frati miei domestici di quel convento, come di  forestieri che mi servivano, dispensatore, canovaio, et altri così fatti, e così  l'abate Serraglio, il generale don Cipriano da Verona et il Bentivoglio.  Parimente ritrassi il naturale ne' vestimenti di quel Pontefice, contrafacendo  velluti, damaschi et altri drappi d'oro e di seta d'ogni sorte. L'apparecchio  poi, vasi, animali et altre cose feci fare a Cristofano dal Borgo, come si disse  nella sua vita. Nella seconda storia cercai fare di maniera le teste, i panni et  i casamenti, oltre all'essere diversi dai primi, che facessino più che si può  apparire l'affetto di Cristo nell'instituire Madalena, e l'affezione e prontezza  di Marta nell'ordinare il convito e dolersi d'essere lasciata sola dalla sorella  in tante fatiche e ministerio; per non dir nulla dell'attenzione degl'Apostoli  et altre molte cose da essere considerate in questa pittura. Quanto alla terza  storia, dipinsi i tre Angeli (venendomi ciò fatto non so come) in una luce  celeste, che mostra partirsi da loro, mentre i raggi d'un sole gli circonda in  una nuvola. De' quali tre Angeli il vecchio Abramo adora uno, se bene sono tre  quelli che vede, mentre Sarra si sta ridendo e pensando come possa essere quello  che gl'è stato promesso, et Agar con Ismael in braccio si parte dall'ospizio. Fa  anco la medesima luce chiarezza ai servi che apparecchiano, fra i quali alcuni,  che non possono sofferire lo splendore, si mettono le mani sopra gl'occhi e  cercano di coprirsi; la quale varietà di cose, perché l'ombre crude et i lumi  chiari danno più forza alle pitture, fecero a questa aver più rilievo che  l'altre due non hanno, e variando di colore, fecero effetto molto diverso. Ma  così avess'io saputo mettere in opera il mio concetto, come sempre con nuove  invenzioni e fantasie sono andato, allora e poi, cercando le fatiche et il  difficile dell'arte!   
Quest'opera dunque, comunche sia, fu da me condotta in otto mesi, insieme con  un fregio a fresco et architettura, intagli, spalliere, tavole et altri  ornamenti di tutta l'opera e di tutto quel refettorio; et il prezzo di tutto mi  contentai che fusse dugento scudi, come quelli che più aspirava alla gloria che  al guadagno. Onde Messer Andrea Alciati mio amicissimo, che allora leggeva in  Bologna, vi fece far sotto queste parole: «Octonis mensibus opus ab Aretino  Georgio pictum, non tam praecio, quam amicorum obsequio, et honoris voto anno  1559. Philippus Serralius pon. curavit».   
Feci in questo medesimo tempo due tavolette d'un Cristo morto e d'una  Ressurrezzione, le quali furono da don Miniato Pitti abate poste nella chiesa di  Santa Maria di Barbiano fuor di San Gimignano di Valdelsa; le quali opere  finite, tornai subito a Fiorenza, perciò che il Trevisi, maestro Biagio et altri  pittori bolognesi, pensando che io mi volessi acasare in Bologna e torre loro di  mano l'opere et i lavori, non cessavano d'inquietarmi, ma più noiavano loro  stessi che me, il quale di certe lor passioni e modi mi rideva. In Firenze  adunque copiai da un ritratto grande infino alle ginocchia un cardinale Ipolito  a Messer Ottaviano, et altri quadri con i quali mi andai trattenendo in que'  caldi insoportabili della state. I quali venuti, mi tornai alla quiete e fresco  di Camaldoli, per fare la detta tavola dell'altar maggiore. Nella quale feci un  Cristo che è deposto di croce, con tutto quello studio e fatica che maggiore mi  fu possibile; e perché col fare e col tempo mi pareva pur migliorare qualche  cosa, né mi sodisfacendo della prima bozza, gli ridetti di mestica e la rifeci  quale la si vede di nuovo tutta. Et invitato dalla solitudine, feci in quel  medesimo luogo dimorando un quadro al detto Messer Ottaviano, nel quale dipinsi  un San Giovanni ignudo e giovinetto, fra certi scogli e massi e che io ritrassi  dal naturale di que' monti.   
Né a pena ebbi finite quest'opere, che capitò a Camaldoli Messer Bindo  Altoviti, per fare dalla cella di Santo Alberigo, luogo di que' padri, una  condotta a Roma per via del Tevere, di grossi abeti, per la fabrica di San  Piero; il quale veggendo tutte l'opere da me state fatte in quel luogo, e per  mia buona sorte piacendogli, prima che di lì partisse, si risolvé che io gli  facessi per la sua chiesa di Santo Apostolo di Firenze una tavola. Per che  finita quella di Camaldoli con la facciata della cappella in fresco, dove feci  esperimento di unire il colorito a olio con quello, e riuscimmi assai  acconciamente, me ne venni a Fiorenza e feci la detta tavola. E perché aveva a  dare saggio di me a Fiorenza, non avendovi più fatto somigliante opera, aveva  molti concorrenti e desiderio di acquistare nome, mi disposi a volere in  quell'opera far il mio sforzo e mettervi quanta diligenza mi fusse mai  possibile. E per potere ciò fare scarico di ogni molesto pensiero, prima maritai  la mia terza sorella e comperai una casa principiata in Arezzo, con un sito da  fare orti bellissimi nel borgo di San Vito, nella miglior aria di quella città.  D'ottobre adunque l'anno 1540 cominciai la tavola di Messer Bindo, per farvi una  storia che dimostrassi la Concezione di Nostra Donna, secondo che era il titolo  della cappella. La qual cosa perché a me era assai malagevole, avutone Messer  Bindo et io il parere di molti comuni amici, uomini litterati, la feci  finalmente in questa maniera: figurato l'albero del peccato originale nel mezzo  della tavola, alle radici di esso come primi trasgressori del comandamento di  Dio feci ignudi Adamo et Eva, e dopo agl'altri rami feci legati di mano in mano  Abram, Isac, Iacob, Moisè, Aron, Iosuè, Davit, e gl'altri Re successivamente  secondo i tempi, tutti dico legati per ambedue le braccia, eccetto Samuel e S.  Giovanni Batista i quali sono legati per un solo braccio, per essere stati  santificati nel ventre. Al tronco dell'albero feci avvolto con la coda l'antico  serpente, il quale, avendo dal mezzo in su forma umana, ha le mani legate di  dietro; sopra il capo gli ha un piede, calcandogli le corna, la gloriosa  Vergine, che l'altro tiene sopra una luna, essendo vestita di sole e coronata di  dodici stelle. La qual Vergine, dico, è sostenuta in aria dentro a uno splendore  da molti Angeletti nudi, illuminati dai raggi che vengono da lei, i quali raggi  parimente, passando fra le foglie dell'albero, rendono lume ai legati e pare che  vadano loro sciogliendo i legami con la virtù e grazia che hanno da colei donde  procedono. In cielo poi, cioè nel più alto della tavola sono due putti che  tengono in mano alcune carte, nelle quali sono scritte queste parole: «Quos  Evae culpa damnavit, Mariae gratia solvit». Insomma io non avea fino allora  fatto opera, per quello che mi ricorda, né con più studio, né con più amore e  fatica di questa, ma tuttavia, se bene satisfeci a altri per aventura, non  satisfeci già a me stesso, come che io sappia il tempo, lo studio e l'opera  ch'io misi particolarmente negl'ignudi, nelle teste, e finalmente in ogni cosa.  Mi diede Messer Bindo, per le fatiche di questa tavola, trecento scudi d'oro, et  inoltre l'anno seguente mi fece tante cortesie et amorevolezze in casa sua in  Roma, dove gli feci in un piccol quadro, quasi di minio, la pittura di detta  tavola, che io sarò sempre alla sua memoria ubbligato.   
Nel medesimo tempo ch'io feci questa tavola che fu posta, come ho detto, in  S. Apostolo, feci a Messer Ottaviano de' Medici una Venere et una Leda con i  cartoni di Michelagnolo, et in un gran quadro un San Girolamo, quanto il vivo,  in penitenza, il quale contemplando la morte di Cristo, che ha dinanzi in sulla  croce, si percuote il petto, per scacciare della mente le cose di Venere e le  tentazioni della carne, che alcuna volta il molestavano, ancor che fusse nei  boschi e luoghi solinghi e salvatichi, secondo che egli stesso di sé largamente  racconta. Per lo che dimostrare, feci una Venere, che con Amore in braccio fugge  da quella contemplazione, avendo per mano il Giuoco et essendogli cascate per  terra le frecce et il turcasso; senzaché le saette da Cupido tirate verso quel  Santo, tornano rotte verso di lui, et alcune, che cascano, gli sono riportate  col becco dalle colombe di essa Venere. Le quali tutte pitture, ancora che forse  allora mi piacessero e da me fussero fatte come seppi il meglio, non so quanto  mi piacciano in questa età. Ma perché l'arte in sé è dificile, bisogna torre da  chi fa quel che può. Dirò ben questo, però che lo posso dire con verità, d'avere  sempre fatto le mie pitture, invenzioni e disegni comunche sieno, non dico con  grandissima prestezza, ma sì bene con incredibile facilità e senza stento: di  che mi sia testimonio, come ho detto in altro luogo, la grandissima tela ch'io  dipinsi in San Giovanni di Firenze in sei giorni soli l'anno 1542, per lo  battesimo del signor don Francesco Medici, oggi principe di Firenze e di Siena.   
Ora se bene io voleva, dopo quest'opere, andare a Roma per satisfare a Messer  Bindo Altoviti, non mi venne fatto; perciò che chiamato a Vinezia da Messer  Pietro Aretino, poeta allora di chiarissimo nome e mio amicissimo, fui forzato,  perché molto disiderava vedermi, andar là; il che feci anco volentieri per  vedere l'opere di Tiziano e d'altri pittori in quel viaggio. La  qual cosa mi venne fatta, però che in pochi giorni vidi in Modena et in Parma  l'opere del Coreggio, quelle di Giulio Romano in Mantoa, e l'antichità di  Verona finalmente. Giunto in Vinezia con due quadri dipinti di mia mano con i  cartoni di Michelagnolo, gli donai a don Diego di Mendozza, che mi mandò dugento  scudi d'oro. Né molto dimorai a Vinezia, che pregato dall'Aretino feci ai  signori della Calza l'apparato d'una loro festa, dove ebbi in mia compagnia  Batista Cungi, e Cristofano Gherardi dal Borgo S. Sepolcro, e Bastiano Flori  aretino molto valenti e pratichi, di che si è in altro luogo ragionato a  bastanza, e gli nove quadri di pittura nel palazzo di Messer Giovanni Cornaro,  cioè nel soffittato d'una camera del suo palazzo, che è da San Benedetto.   
Dopo queste et altre opere di non piccola importanza che feci allora in  Vinezia, me ne parti', ancor che io fussi soprafatto dai lavori che mi venivano  per le mani, alli sedici d'agosto l'anno 1542, e tornaimene in Toscana dove,  avanti che ad altro volessi por mano, dipinsi nella volta d'una camera, che di  mio ordine era stata murata nella già detta mia casa, tutte l'arti che sono  sotto il disegno o che da lui dependono; nel mezzo è una Fama, che siede sopra  la palla del mondo e suona una tromba d'oro, gettandone via una di fuoco finta  per la Maledicenza, et intorno a lei sono con ordine tutte le dette arti con i  loro strumenti in mano. E perché non ebbi tempo a far il tutto, lasciai otto  ovati per fare in essi otto ritratti di naturale de' primi delle nostre arti.   
Ne' medesimi giorni feci alle monache di Santa Margherita di quella città, in  una cappella del loro orto, a fresco una Natività di Cristo di figure grandi  quanto il vivo. E così consumata che ebbi nella patria il resto di quella state  e parte dell'autunno, andai a Roma. Dove essendo dal detto Messer Bindo ricevuto  e molto carezzato, gli feci in un quadro a olio un Cristo quanto il vivo levato  di croce e posto in terra a' piedi della madre, e nell'aria Febo che oscura la  faccia del sole e Diana quella della luna. Nel paese poi, oscurato da queste  tenebre, si veggiono spezzarsi alcuni monti di pietra, mossi dal terremoto che  fu nel patir del Salvatore; e certi morti corpi di Santi si veggiono,  risorgendo, uscire de' sepolcri in varii modi. Il quale quadro finito che fu,  per sua grazia non dispiacque al maggior pittore, scultore et architetto che sia  stato a' tempi nostri e forse de' nostri passati; per mezzo anco di questo  quadro, fui, mostrandogliele il Giovio e Messer Bindo, conosciuto  dall'illustrissimo cardinale Farnese, al quale feci sì come volle, in una tavola  alta otto braccia e larga quattro, una Iustizia che abbraccia uno struzzo,  carico delle dodici tavole, e con lo scettro che ha la cicogna in cima; et  armata il capo d'una celata di ferro e d'oro, con tre penne, impresa del giusto  giudice, di tre variati colori, era nuda tutta dal mezzo in su; alla cintura ha  costei legati, come prigioni, con catene d'oro i sette Vizii che a lei sono  contrarii: la Corruzione, l'Ignoranza, la Crudeltà, il Timore, il Tradimento, la  Bugia e la Maledicenza; sopra le quali è posta in sulle spalle la Verità tutta  nuda, offerta dal Tempo alla Iustizia, con un presente di due colombe fatte per  l'Innocenza; alla quale Verità mette in capo essa Iustizia una corona di quercia  per la Fortezza dell'animo. La quale tutta opera condussi con ogni accurata  diligenza, come seppi il meglio.   
Nel medesimo tempo, facendo io gran servitù a Michelagnolo Buonarruoti e pigliando da lui parere in tutte  le cose mie, egli mi pose per sua bontà molta più affezione, e fu cagione il suo  consigliarmi a ciò, per avere veduto alcuni disegni miei, che io mi diedi di  nuovo e con miglior modo allo studio delle cose d'architettura; il che per  aventura non arei fatto già mai, se quell'uomo eccellentissimo non mi avesse  detto quel che mi disse, che per modestia lo taccio.   
Il San Pietro seguente, essendo grandissimi caldi in Roma, et avendo lì  consumata tutta quella vernata del 1543, me ne tornai a Fiorenza, dove in casa  Messer Ottaviano de' Medici, la quale io poteva dir casa mia, feci a Messer  Biagio Mei lucchese suo compare in una tavola il medesimo concetto di quella di  Messer Bindo in Santo Apostolo, ma variai dalla invenzione in fuore ogni cosa, e  quella finita si mise in Lucca in San Piero Cigoli alla sua cappella. Feci in  un'altra della medesima grandezza, cioè alta sette braccia e larga quattro, la  Nostra Donna, San Ieronimo, San Luca, Santa Cecilia, Santa Marta, Santo Agostino  e San Guido romito, la quale tavola fu messa nel Duomo di Pisa, dove n'erano  molte altre di mano d'uomini eccellenti. Ma non ebbi sì tosto condotto questa al  suo fine, che l'Operaio di detto Duomo mi diede a fare un'altra. Nella quale  perché aveva andare similmente la Nostra Donna, per variare dall'altra, feci  essa Madonna con Cristo morto a' piè della croce posato in grembo a lei, i  ladroni in alto sopra le croci, e con le Marie e Niccodemo che sono intorno,  accomodati i Santi titolari di quelle cappelle che tutti fanno componimento e  vaga la storia di quella tavola.   
Di nuovo tornato a Roma l'anno 1544, oltre a molti quadri che feci a diversi  amici, de' quali non accade far memoria, feci un quadro d'una Venere col disegno  di Michelagnolo a Messer Bindo Altoviti che mi tornavo seco in casa, e dipinsi  per Galeotto da Girone mercante fiorentino in una tavola a olio Cristo deposto  di croce, la quale fu posta nella chiesa di Santo Agostino di Roma alla sua  cappella. Per la quale tavola poter fare con mio commodo, insieme alcun'opere  che mi aveva allogato Tiberio Crispo castellano di Castel Sant'Agnolo, mi era  ritirato da me in Trastevere, nel palazzo, che già murò il vescovo Adimari,  sotto Santo Onofrio, che poi è stato fornito da Salviati il secondo. Ma sentendomi indisposto  e stracco da infinite fatiche, fui forzato tornarmene a Fiorenza, dove feci  alcuni quadri, e fra gl'altri uno in cui era Dante, Petrarca, Guido Cavalcanti,  il Boccaccio, Cino da Pistoia e Guittone d'Arezzo, il quale fu poi di Luca  Martini, cavato dalle teste antiche loro accuratamente, del quale ne sono state  fatte poi molte copie.   
Il medesimo anno 1544 condotto a Napoli da don Giammateo d'Anversa generale  de' monaci di Monte Oliveto, perch'io dipignessi il refettorio d'un loro  monasterio fabricato dal re Alfonso Primo, quando giunsi fui per non accettare  l'opera, essendo quel refettorio e quel monastero fatto d'architettura antica e  con le volte a quarti acuti, e basse, e cieche di lumi, dubitando di non avere  ad acquistarvi poco onore. Pure astretto da don Miniato Pitti e da don Ipolito  da Milano miei amicissimi et allora visitatori di quell'Ordine, accettai  finalmente l'impresa. Là dove, conoscendo di non poter fare cosa buona, se non  con gran copia d'ornamenti, gl'occhi abagliando di chi avea a vedere  quell'opera, con la varietà di molte figure, mi risolvei a fare tutte le volte  di esso refettorio lavorate di stucchi per levar via con ricchi partimenti di  maniera moderna tutta quella vecchiaia e goffezza di sesti. Nel che mi furon di  grande aiuto le volte e mura, fatte, come si usa in quella città, di pietre di  tufo, che si tagliono come fa il legname, o meglio cioè come i mattoni non cotti  interamente. Perciò che io vi ebbi commodità, tagliando, di fare sfondati di  quadri, ovali et ottangoli ringrossando con chiodi e rimettendo de' medesimi  tufi. Ridotte adunque quelle volte a buona proporzione con quei stucchi, i quali  furono i primi che a Napoli fussero lavorati modernamente, e particoIarmente le  facciate e teste di quel refettorio, vi feci sei tavole a olio, alte sette  braccia, cioè tre per testata. In tre che sono sopra l'entrata del refettorio è  ii piovere della manna al popolo ebreo, presenti Moisè et Aron che la  ricogliono, nel che mi sforzai di mostrare nelle donne, negl'uomini e ne' putti  diversità d'attitudini e vestiti, e l'affetto con che ricogliono e ripongono la  manna ringraziandone Dio. Nella testata che è a sommo è Cristo che desina in  casa di Simone, e Maria Madalena, che con le lacrime gli bagna i piedi e  gl'asciuga con i capelli, tutta mostrandosi pentita de' suoi peccati. La quale  storia è partita in tre quadri: nel mezzo è la cena, a man ritta una  bottiglieria con una credenza piena di vasi in varie forme e stravaganti, et a  man sinistra uno scalco che conduce le vivande. Le volte furono compartite in  tre parti: in una si tratta della Fede, nella seconda della Religione e nella  terza dell'Eternità. Ciascuna delle quali, perché erano in mezzo, ha otto Virtù  intorno, dimostranti ai monaci che in quel refettorio mangiano quello che alla  loro vita e perfezzione è richiesto. E per arricchire i vani delle volte, gli  feci pieni di grottesche, le quali in quarantotto vani fanno ornamento alle  quarantotto immagini celesti; et in sei facce per lo lungo di quel refettorio  sotto le finestre fatte maggiori e con ricco ornamento, dipinsi sei delle  parabole di Gesù Cristo, le quali fanno a proposito di quel luogo. Alle quali  tutte pitture et ornamenti corrisponde l'intaglio delle spalliere fatte  riccamente. Dopo, feci all'altar maggiore di quella chiesa una tavola alta otto  braccia dentrovi la Nostra Donna che presenta a Simeone nel tempio Gesù Cristo  piccolino, con nova invenzione. Ma è gran cosa, che dopo Giotto, non era stato insino allora in sì  nobile e gran città maestri che in pittura avessino fatto alcuna cosa  d'importanza, se ben vi era stato condotto alcuna cosa di fuori di mano del Perugino e di Raffaello, per lo che m'ingegnai  fare di maniera, per quanto si estendeva il mio poco sapere, che si avessero a  svegliare gl'ingegni di quel paese a cose grandi et onorevoli operare. E questo  o altro che ne sia stato cagione, da quel tempo in qua vi sono state fatte di  stucchi e pitture molte bellissime opere.   
Oltre alle pitture sopradette, nella volta della foresteria del medesimo  monasterio condussi a fresco, di figure grandi quanto il vivo, Gesù Cristo che  ha la croce in ispalla, et a imitazione di lui molti de' suoi Santi che l'hanno  similmente addosso, per dimostrare che a chi vuole veramente seguitar lui,  bisogna portare e con buona pacienza l'avversità che dà il mondo. Al generale di  detto Ordine condussi in un gran quadro Cristo, che aparendo agl'Apostoli  travagliati in mare dalla fortuna, prende per un braccio S. Piero, che a lui era  corso per l'acqua, dubitando non affogare. Et in un altro quadro per l'abate  Capeccio feci la Ressurezione; e queste cose condotte a fine, al signor don  Pietro di Tolledo viceré di Napoli dipinsi a fresco nel suo giardino di Pozzuolo  una cappella et alcuni ornamenti di stucchi sottilissimi. Per lo medesimo si era  dato ordine di far due gran logge, ma la cosa non ebbe effetto per questa  cagione. Essendo stata alcuna differenza fra il viceré e detti monaci, venne il  bargello con sua famiglia al monasterio per pigliar l'abate et alcuni monaci,  che in processione avevano avuto parole, per conto di precedenza, con i monaci  neri. Ma i monaci facendo difesa, aiutati da circa quindici giovani che meco di  stucchi e pitture lavoravano, ferirono alcuni birri, per lo che bisognando di  notte cansargli, s'andarono chi qua e là, e così io rimaso quasi solo, non solo  non potei fare le logge di Pozzuolo, ma né anco fare ventiquattro quadri di  storie del Testamento Vecchio e della vita di S. Giovanni Batista; i quali, non  mi sadisfacendo di restare in Napoli più, portai a fornire a Roma, donde gli  mandai, e furono messi intorno alle spalliere e sopra gl'armarii di noce fatti  con mia disegni et architettura, nella sagrestia di San Giovanni Carbonaro,  convento de' frati eremitani osservanti di Santo Agostino, ai quali poco innanzi  avea dipinto in una cappella fuor della chiesa in tavola un Cristo crucifisso,  con ricco e vario ornamento di stucco, a richiesta del Seripando lor generale,  che fu poi cardinale. Parimente a mezzo le scale di detto convento feci a fresco  San Giovanni Evangelista, che sta mirando la Nostra Donna vestita di sole, con i  piedi sopra la luna e coronata di dodici stelle. Nella medesima città dipinsi a  Messer Tommaso Cambi, mercante fiorentino e mio amicissimo, nella sala d'una sua  casa, in quattro facciate i tempi e le stagioni dell'anno: il Sogno, il Sonno  sopra un terrazzo, dove fece una fontana.   
Al duca di Gravina dipinsi in una tavola, che egli condusse al suo Stato, i  Magi che adorano Cristo, et ad Orsanca segretario del viceré feci un'altra  tavola, con cinque figure intorno a un Crucifisso, e molti quadri. Ma con tutto  ch'io fussi assai ben visto da que' signori, guadagnassi assai e l'opere ogni  giorno moltiplicassero, giudicai, poi che i miei uomini s'erano partiti, che  fusse ben fatto, avendo in un anno lavorato in quella città opere a bastanza,  ch'io me ne tornassi a Roma. E così fatto, la prima opera che io facessi fu al  signor Ranuccio Farnese, allora arcivescovo di Napoli, in tela quattro portegli  grandissimi a olio per l'organo del piscopio di Napoli, dentrovi dalla parte  dinanzi cinque Santi patroni di quella città, e dentro la Natività di Gesù  Cristo, con i pastori, e Davit re, che canta in sul suo salterio: «Dominus  dixit ad me», etc. E così i sopra detti ventiquattro quadri et alcuni di  Messer Tommaso Cambi, che tutti furono mandati a Napoli. E ciò fatto, dipinsi  cinque quadri a Raffaello Acciaiuoli che gli portò in Ispagna, della Passione di  Cristo. L'anno medesimo, avendo animo il cardinale Farnese di far dipignere la  sala della Cancelleria nel palazzo di San Giorgio, monsignor Giovio, disiderando  che ciò si facesse per le mie mani, mi fece fare molti disegni di varie  invenzioni, che poi non furono messi in opera. Nondimeno si risolvé finalmente  il cardinale ch'ella si facesse in fresco, e con maggior prestezza che fusse  possibile, per servirsene a certo suo tempo determinato. È la detta sala lunga  poco più di palmi cento, larga cinquanta et alta altretanto. In ciascuna testa  adunque larga palmi cinquanta, si fece una storia grande, et in una delle  facciate lunghe due, nell'altra per essere impedita dalle finestre, non si poté  far istorie, e però vi si fece un ribattimento, simile alla facciata in testa,  che è dirimpetto; e per non far basamento, come insino a quel tempo s'era usato  dagl'artefici in tutte le storie, alto da terra nove palmi almeno, feci, per  variare e far cosa nuova, nascere scale da terra, fatte in varii modi et a  ciascuna storia la sua. E sopra quelle feci poi cominciare a salire le figure a  proposito di quel suggetto, a poco a poco, tanto che trovano il piano, dove  comincia la storia. Lunga e forse noiosa cosa sarebbe dire tutti i particolari e  le minuzie di queste storie, però toccherò solo e brevemente le cose principali.  Adunque, in tutte sono storie de' fatti di papa Paulo Terzo, et in ciascuna è il  suo ritratto di naturale. Nella prima, dove sono, per dirle così, le spedizioni  della corte di Roma, si veggiono sopra il Tevere diverse nazioni e diverse  ambascerie, con molti ritratti di naturale, che vengono a chieder grazie et ad  offerire diversi tributi al Papa. Et oltre ciò, in certe nicchione, due figure  grandi, poste sopra le porte, che mettono in mezzo la storia, delle quali una è  fatta per l'Eloquenza, che ha sopra due Vittorie che tengono la testa di Giulio  Cesare, e l'altra per la Iustizia, con due altre Vittorie che tengono la testa  di Alessandro Magno, e nell'alto del mezzo è l'arme di detto Papa sostenuta  dalla Liberalità e dalla Rimunerazione. Nella facciata maggiore è il medesimo  Papa che rimunera la virtù donando porzioni, cavalierati, benefizii, pensioni,  vescovadi e cappelli di cardinali, e fra quei che ricevono sono il Sadoleto,  Polo, il Bembo, il Contarino, il Giovio, il Buonarruoto et altri virtuosi tutti  ritratti di naturale, et in questa è dentro a un gran nicchione una Grazia con  un corno di dovizia pieno di dignità, il quale ella riversa in terra. E le  Vittorie, che ha sopra a somiglianza dell'altre, tengono la testa di Traiano  imperatore. Èvvi anco l'Invidia, che mangia vipere e pare che crepi di veleno. E  di sopra nel fine della storia è l'arme del cardinal Farnese, tenuta dalla Fama  e dalla Virtù. Nell'altra storia, il medesimo papa Paulo si vede tutto intento  alle fabriche, e particolarmente a quella di S. Piero sopra il Vaticano. E però  sono innanzi al Papa ginocchioni la Pittura, la Scultura e l'Architettura, le  quali, avendo spiegato un disegno della pianta di esso San Piero, pigliano  ordine di essequire e condurre al suo fine quell'opera. Èvvi, oltre le dette  figure, l'Animo, che aprendosi il petto mostra il cuore, la Sollecitudine  appresso e la Ricchezza. E nella nicchia, la Copia con due Vittorie, che tengono  l'effigie di Vespasiano. E nel mezzo è la Religione cristiana in un'altra  nicchia che divide l'una storia dall'altra, e sopra le sono due Vittorie, che  tengono la testa di Numa Pompilio. E l'arme che è sopra questa istoria è del  cardinal San Giorgio, che già fabricò quel palazzo. Nell'altra storia, che è  dirimpetto alle spedizioni della corte, è la pace universale fatta fra i  cristiani per mezzo di esso papa Paulo Terzo, e massimamente fra Carlo Quinto  imperatore e Francesco re di Francia che vi son ritratti. E però vi si vede la  Pace abruciar l'arme, chiudersi il tempio di Iano, et il Furor incatenato. Delle  due nicchie grandi, che mettono in mezzo la storia, in una è la Concordia, con  due Vittorie sopra, che tengono la testa di Tito imperadore e nell'altra è la  Carità con molti putti. Sopra la nicchia tengono due Vittorie la testa  d'Augusto, e nel fine è l'arme di Carlo Quinto tenuta dalla Vittoria e dalla  Ilarità, e tutta quest'opera è piena d'inscrizioni e motti bellissimi fatti dal  Giovio; et in particolare ve n'ha uno che dice quelle pitture essere state tutte  condotte in cento giorni.   
Il che io come giovane feci, come quegli che non pensai se non a servire quel  signore, che come ho detto desiderava averla finita per un suo servizio, in quel  tempo. E nel vero, se bene io m'affaticai grandemente in far cartoni e studiare  quell'opera, io confesso aver fatto errore in metterla poi in mano di garzoni  per condurla più presto come mi bisognò fare, perché meglio sarebbe stato aver  penato cento mesi et averla fatta di mia mano. Perciò che se bene io non  l'avessi fatta in quel modo che arei voluto per servizio del cardinale et onor  mio, arei pure avuto quella satisfazione d'averla condotta di mia mano. Ma  questo errore fu cagione che io mi risolvei a non far più opere, che non fussero  da me stesso del tutto finite sopra la bozza di mano degl'aiuti, fatta con i  disegni di mia mano. Si fecero assai pratichi in quest'opera Bizzera e Roviale  spagnuoli, che assai vi lavorarono con esso meco, e Batista Bagnacavallo  bolognese, Bastian Flori aretino, Giovanpaolo dal Borgo e fra' Salvadore Foschi  d'Arezzo, e molti altri miei giovani. In questo tempo andando io spesso la sera,  finita la giornata, a veder cenare il detto illustrissimo cardinal Farnese, dove  erano sempre a trattenerlo, con bellissimi et onorati ragionamenti, il Molza,  Anibal Caro, Messer Gandolfo, Messer Claudio Tolomei, Messer Romolo Amasseo,  monsignor Giovio, et altri molti letterati e galantuomini, de' quali è sempre  piena la corte di quel signore, si venne a ragionare una sera fra l'altre del  museo del Giovio, e de' ritratti degl'uomini illustri che in quello ha posti con  ordine et inscrizioni bellissime. E passando d'una cosa in altra, come si fa  ragionando, disse monsignor Giovio avere avuto sempre gran voglia, et averla  ancora, d'aggiugnere al museo et al suo libro degli Elogi un trattato nel quale  si ragionasse degl'uomini illustri nell'arte del disegno, stati da Cimabue insino a' tempi nostri. Dintorno a che  allargandosi, mostrò certo aver gran cognizione e giudizio nelle cose delle  nostre arti, ma è ben vero che bastandogli fare gran fascio, non la guardava  così in sottile e spesso, favellando di detti artefici, o scambiava i nomi, i  cognomi, le patrie, l'opere, e non dicea le cose come stavano a punto, ma così  alla grossa. Finito che ebbe il Giovio quel suo discorso, voltatosi a me disse  il cardinale: «Che ne dite voi Giorgio, non sarà questa una bell'opera e  fatica?». «Bella», rispos'io «monsignor illustrissimo, se il Giovio sarà aiutato  da chichesia dell'arte a mettere le cose a' luoghi loro, et a dirle come stanno  veramente. Parlo così, perciò che, se bene è stato questo suo discorso  maraviglioso, ha scambiato e detto molte cose una per un'altra.» «Potrete  dunque», soggiunse il cardinale pregato dal Giovio, dal Caro, dal Tolomei e  dagl'altri «dargli un sunto voi, et una ordinata notizia di tutti i detti  artefici, dell'opere loro secondo l'ordine de' tempi. E così aranno anco da voi  questo benefizio le vostre arti.» La qual cosa ancor che io conoscessi essere  sopra le mie forze, promisi secondo il poter mio di far ben volentieri; e così  messomi giù a ricercare miei ricordi, e scritti fatti intorno a ciò, infin da  giovanetto, per un certo mio passatempo e per una affezione che io aveva a la  memoria de' nostri artefici, ogni notizia de' quali mi era carissima, misi  insieme tutto che intorno a ciò mi parve a proposito. E lo portai al Giovio, il  quale, poi che molto ebbe lodata quella fatica, mi disse: «Giorgio mio, voglio  che prendiate voi questa fatica di distendere il tutto in quel modo che  ottimamente veggio saprete fare, perciò che a me non dà il cuore, non conoscendo  le maniere, né sapendo molti particolari che potrete sapere voi, sanza che  quando pure io facessi, farei il più più un trattatetto simile a quello di  Plinio; fate quel ch'io vi dico, Vasari, perché veggio che è per riuscirvi  bellissimo, ché saggio dato me ne avete in questa narrazione». Ma parendogli che  io a ciò fare non fussi molto risoluto me lo fé dire al Caro, al Molza, al  Tolomei et altri miei amicissimi; per che risolutomi finalmente, vi misi mano  con intenzione, finita che fusse, di darla a uno di loro, che rivedutola et  acconcia, la mandasse fuori sotto altro nome che il mio.   
Intanto partito di Roma l'anno 1546 del mese d'ottobre, e venuto a Fiorenza,  feci alle monache del famoso monasterio delle Murate, in tavola a olio, un  Cenacolo per lo loro refettorio, la quale opera mi fu fatta fare e pagata da  papa Paulo Terzo, che aveva monaca in detto monasterio una sua cognata, stata  contessa di Pitigliano. E dopo feci in un'altra tavola la Nostra Donna che ha  Cristo fanciullo in collo, il quale sposa Santa Caterina vergine e martire, e  due altri Santi; la qual tavola mi fece fare Messer Tomaso Cambi per una sua  sorella allora badessa nel monasterio del Bigallo fuor di Fiorenza. E quella  finita feci a monsignor de' Rossi de' conti di San Secondo e vescovo di Pavia  due quadri grandi a olio: in uno è San Ieronimo e nell'altro una Pietà, i quali  amendue furono mandati in Francia. L'anno poi 1547, fini' del tutto per lo Duomo  di Pisa, ad instanza di Messer Bastiano della Seta Operaio, un'altra tavola che  aveva cominciata; e dopo a Simon Corsi mio amicissimo un quadro grande a olio  d'una Madonna.   
Ora, mentre che io faceva quest'opere, avendo condotto a buon termine il  libro delle vite degl'artefici del disegno, non mi restava quasi altro a fare  che farlo trascrivere in buona forma, quando a tempo mi venne alle mani don Gian  Matteo Faetani da Rimini, monaco di Monte Oliveto, persona di lettere e  d'ingegno, perché io gli facessi alcun'opere nella chiesa e monasterio di Santa  Maria di Scolca d'Arimini, là dove egli era abate. Costui dunque, avendomi  promesso di farlami trascrivere a un suo monaco eccellente scrittore e di  correggerla egli stesso, mi tirò ad Arimini a fare, per questa comodità, la  tavola et altar maggiore di detta chiesa, che è lontana dalla città circa tre  miglia. Nella qual tavola feci i Magi che adorano Cristo, con una infinità di  figure da me condotte in quel luogo soletario con molto studio, imitando quanto  io potei gl'uomini delle corti di tre re, mescolati insieme, ma in modo però che  si conosce all'arie de' volti di che regione e soggetto a qual re sia ciascuno.  Conciò sia, che alcuni hanno le carnagioni bianche, i secondi bigie, et altri  nere, oltre che la diversità delli abiti e varie portature fa vaghezza e  distinzione. È messa la detta tavola in mezzo da due gran quadri, nei quali è il  resto della corte, cavalli, liofanti e giraffe, e per la cappella in varii  luoghi sparsi Profeti, Sibille, Evangelisti in atto di scrivere. Nella cupola o  vero tribuna feci quattro gran figure, che trattano delle lodi di Cristo, e  della sua stirpe, e della Vergine, e questi sono Orfeo et Omero con alcuni motti  greci, Vergilio col motto: «Iam redit et Virgo», etc. e Dante con questi  versi: 
Tu sei colei che l'umana natura   
nobilitasti sì, che il suo fattore   
non si sdegnò di farsi tua fattura.  
Con molte altre figure et invenzioni delle quali non accade altro dire. Dopo,  seguitandosi intanto di scrivere il detto libro e ridurlo a buon termine, feci  in S. Francesco d'Arimini all'altar maggiore una tavola grande a olio, con un S.  Francesco che riceve da Cristo le stimate nel monte della Vernia, ritratto dal  vivo; ma perché quel monte è tutto di massi e pietre bigie, e similmente S.  Francesco et il suo compagno si fanno bigi, finsi un sole, dentro al quale è  Cristo con buon numero di Serafini, e così fa l'opera variata, et il Santo con  altre figure tutto lumeggiato dallo splendore di quel sole, et il paese aombrato  dalla varietà d'alcuni colori cangianti, che a molti non dispiacciono, et allora  furono molto lodati dal cardinale Capodiferro, legato della Romagna. Condotto  poi da Rimini a Ravenna, feci come in altro luogo s'è detto una tavola nella  nuova chiesa della Badia di Classi dell'Ordine di Camaldoli, dipignendovi un  Cristo deposto di croce in grembo alla Nostra Donna; e nel medesimo tempo feci  per diversi amici molti disegni, quadri, et altre opere minori che sono tante e  sì diverse, che a me sarebbe difficile il ricordarmi pur di qualche parte, et a'  lettori forse non grato udir tante minuzie.   
Intanto essendosi fornita di murare la mia casa d'Arezzo, et io tornatomi a  casa, feci i disegni per dipignere la sala, tre camere e la facciata, quasi per  mio spasso di quella state. Nei quali disegni feci fra l'altre cose tutte le  provincie e luoghi dove io aveva lavorato, quasi come portassino tributi, per i  guadagni che avea fatto con esso loro, a detta mia casa; ma nondimeno per allora  non feci altro che il palco della sala, il quale è assai ricco di legnami, con  tredici quadri grandi, dove sono gli dei celesti, et in quattro angoli i quattro  tempi dell'anno ignudi, i quali stanno a vedere un gran quadro, che è in mezzo,  dentro al quale sono in figure grandi quanto il vivo la Virtù, che ha sotto i  piedi l'Invidia e, presa la Fortuna per i capegli, bastona l'una e l'altra; e  quello che molto allora piacque si fu che in girando la sala attorno, et essendo  in mezzo la Fortuna, viene talvolta l'Invidia a esser sopra essa Fortuna e  Virtù, e d'altra parte la Virtù sopra l'Invidia e Fortuna, sì come si vede che  aviene spesse volte veramente. Dintorno nelle facciate sono la Copia, la  Liberalità, la Sapienza, la Prudenza, la Fatica, l'Onore et altre cose simili, e  sotto attorno girano storie di pittori antichi, di Apelle, di Zeusi, Parrasio,  Protogene et altri con varii partimenti e minuzie, che lascio per brevità. Feci  ancora nel palco d'una camera di legname intagliato, Abram in un gran tondo, di  cui Dio benedice il seme e promette multiplicherà in infinito, et in quattro  quadri, che a questo tondo sono intorno, feci la Pace, la Concordia, la Virtù e  la Modestia, e perché adorava sempre la memoria e le opere degli antichi,  vedendo tralasciare il modo di colorire a tempera, mi venne voglia di  risuscitare questo modo di dipignere, e la feci tutta a tempera; il qual modo  per certo non merita d'esser affatto dispregiato o tralasciato; et all'entrar  della camera feci, quasi burlando, una sposa, che ha in una mano un rastrello,  col quale mostra avere rastrellato e portato seco quanto ha mai potuto dalla  casa del padre, e nella mano che va innanzi, entrando in casa il marito ha un  torchio acceso, mostrando di portare dove va il fuoco, che consuma e distrugge  ogni cosa.   
Mentre che io mi stava così passando tempo, venuto l'anno 1548, don Giovan  Benedetto da Mantoa, abate di Santa Fiore e Lucilla monasterio de' monaci neri  cassinensi, dilettandosi infinitamente delle cose di pittura et essendo molto  mio amico, mi pregò che io volessi fargli nella testa di uno loro refettorio un  Cenacolo, o altra cosa simile. Onde risolutomi a compiacerli, andai pensando di  farvi alcuna cosa fuor dell'uso comune, e così mi risolvei insieme con quel buon  padre a farvi le nozze della reina Ester con il re Assuero, et il tutto in una  tavola a olio, lunga quindici braccia, ma prima metterla in sul luogo, e quivi  poi lavorarla; il qual modo (e lo posso io affermare, che l'ho provato) è quello  che si vorrebbe veramente tenere a volere che avessono le pitture i suoi proprii  e veri lumi, perciò che infatti il lavorare a basso, o in altro luogo che in sul  proprio dove hanno da stare, fa mutare alle pitture i lumi, l'ombre e molte  altre proprietà. In quest'opera adunque mi sforzai di mostrare maestà e  grandezza, comeché io non possa far giudizio se mi venne fatto o no; so bene che  il tutto disposi in modo, che con assai bell'ordine si conoscono tutte le  maniere de' serventi, paggi, scudieri, soldati della guardia, bottiglieria,  credenza, musici, et un nano, et ogni altra cosa che a reale e magnifico convito  è richiesta. Vi si vede fra gl'altri lo scalco condurre le vivande in tavola,  accompagnato da buon numero di paggi vestiti a livrea, et altri scudieri e  serventi. Nelle teste della tavola, che è aovata, sono signori et altri gran  personaggi e cortigiani che in piedi stanno, come s'usa, a vedere il convito. Il  re Assuero stando a mensa come re altero et innamorato sta tutto appoggiato  sopra il braccio sinistro, che porge una tazza di vino alla reina, et in atto  veramente regio et onorato. Insomma se io avessi a credere quello che allora  sentii dirne al popolo, e sento ancora da chiunche vede quest'opera, potrei  credere d'aver fatto qualcosa, ma io so da vantaggio come sta la bisogna, e  quello che arei fatto se la mano avesse ubidito a quello che io m'era concetto  nell'idea. Tuttavia vi misi (questo posso confessare liberamente) studio e  diligenza. Sopra l'opera viene nel peduccio d'una volta un Cristo che porge a  quella regina una corona di fiori, e questo è fatto in fresco, e vi fu posto per  accennare il concetto spirituale della istoria, per la quale si denotava che  repudiata l'antica sinagoga Cristo sposava la nuova chiesa de' suoi fedeli  cristiani.   
Feci in questo medesimo tempo il ritratto di Luigi Guicciardini, fratello di  Messer Francesco che scrisse la Storia, per essermi detto Messer Luigi  amicissimo et avermi fatto quell'anno, come mio amorevole compare, essendo  commensario d'Arezzo, una grandissima tenuta di terre, dette Frassineto in  Valdichiana; il che è stata la salute et il maggior bene di casa mia, e sarà de'  miei successori, sì come spero, se non mancheranno a loro stessi. Il quale  ritratto, che è appresso gl'eredi di detto Messer Luigi, si dice essere il  migliore e più somigliante, d'infiniti che n'ho fatti. Né de' ritratti fatti da  me che pur sono assai farò menzione alcuna, che sarebbe cosa tediosa; e per dire  il vero, me ne sono difeso quanto ho potuto di farne. Questo finito, dipinsi a  fra' Mariotto da Castiglioni aretino, per la chiesa di San Francesco di detta  terra, in una tavola la Nostra Donna, Santa Anna, San Francesco e San Salvestro.  E nel medesimo tempo disegnai al cardinal di Monte, che poi fu papa Giulio  Terzo, molto mio patrone, il quale era allora legato di Bologna, l'ordine e  pianta d'una gran coltivazione, che poi fu messa in opera a' piè del Monte San  Savino, sua patria, dove fui più volte d'ordine di quel signore, che molto si  dilettava di fabricare. Andato poi, finite che ebbi quest'opere, a Fiorenza,  feci quella state, in un segno da portare a processione della Compagnia di San  Giovanni de' Peducci d'Arezzo, esso Santo che predica alle turbe da una banda, e  dall'altra il medesimo che battezza Cristo, la qual pittura avendo sùbito che fu  finita mandata nelle mie case d'Arezzo, perché fusse consegnata agl'uomini di  detta Compagnia, avvenne che passando per Arezzo monsignor Giorgio cardinale  d'Armignach franzese, vide, nell'andare per altro a vedere la mia casa, il detto  segno, o vero stendardo; per che, piacciutogli, fece ogni opera d'averlo,  offerendo gran prezzo, per mandarlo al re di Francia, ma io non volli mancar di  fede a chi me l'aveva fatto fare, perciò che se bene molti dicevano che n'arei  potuto fare un altro, non so se mi fusse venuto fatto così bene e con pari  diligenza.   
E non molto dopo feci per Messer Anibale Caro, secondo che mi aveva richiesto  molto innanzi per una sua lettera che è stampata, in un quadro Adone che muore  in grembo a Venere, secondo l'invenzione di Teocrito, la quale opera fu poi, e  quasi contra mia voglia, condotta in Francia e data a Messer Albizo del Bene,  insieme con una Psiche che sta mirando con una lucerna Amore che dorme, e si  sveglia avendolo cotto una favilla di essa lucerna. Le quali tutte figure ignude  e grandi quanto il vivo furono cagione che Alfonso di Tommaso Cambi giovanetto  allora bellissimo, letterato, virtuoso e molto cortese e gentile, si fece  ritrarre ignudo, e tutto intero, in persona d'uno Endimione cacciatore amato  dalla Luna, la cui candidezza, et un paese all'intorno capriccioso, hanno il  lume dalla chiarezza della luna, che fa nell'oscuro della notte una veduta assai  propria e naturale, perciò che io m'ingegnai con ogni diligenza di contrafare i  colori proprii che suol dare il lume di quella bianca giallezza della luna alle  cose che percuote.   
Dopo questo, dipinsi due quadri per mandare a Raugia: in uno la Nostra Donna  e nell'altro una Pietà; et appresso a Francesco Botti in un gran quadro la  Nostra Donna col Figliuolo in braccio e Giuseppo, il quale quadro, che io certo  feci con quella diligenza che seppi maggiore, si portò seco in Ispagna. Forniti  questi lavori andai l'anno medesimo a vedere il cardinale de' Monti a Bologna,  dove era legato, e con esso dimorando alcuni giorni, oltre a molti altri  ragionamenti, seppe così ben dire, e ciò con tante buone ragioni persuadermi,  che io mi risolvei, stretto da lui, a far quello che insino allora non avea  voluto fare, cioè a pigliare moglie, e così tolsi, come egli volle, una  figliuola di Francesco Bacci nobile cittadino aretino. Tornato a Fiorenza feci  un gran quadro di Nostra Donna, secondo un mio nuovo capriccio e con più figure,  il quale ebbe Messer Bindo Altoviti, che perciò mi donò cento scudi d'oro, e lo  condusse a Roma, dove è oggi nelle sue case. Feci oltre ciò nel medesimo tempo  molti altri quadri, come a Messer Bernardetto de' Medici, a Messer Bartolomeo  Strada fisico eccellente, et a altri miei amici, che non accade ragionarne.   
Di que' giorni, essendo morto Gismondo Martelli in Fiorenza, et avendo  lasciato per testamento che in S. Lorenzo alla cappella di quella nobile  famiglia si facesse una tavola con la Nostra Donna et alcuni Santi, Luigi e  Pandolfo Martelli, insieme con Messer Cosimo Bartoli, miei amicissimi, mi  ricercarono che io facessi la detta tavola. Et avutone licenza dal signor duca  Cosimo patrone e primo Operaio di quella chiesa, fui contento di farla, ma con  facultà di potervi fare a mio capriccio alcuna cosa di S. Gismondo, alludendo al  nome di detto testatore. La quale convenzione fatta, mi ricordai avere inteso  che Filippo di ser Brunellesco architetto di quella  chiesa avea data quella forma a tutte le cappelle, acciò in ciascuna fusse  fatta, non una piccola tavola, ma alcuna storia o pittura grande, che empiesse  tutto quel vano. Per che, disposto a volere in questa parte seguire la volontà  et ordine del Brunellesco, più guardando all'onore che al picciol guadagno che  di quell'opera destinata a far una tavola piccola e con poche figure potea  trarre, feci in una tavola larga braccia dieci et alta tredici la storia, o vero  martirio di San Gismondo re, cioè quando egli, la moglie e due figliuoli furono  gettati in un pozzo da un altro re, o vero tiranno, e feci che l'ornamento di  quella cappella, il quale è mezzo tondo, mi servisse per vano della porta d'un  gran palazzo, rustica, per la quale si avesse la veduta del cortile quadro,  sostenuto da pilastri e colonne doriche, e finsi che per lo straforo di quella  si vedesse nel mezzo un pozzo a otto facce, con salita intorno di gradi, per i  quali salendo i ministri, portassono a gettare detti due figliuoli nudi nel  pozzo; et intorno nelle logge dipinsi popoli che stanno da una parte a vedere  quell'orrendo spettacolo, e nell'altra, che è la sinistra, feci alcuni  masnadieri, i quali avendo presa con fierezza la moglie del re, la portano verso  il pozzo per farla morire. Et in sulla porta principale feci un gruppo di  soldati che legano San Gismondo, il quale con attitudine relassata e paziente  mostra patir ben volentieri quella morte e martirio, e sta mirando in aria  quattro Angeli che gli mostrano le palme e corone del martirio, sue, della  moglie e de' figliuoli, la qual cosa pare che tutto il riconforti e consoli. Mi  sforzai similmente di mostrare la crudeltà e fierezza dell'empio tiranno, che  sta in sul pian del cortile di sopra a vedere quella sua vendetta e la morte di  San Gismondo. Insomma, quanto in me fu, feci ogni opera che in tutte le figure  fussero più che si può i proprii affetti e convenienti attitudini e fierezze, e  tutto quello si richiedeva; il che quanto mi riuscisse, lascerò ad altri farne  giudizio. Dirò bene che io vi misi quanto potei e seppi di studio, fatica e  diligenza. Intanto disiderando il signor duca Cosimo che il libro delle vite,  già condotto quasi al fine, con quella maggior diligenza che a me era stato  possibile e con l'aiuto d'alcuni miei amici, si desse fuori et alle stampe, lo  diedi a Lorenzo Torrentino impressor ducale, e così fu cominciato a stamparsi.  Ma non erano anche finite le teoriche, quando, essendo morto papa Paulo Terzo,  cominciai a dubitare d'avermi a partire di Fiorenza, prima che detto libro fusse  finito di stampare. Perciò che andando io fuor di Fiorenza ad incontrare il  cardinal di Monte, che passava per andare al Conclavi, non gli ebbi sì tosto  fatto riverenza et alquanto ragionato, che mi disse: «Io vo a Roma, et al sicuro  sarò papa. Spedisciti, se hai che fare, e subito, avuto la nuova, vientene a  Roma sanza aspettare altri avvisi o d'essere chiamato». Né fu vano cotal  pronostico, però che essendo quel carnovale in Arezzo, e dandosi ordine a certe  feste e mascherate, venne nuova che il detto cardinale era diventato Giulio  Terzo, per che montato subito a cavallo venni a Fiorenza, donde, sollecitato dal  Duca, andai a Roma per esservi alla coronazione di detto nuovo Pontefice et al  fare dell'apparato.   
E così giunto in Roma e scavalcato a casa Messer Bindo, andai a far reverenza  e baciare il piè a Sua Santità il che fatto, le prime parole che mi disse furono  il ricordarmi che quello che mi aveva di sé pronosticato non era stato vano. Poi  dunque che fu coronato e quietato alquanto, la prima cosa che volle si facesse  si fu sodisfare a un obligo, che aveva alla memoria di Messer Antonio vecchio e  primo cardinal di Monte, d'una sepoltura da farsi a S. Piero a Montorio. Della  quale fatti i modelli e disegni, fu condotta di marmo, come in altro luogo s'è  detto pienamente, et in tanto io feci la tavola di quella cappella, dove dipinsi  la conversione di S. Paulo: ma per variare da quello che avea fatto il  Buonarruoto nella Paulina, feci S. Paulo, come egli scrive, giovane che già  cascato da cavallo è condotto dai soldati ad Anania cieco, dal quale per  imposizione delle mani riceve il lume degl'occhi perduto et è battezzato. Nella  quale opera, o per la strettezza del luogo, o altro che ne fusse cagione, non  sodisfeci interamente a me stesso, se bene forse ad altri non dispiacque, et in  particolare a Michelagnolo.   
Feci similmente a quel Pontefice un'altra tavola per una cappella del  palazzo, ma questa, per le cagioni dette altra volta, fu poi da me condotta in  Arezzo e posta in Pieve all'altar maggiore. Ma quando né in questa, né in quella  già detta di S. Piero a Montorio, io non avessi pienamente sodisfatto né a me,  né ad altri, non sarebbe gran fatto, imperò che, bisognandomi essere  continuamente alla voglia di quel Pontefice, era sempre in moto, o vero occupato  in far disegni d'architettura, e massimamente essendo io stato il primo che  disegnasse e facesse tutta l'invenzione della vigna Iulia, che egli fece fare  con spesa incredibile, la quale se bene fu poi da altri essequita, io fui  nondimeno quegli che misi sempre in disegno i capricci del Papa, che poi si  diedero a rivedere e correggere a Michelagnolo; et Iacopo Barozzi da Vignuola  finì con molti suoi disegni le stanze, sale et altri molti ornamenti di quel  luogo. Ma la fonte bassa fu d'ordine mio e dell'Amannato, che poi vi restò e  fece la loggia che è sopra la fonte. Ma in quell'opera non si poteva mostrare  quello che altri sapesse, né far alcuna cosa pel verso, perciò che venivano di  mano in mano a quel Papa nuovi capricci, i quali bisognava metter in  essecuzione, secondo che ordinava giornalmente Messer Piergiovanni Aliotti,  vescovo di Forlì.   
In quel mentre, bisognandomi l'anno 1550 venire per altro a Fiorenza ben due  volte, la prima finii la tavola di San Gismondo, la quale venne il Duca a vedere  in casa Messer Ottaviano de' Medici dove la lavorai, e gli piacque di sorte, che  mi disse, finite le cose di Roma, me ne venissi a Fiorenza al suo servizio, dove  mi sarebbe ordinato quello avessi da fare. Tornato dunque a Roma e dato fine  alle dette opere cominciate, e fatta una tavola all'altar maggiore della  Compagnia della Misericordia di un San Giovanni decollato, assai diverso  dagl'altri che si fanno comunemente, la quale posi su l'anno 1553, me ne volea  tornare, ma fui forzato, non potendogli mancare, a fare a Messer Bindo Altoviti  due logge grandissime di stucchi et a fresco. Una delle quali dipinsi alla sua  vigna con nuova architettura, perché essendo la loggia tanto grande che non si  poteva senza pericolo girarvi le volte, le feci fare con armadure di legname, di  stuoie, di canne, sopra le quali si lavorò di stucco, e dipinse a fresco come se  fussero di muraglia, e per tale appariscono e son credute da chiunque le vede, e  son rette da molti ornamenti di colonne di mischio, antiche e rare; e l'altra  nel terreno della sua casa in ponte, piena di storie a fresco. E dopo per lo  palco d'una anticamera quattro quadri grandi a olio delle quattro stagioni  dell'anno, e questi finiti fui forzato ritrarre per Andrea della Fonte mio  amicissimo una sua donna di naturale, e con esso gli diedi un quadro grande d'un  Cristo che porta la croce, con figure naturali, il quale aveva fatto per un  parente del Papa, al quale non mi tornò poi bene di donarlo. Al vescovo di  Vasona feci un Cristo morto tenuto da Niccodemo e da due Angeli, et a  Pierantonio Bandini una Natività di Cristo col lume della notte e con varia  invenzione.   
Mentre io faceva quest'opere e stava pure a vedere quello che il Papa  disegnasse di fare, vidi finalmente che poco si poteva da lui sperare, e che in  vano si faticava in servirlo. Per che, non ostante che io avessi già fatto i  cartoni per dipignere a fresco la loggia che è sopra la fonte di detta vigna, mi  risolvei a volere per ogni modo venire a servire il duca di Fiorenza;  massimamente, essendo a ciò fare sollecitato da Messer Averardo Serristori e dal  vescovo de' Ricasoli, ambasciatori in Roma di sua eccellenza, e con lettere da  Messer Sforza Almeni suo coppiere e primo cameriere.   
Essendo dunque trasferitomi in Arezzo, per di lì venirmene a Fiorenza, fui  forzato fare a monsignor Minerbetti vescovo di quella città, come a mio signore  et amicissimo, in un quadro, grande quanto il vivo, la Pacienza, in quel modo  che poi se n'è servito per impresa e riverso della sua medaglia il signor Ercole  duca di Ferrara. La quale opera finita, venni a baciar la mano al signor duca  Cosimo, dal quale fui per sua benignità veduto ben volentieri; et in tanto che  s'andò pensando a che primamente io dovessi por mano, feci fare a Cristofano  Gherardi dal Borgo con miei disegni la facciata di Messer Sforza Almeni di  chiaro scuro, in quel modo e con quelle invenzioni che si son dette in altro  luogo distesamente. E perché in quel tempo mi trovavo essere de' signori priori  della città di Arezzo, ofizio che governa la città, fui con lettere del signor  Duca chiamato al suo servizio et assoluto da quello obligo; e venuto a Fiorenza  trovai che sua eccellenza aveva cominciato quell'anno a murare  quell'appartamento del suo palazzo che è verso la piazza del Grano con ordine  del Tasso intagliatore et allora architetto del palazzo; ma era stato posto il  tetto tanto basso, che tutte quelle stanze avevano poco sfogo et erano nane  affatto, ma perché l'alzare i cavagli et il tetto era cosa lunga, consigliai che  si facesse uno spartimento e ricinto di travi con sfondati grandi di braccia due  e mezzo fra i cavagli del tetto, e con ordine di mensole per lo ritto che  facessono fregiatura circa a due braccia sopra le travi; la qual cosa piacendo  molto a sua eccellenza, diede ordine subito che così si facesse, e che il Tasso  lavorasse i legnami et i quadri, dentro ai quali si aveva a dipignere la  geneologia degli dei, per poi seguitare l'altre stanze.   
Mentre dunque che si lavoravano i legnami di detti palchi, avuto licenza dal  Duca, andai a starmi due mesi fra Arezzo e Cortona, parte per dar fine ad alcuni  miei bisogni e parte per fornire un lavoro in fresco cominciato in Cortona nelle  facciate e volta della Compagnia del Gesù. Nel qual luogo feci tre istorie della  vita di Gesù Cristo, e tutti i sacrificii stati fatti a Dio nel Vecchio  Testamento da Caino et Abel infino a Nemia profeta, dove anche in quel mentre  accomodai di modelli e disegni la fabrica della Madonna Nuova fuor della città.  La quale opera del Gesù finita, tornai a Fiorenza con tutta la famiglia l'anno  1555, al servizio del duca Cosimo; dove cominciai e finii i quadri e le facciate  et il palco di detta sala di sopra chiamata degli Elementi, facendo nei quadri,  che sono undici, la castrazione di Cielo per l'Aria, et in un terrazzo a canto a  detta sala feci nel palco i fatti di Saturno e di Opi, e poi nel palco  d'un'altra camera grande tutte le cose di Cerere e Proserpina; in una camera  maggiore, che è allato a questa, similmente nel palco, che è ricchissimo,  istorie della dea Berecinzia e di Cibele col suo trionfo e le 4 stagioni, e  nelle facce tutti e dodici mesi. Nel palco d'un'altra, non così ricca, il  nascimento di Giove, il suo essere nutrito dalla capra Alfea, col rimanente  dell'altre cose di lui più segnalate. In un altro terrazzo a canto alla medesima  stanza, molto ornato di pietre e di stucchi, altre cose di Giove e Giunone. E  finalmente nella camera che segue il nascere d'Ercole con tutte le sue fatiche,  e quello che non si poté mettere nel palco si mise nelle fregiature di ciascuna  stanza, o si è messo ne' panni d'arazzo che il signor Duca ha fatto tessere con  mia cartoni a ciascuna stanza, corrispondenti alle pitture delle facciate in  alto. Non dirò delle grottesche, ornamenti e pitture di scale, né altre molte  minuzie fatte di mia mano in quello apparato di stanze, perché oltre che spero  se n'abbia a fare altra volta più lungo ragionamento, le può vedere ciascuno a  sua voglia e darne giudizio. Mentre di sopra si dipignevano queste stanze, si  murarono l'altre che sono in sul piano della sala maggiore e rispondono a queste  per dirittura a piombo, con gran comodi di scale publiche e secrete che vanno  dalle più alte alle più basse abitazioni del palazzo.   
Morto intanto il Tasso, il Duca, che aveva grandissima voglia che quel  palazzo, stato murato a caso et in più volte in diversi tempi e più a comodo  degl'ufiziali che con alcuno buon ordine, si correggesse, si risolvé a volere  che per ogni modo, secondo che possibile era, si rassettasse, e la sala grande  col tempo si dipignesse, et il Bandinello seguitasse la cominciata udienza. Per  dunque accordare tutto il palazzo insieme, cioè il fatto con quello che s'aveva  da fare, mi ordinò che io facessi più piante e disegni, e finalmente, secondo  che alcune gl'erano piaciute, un modello di legname, per meglio potere a suo  senno andare accomodando tutti gl'appartamenti, e dirizzare e mutar le scale  vecchie che gli parevano erte, mal considerate e cattive. Alla qual cosa, ancor  che impresa difficile e sopra le forze mi paresse, misi mano, e condussi, come  seppi il meglio, un grandissimo modello, che è oggi appresso sua eccellenza, più  per ubbidirla che con speranza mi avesse da riuscire. Il quale modello, finito  che fu, o fusse sua o mia ventura, o il disiderio grandissimo che io aveva di  sodisfare, gli piacque molto; per che, dato mano a murare, a poco a poco si è  condotto, facendo ora una cosa e quando un'altra, al termine che si vede. Et in  tanto che si fece il rimanente, condussi con ricchissimo lavoro di stucchi in  varii spartimenti le prime otto stanze nuove, che sono in sul piano della gran  sala, fra salotti, camere et una cappella, con varie pitture et infiniti  ritratti di naturale che vengono nelle istorie, cominciando da Cosimo Vecchio, e  chiamando ciascuna stanza dal nome d'alcuno disceso da lui grande e famoso. In  una adunque sono l'azzioni del detto Cosimo più notabili, e quelle virtù che più  furono sue proprie, et i suoi maggiori amici e servitori, col ritratto de'  figliuoli, tutti di naturale; e così sono insomma quella di Lorenzo Vecchio,  quella di papa Leone suo figliuolo, quella di papa Clemente, quella del signor  Giovanni padre di sì gran Duca, quella di esso signor duca Cosimo. Nella  cappella è un bellissimo e gran quadro di mano di Raffaello da Urbino, in mezzo a S. Cosimo e  Damiano mie pitture, nei quali è detta cappella intitolata; così delle stanze  poi di sopra dipinte alla signora duchessa Leonora, che sono quattro, sono  azzioni di donne illustri, greche, ebree, latine e toscane, a ciascuna camera  una di queste; perché oltre che altrove n'ho ragionato, se ne dirà pienamente  nel Dialogo che tosto daremo in luce, come s'è detto, che il tutto qui  raccontare sarebbe stato troppo lungo. Delle quali mie fatiche ancora che  continue, difficili e grandi, ne fui dalla magnanima liberalità di sì gran Duca,  oltre alle provisioni, grandemente e largamente rimunerato con donativi, e di  case onorate e comode in Fiorenza et in villa, perché io potessi più agiatamente  servirlo; oltre che nella patria mia d'Arezzo mi ha onorato del supremo  magistrato del Gonfalonieri et altri ufizii con facultà che io possa sostituire  in quegli un de' cittadini di quel luogo, senza che a ser Piero mio fratello ha  dato in Fiorenza ufizi d'utile, e parimente a' mia parenti d'Arezzo favori  eccessivi, là dove io non sarò mai per le tante amorevolezze sazio di confessar  l'obligo che io tengo con questo signore.   
E tornando all'opere mie dico che pensò questo eccellentissimo signore di  mettere ad esecuzione un pensiero avuto già gran tempo, di dipignere la sala  grande, concetto degno della altezza e profondità dell'ingegno suo, né so se,  come dicea, credo burlando meco, perché pensava certo che io ne caverei le mani,  et a' dì suoi la vederebbe finita, o pur fusse qualche altro suo segreto, e,  come sono stati tutti e' suoi, prudentissimo giudizio. L'effetto insomma fu che  mi commesse che si alzassi i cavalli et il tetto più di quel che gl'era braccia  tredici, e si facessi il palco di legname, e si mettessi d'oro, e dipignessi  pien di storie a olio: impresa grandissima, importantissima e se non sopra  l'animo forse sopra le forze mie; ma o che la fede di quel gran signore, e la  buona fortuna che gl'ha in tutte le cose, mi facessi da più di quel che io sono,  o che la speranza e l'occasione di sì bel suggetto mi agevolassi molto di  facultà, o che (e questo dovevo preporre a ogn'altra cosa) la grazia di Dio mi  somministrassi le forze, io la presi. E come si è veduto la condussi contra  l'openione di molti in molto manco tempo, non solo che io avevo promesso e che  meritava l'opera, ma neanche io, o pensassi mai sua eccellenza illustrissima.  Ben mi penso che ne venissi maravigliata e sodisfattissima, perché venne fatta  al maggior bisogno et alla più bella occasione che gli potessi occorrere, e  questa fu, acciò si sappia la cagione di tanta sollecitudine, che avendo  prescritto il maritaggio che si trattava dello illustrissimo Principe nostro con  la figliuola del passato Imperatore, e sorella del presente, mi parve debito mio  far ogni sforzo che in tempo et occasione di tanta festa, questa che era la  principale stanza del palazzo, e dove si avevano a far gli atti più importanti,  si potessi godere. E qui lascerò pensare non solo a chi è dell'arte, ma a chi è  fuora ancora pur che abbi veduto la grandezza e varietà di quell'opera, la quale  occasione terribilissima e grande, doverrà scusarmi se io non avessi per cotal  fretta satisfatto pienamente in una varietà così grande di guerre in terra et in  mare, espugnazioni di città, batterie, assalti, scaramuccie, edificazioni di  città, consigli publici, cerimonie antiche e moderne, trionfi, e tante altre  cose che non che altro gli schizzi, disegni e cartoni di tanta opera  richiedevano lunghissimo tempo, per non dir nulla de' corpi ignudi, nei quali  consiste la perfezzione delle nostre arti, né de' paesi dove furono fatte le  dette cose dipinte, i quali ho tutti avuto a ritrarre di naturale in sul luogo e  sito proprio, sì come ancora ho fatto molti capitani generali, soldati et altri  capi che furono in quelle imprese che ho dipinto. Et insomma ardirò dire che ho  avuto occasione di fare in detto palco quasi tutto quello che può credere  pensiero e concetto d'uomo, varietà di corpi, visi, vestimenti, abigliamenti,  celate, elmi, corazze, acconciature di capi diverse, cavalli, fornimenti, barde,  artiglierie d'ogni sorte, navigazioni, tempeste, pioggie, nevate, e tante altre  cose che io non basto a ricordarmene, ma chi vede quest'opera può agevolmente  immaginarsi quante fatiche e quante vigilie abbia sopportato in fare con quanto  studio ho potuto maggiore, circa quaranta storie grandi, et alcune di loro in  quadri di braccia dieci per ogni verso, con figure grandissime, et in tutte le  maniere. E se bene mi hanno alcuni de' giovani miei creati aiutato, mi hanno  alcuna volta fatto commodo et alcuna no. Perciò che ho avuto tallora, come sanno  essi, a rifare ogni cosa di mia mano, e tutta ricoprire la tavola, perché sia  d'una medesima maniera. Le quali storie dico trattano delle cose di Fiorenza,  dalla sua edificazione insino a oggi, la divisione in quartieri, le città  sottoposte, nemici superati, città soggiogate, et in ultimo il principio e fine  della guerra di Pisa, da uno de' lati, e dall'altro il principio similmente e  fine di quella di Siena; una dal governo popolare condotta et ottenuta nello  spazio di quattordici anni, e l'altra dal Duca in quattordici mesi, come si  vedrà; oltre quello che è nel palco, e sarà nelle facciate, che sono ottanta  braccia lunghe ciascuna et alte venti, che tuttavia vo dipignendo a fresco, per  poi anco di ciò poter ragionare in detto Dialogo.   
Il che tutto ho voluto dire in fin qui non per altro che per mostrare con  quanta fatica mi sono adoperato et adopero tuttavia nelle cose dell'arte, e con  quante giuste cagioni potrei scusarmi, dove in alcuna avessi (che credo avere in  molte) mancato. Aggiugnerò anco, che quasi nel medesimo tempo, ebbi carico di  disegnare tutti gl'archi da mostrarsi a sua eccellenza per determinare l'ordine  tutto, e poi mettere gran parte in opera, e far finire il già detto grandissimo  apparato, fatto in Fiorenza per le nozze del signor principe illustrissimo: di  far fare con miei disegni in dieci quadri, alti braccia quattordici l'uno et  undici larghi, tutte le piazze delle città principali del dominio, tirate in  prospettiva, con i loro primi edificatori et insegne, oltre di far finire la  testa di detta sala, cominciata dal Bandinello; di far fare nell'altra una  scena, la maggiore e più ricca che fusse da altri fatta mai, e finalmente di  condurre le scale principali di quel palazzo, i loro ricetti, et il cortile, e  colonne in quel modo che sa ognuno e che si è detto di sopra, con quindici città  dell'imperio e del Tiruolo, ritratte di naturale in tanti quadri. Non è anche  stato poco il tempo che ne' medesimi tempi ho messo in tirare innanzi, da che  prima la cominciai, la loggia e grandissima fabrica de' magistrati, che volta  sul fiume d'Arno, della quale non ho mai fatto murare altra cosa più difficile,  né più pericolosa, per essere fondata in sul fiume e quasi in aria. Ma era  necessaria, oltre all'altre cagioni, per appiccarvi, come si è fatto, il gran  corridore, che attraversando il fiume, va dal palazzo ducale al palazzo e  giardino de' Pitti. Il quale corridore fu condotto in cinque mesi con mio ordine  e disegno ancor che sia opera da pensare che non potesse condursi in meno di  cinque anni. Oltre che anco fu mia cura il far rifare, per le medesime nozze, et  accrescere nella tribuna maggiore di Santo Spirito i nuovi ingegni della festa  che già si faceva in San Felice in Piazza, il che tutto fu ridotto a quella  perfezzione che si poteva maggiore, onde non si corrono più di que' pericoli che  già si facevano in detta festa.   
È stata similmente mia cura l'opera del palazzo e chiesa de' cavalieri di  Santo Stefano in Pisa, e la tribuna, o vero cupola della Madonna dell'Umiltà in  Pistoia, che è opera importantissima. Di che tutto, senza scusare la mia  imperfezzione, la quale conosco da vantaggio se cosa ho fatto di buono, rendo  infinite grazie a Dio, dal quale spero avere anco tanto d'aiuto che io vedrò  quando che sia finita la terribile impresa delle dette facciate della sala, con  piena sodisfazione de' miei signori, che già, per ispazio di tredici anni, mi  hanno dato occasione di grandissime cose, con mio onore et utile operare, per  poi, come stracco, logoro et invecchiato riposarmi. E se le cose dette, per la  più parte, ho fatto con qualche fretta e prestezza, per diverse cagioni, questa  spero io di fare con mio commodo, poi che il signor Duca si contenta che io non  la corra, ma la faccia con agio, dandomi tutti quei riposi e quelle ricreazioni  che io medesimo so disiderare.   
Onde l'anno passato, essendo stracco per le molte opere sopra dette, mi diede  licenza che io potessi alcuni mesi andare a spasso, per che messomi in viaggio  cercai poco meno che tutta Italia, rivedendo infiniti amici, e miei signori, e  l'opere di diversi eccellenti artefici, come ho detto di sopra ad altro  proposito. In ultimo essendo in Roma per tornarmene a Fiorenza, nel baciare i  piedi al santissimo e beatissimo papa Pio Quinto, mi comise che io gli facessi  in Fiorenza una tavola per mandarla al suo convento e chiesa del Bosco, ch'egli  faceva tuttavia edificare nella sua patria, vicino ad Alessandria della Paglia.  Tornato dunque a Fiorenza, e per averlomi Sua Santità comandato, e per le molte  amorevolezze fattemi, gli feci, sì come avea commessomi, in una tavola  l'Adorazione de' Magi, la quale come seppe essere stata da me condotta a fine,  mi fece intendere che per sua contentezza e per conferirmi alcuni suoi pensieri,  io andassi con la detta tavola a Roma, ma sopra tutto per discorrere sopra la  fabrica di San Piero, la quale mostra di avere a cuore sommamente. Messomi  dunque a ordine con cento scudi, che per ciò mi mandò, e mandata innanzi la  tavola, andai a Roma. Dove, poi che fui dimorato un mese, et avuti molti  ragionamenti con Sua Santità, e consigliatolo a non permettere che s'alterasse  l'ordine del Buonarruoto nella fabrica di San Piero, e fatti alcuni disegni, mi  ordinò che io facessi per l'altar maggiore della detta sua chiesa del Bosco, e  non una tavola, come s'usa comunemente, ma una machina grandissima quasi a guisa  d'arco trionfale, con due tavole grandi, una dinanzi et una di dietro, et in  pezzi minori circa trenta storie piene di molte figure che tutte sono a  bonissimo termine condotte. Nel qual tempo ottenni graziosamente da Sua Santità  (mandandomi con infinita amorevolezza e favore le bolle espedite gratis) la  erezione d'una cappella e decanato nella Pieve d'Arezzo, che è la cappella  maggiore di detta Pieve, con mio padronato e della casa mia, dotata da me e di  mia mano dipinta, et offerta alla bontà divina per una ricognizione (ancor che  minima sia) del grande obligo c'ho con sua maiestà per infinite grazie e  benefizii che s'è degnato farmi. La tavola della quale, nella forma, è molto  simile alla detta di sopra; il che è stato anche cagione in parte di ridurlami a  memoria, perché è isolata et ha similmente due tavole, una già tocca di sopra  nella parte dinanzi, et una della istoria di S. Giorgio di dietro, messe in  mezzo da quadri con certi Santi, e sotto in quadretti minori l'istorie loro che  di quanto è sotto l'altare in una bellissima tomba i corpi loro con altre  reliquie principali della città. Nel mezzo viene un tabernacolo assai bene  accomodato per il Sacramento, perché corrisponde a l'uno e l'altro altare,  abellito di istorie del Vecchio e Nuovo Testamento, tutte approposito di quel  misterio, come in parte s'è ragionato altrove. Mi era anche scordato di dire che  l'anno innanzi, quando andai la prima volta a baciargli i piedi, feci la via di  Perugia, per mettere a suo luogo tre gran tavole fatte ai monaci neri di San  Piero in quella città, per un loro refettorio. In una cioè quella del mezzo sono  le nozze di Cana Galilea, nelle quali Cristo fece il miracolo di convertire  l'acqua in vino. Nella seconda da man destra è Eliseo profeta, che fa diventar  dolce con la farina l'amarissima olla, i cibi della quale guasti dalle  coloquinte i suoi Profeti non potevano mangiare; e nella terza è S. Benedetto,  al quale annunziando un converso, in tempo di grandissima carestia e quando a  punto mancava da vivere ai suoi monaci, che sono arrivati alcuni camelli carichi  di farina alla porta, e' vede che gl'Angeli di Dio gli conducevano  miracolosamente grandissima quantità di farina. Alla signora Gentilina, madre  del signor Chiappino e signor Paulo Vitelli, dipinsi in Fiorenza, e di lì le  mandai a Città di Castello, una gran tavola, in cui è la coronazione di Nostra  Donna, in alto un ballo d'Angeli, et a basso molte figure maggiori del vivo, la  qual tavola fu posta in San Francesco di detta città.   
Per la chiesa del Poggio a Caiano, villa del signor Duca, feci in una tavola  Cristo morto in grembo alla madre, San Cosimo e San Damiano che lo contemplano,  et un Angelo in aria, che piangendo mostra i misterii della Passione di esso  Nostro Salvatore. E nella chiesa del Carmine di Fiorenza fu posta, quasi ne'  medesimi giorni, una tavola di mia mano nella cappella di Matteo e Simon Botti,  miei amicissimi, nella quale è Cristo crucifisso, la Nostra Donna, San Giovanni  e la Madalena, che piangono. Dopo a Iacopo Capponi feci, per mandare in Francia,  due gran quadri: in uno è la Primavera e nell'altro l'Autunno, con figure grandi  e nuove invenzioni; et in un altro quadro maggiore un Cristo morto sostenuto da  due Angeli e Dio Padre in alto. Alle monache di Santa Maria Novella d'Arezzo  mandai, pur di que' giorni, o poco avanti, una tavola, dentro la quale è la  Vergine annunziata dall'Angelo, e dagli lati due Santi; et alle monache di Luco  di Mugello, dell'Ordine di Camaldoli, un'altra tavola, che è nel loro coro di  dentro, dove è Cristo crucifisso, la Nostra Donna, San Giovanni e Maria  Madalena.   
A Luca Torrigiani molto mio amorevolissimo e domestico, il quale desiderando,  fra molte cose che ha dell'arte nostra, avere una pittura di mia mano propria,  per tenerla appresso di sé, gli feci in un gran quadro Venere ignuda, con le tre  Grazie attorno, che una gli acconcia il capo, l'altra gli tiene lo specchio e  l'altra versa acqua in un vaso per lavarla; la qual pittura m'ingegnai condurla  col maggiore studio e diligenza che io potei, sì per contentare non meno l'animo  mio, che quello di sì caro e dolce amico. Feci ancora a Antonio de' Nobili  generale depositario di sua eccellenza e molto mio affezionato, oltre a un suo  ritratto, sforzato contro alla natura mia di farne, una testa di Gesù Cristo,  cavata dalle parole che Lentulo scrive della effigie sua, che l'una e l'altra fu  fatta con diligenzia; e parimente un'altra alquanto maggiore, ma simile alla  detta al signor Mondragone, primo oggi appresso a don Francesco de' Medici  principe di Fiorenza e Siena, quale donai a sua signoria per esser egli molto  affezionato alle virtù e nostre arti, a cagione che e' possa ricordarsi quando  la vede che io lo amo e gli sono amico.   
Ho ancora fra mano che spero finirlo presto un gran quadro cosa  capricciosissima che deve servire per il signore Antonio Montalvo signore della  Sassetta, degnamente primo cameriere e più intrinseco al Duca nostro e tanto a  me amicissimo e dolce domestico amico per non dir superiore, che se la mano mi  servirà alla voglia ch'io tengo di lasciargli di mia mano un pegno della  affezione che io le porto, si conoscerà quanto io lo onori et abbia caro che la  memoria di sì onorato e fedel signore amato da me, viva ne' posteri, poiché egli  volentieri si affatica e favorisce tutti e' begli ingegni di questo mestiero o  che si dilettino del disegno.   
Al signor principe don Francesco ho fatto ultimamente due quadri, che ha  mandati a Tolledo in Ispagna a una sorella della signora duchessa Leonora sua  madre, e per sé un quadretto piccolo a uso di minio, con quaranta figure fra  grandi e piccole, secondo una sua bellissima invenzione. A Filippo Salviati ho finita, non ha molto, una tavola  che va a Prato nelle suore di San Vincenzio, dove in alto è la Nostra Donna  coronata, come allora giunta in cielo, et a basso gl'Apostoli intorno al  sepolcro. Ai monaci neri della Badia di Fiorenza dipingo similmente una tavola,  che è vicina al fine, d'una Assunzione di Nostra Donna, e gl'Apostoli in figure  maggiori del vivo, con altre figure dalle bande, e storie et ornamenti intorno,  in nuovo modo accomodati. E perché il signor Duca, veramente in tutte le cose  eccellentissimo, si compiace non solo nell'edificazioni de' palazzi, città,  fortezze, porti, logge, piazze, giardini, fontane, villaggi, et altre cose  somiglianti, belle, magnifiche et utilissime, e comodo de' suoi popoli, ma anco  sommamente in far di nuovo e ridurre a miglior forma e più bellezza, come  catolico prencipe, i tempii e le sante chiese di Dio, a imitazione del gran re  Salamone, ultimamente ha fattomi levare il tramezzo della chiesa di Santa Maria  Novella, che gli toglieva tutta la sua bellezza, e fatto un nuovo coro e  ricchissimo dietro l'altare maggiore, per levar quello che occupava nel mezzo  gran parte di quella chiesa; il che fa parere quella una nuova chiesa  bellissima, come è veramente. E perché le cose, che non hanno fra loro ordine e  proporzione, non possono eziandio essere belle interamente, ha ordinato che  nelle navate minori si facciano, in guisa che corrispondano al mezzo degl'archi,  e fra colonna e colonna, ricchi ornamenti di pietre con nuova foggia, che  servino con i loro altari in mezzo per cappelle e sieno tutte d'una o due  maniere. E che poi nelle tavole che vanno dentro a' detti ornamenti, alte  braccia sette e larghe cinque, si facciano le pitture a volontà e piacimento de'  padroni di esse cappelle.   
In uno dunque di detti ornamenti di pietra, fatti con mio disegno, ho fatto  per monsignor reverendissimo Alessandro Strozzi vescovo di Volterra, mio vecchio  et amorevolissimo padrone, un Cristo crucifisso, secondo la visione di Santo  Anselmo, cioè con sette virtù, senza le quali non possiamo salire per sette  gradi a Gesù Cristo, et altre considerazioni fatte dal medesimo maestro Andrea  Pasquali, medico del signor Duca, ho fatto in uno di detti ornamenti la  Ressurrezione di Gesù Cristo in quel modo che Dio mi ha inspirato, per  compiacere esso maestro Andrea mio amicissimo. Il medesimo ha voluto che si  faccia questo gran Duca nella chiesa grandissima di Santa Croce di Firenze: cioè  che si lievi il tramezzo, si faccia il coro dietro l'altar maggiore, tirando  esso altare alquanto innanzi e ponendovi sopra un nuovo ricco tabernacolo per lo  Santissimo Sacramento, tutto ornato d'oro, di storie e di figure; et oltre ciò,  che nel medesimo modo che si è detto di Santa Maria Novella, vi si faccino  quattordici cappelle a canto al muro, con maggior spesa et ornamento che le su  dette, per essere questa chiesa molto maggiore che quella. Nelle quali tavole,  accompagnando le due del Salviati e Bronzino, ha da essere tutti i principali  misterii del Salvatore dal principio della sua Passione insino a che manda lo  Spirito Santo sopra gl'Apostoli. La quale tavola della missione dello Spirito  Santo, avendo fatto il disegno delle cappelle et ornamenti di pietre, ho io fra  mano per Messer Agnolo Biffoli generale tesauriere di questi signori e mio  singolare amico. Ho finito non è molto due quadri grandi, che sono nel  magistrato de' nove conservadori a canto a San Piero Scheraggio, in uno è la  testa di Cristo e nell'altro una Madonna.   
Ma perché troppo sarei lungo a volere minutamente raccontare molte altre  pitture, disegni che non hanno numero, modelli e mascherate che ho fatto, e  perché questo è a bastanza e da vantaggio, non dirò di me altro, se non che per  grandi e d'importanza che sieno state le cose che ho messo sempre innanzi al  duca Cosimo, non ho mai potuto aggiugnere, non che superare la grandezza  dell'animo suo, come chiaramente vedrassi in una terza sagrestia, che vuol fare  a canto a San Lorenzo, grande e simile a quella che già vi fece Michelagnolo, ma  tutta di varii marmi mischi e musaico, per dentro chiudervi, in sepolcri  onoratissimi e degni della sua potenza e grandezza, l'ossa de' suoi morti  figliuoli, del padre, madre, della magnanima duchessa Leonora sua consorte e di  sé. Di che ho io già fatto un modello a suo gusto, e secondo che da lui mi è  stato ordinato, il quale mettendosi in opera farà questa essere un nuovo  mausoleo magnificentissimo e veramente reale.   
E fin qui basti aver parlato di me, condotto con tante fatiche nella età  d'anni cinquantacinque, e per vivere quanto piacerà a Dio con suo onore et in  servizio sempre delli amici e quanto le mie forze potranno in uno commodo et  augumento di queste nobilissime arti. 
FINE DELLA VITA DI G. V., PITTORE ET ARCHITETTO ARETINO   
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