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martedì 18 aprile 2017

BRUNI. Pierfranco Bruni. Antropologia e riti.


Pierfranco Bruni (Scritti vari)

"Settimana Santa, antropologia e riti della in un Mediterraneo identitario



Sabato Santo 2017 - Processione de "La Desolata" a Canosa di Puglia. 

(Foto di Alberto Pellegrini)


"I territori italiani durante le feste religiose assumono contorni e dimensioni abbastanza articolate nella ricchezza delle tradizioni. Il concetto di festa viene vissuto attraverso una “regola” di modelli. Insiste una religiosità popolare che non è mai pagana perché ha sempre contorni che rimandano alla tradizione cristiana.
C’è una ritualità che diventa espressione antropologica all’interno dei vissuti delle comunità. Soprattutto i Riti della Settimana di Pasqua costituiscono un intreccio tra culture dell’Oriente e i diversi aspetti di un Occidente sia Mediterraneo che nordico. Taranto e la Settima dei Riti della Pasqua è prettamente una espressione di identità mediterranea con dei rimandi alla Spagna ma anche a tutto il mondo sardo – catalano. Così la cultura sarda che è caratterizzata da forme perfettamente etniche.
Il mondo pagano diventa religiosità popolare. Un appuntamento di primaria importanza attraverso il quale si intrecciano tradizione popolare ed espressione cristiana. Religiosità antropologica e carisma cristiano. La religiosità popolare trova una delle sue espressioni più altre in forma etno – antropologica nella Settima di Pasqua e nei Riti Santi. Si pensi a quelle comunità in cui i riti e la liturgia si svolgono ancora secondo i canoni bizantini. Una ricchezza straordinaria sono le chiese con le icone, gli altari e i canti e la processione del Venerdì Santo.
La Settimana Santa si legge nella interpretazione di un vero e proprio modello culturale, ovvero è un patrimonio culturale tout court. In Calabria a Nocera Tirinese il mondo pagano ancora insiste con modalità molto accentuate soprattutto nel caso dei “Vattienti”. Ci si batte con delle tavole chiodata. Un rito pagano che chiama in causa il senso del perdono.
Una tradizione all’interno della cultura italiana che non va persa”.D’altronde gli elementi che riguardano i riti, le liturgie, le tradizioni della Settima Santa sono momenti di studio di una ricerca più complessa, che si inserisce nella ricerca di promozione alla conoscenza delle culture sommerse che sono presenti sul territorio italiano.
La Pasqua come coscienza Rivelante. Riti, tradizioni e settima Santa a Taranto hanno sempre assunto un dimensione particolare. C’è una differenza di fondo tra la Settimana Santa e la Settimana dei Riti. Una differenza proprio sul merito antropologico e sull’umanesimo della religiosità cristiana.
La Settimana Santa è dentro il vissuto di una nostalgia di Cristo nella comunità ed è il dato prioritario. Si riporta nello sguardo della comunità il volto della santità cristiana ed è una riflessione di fondo che si distacca completamente dal rito che si intreccia in un vocabolario che è quello mitico, archetipico, simbolico.




Sabato Santo 2017 - Processione de "La Desolata" a Canosa di Puglia. 

(Foto di Alberto Pellegrini)

La Chiesa si spiega anche attraverso i simboli. Certamente sì. Ma la distinzione è fondamentale. Io credo che è giusto vivere i due momenti separati ma articolati in un humus umanizzante. Ma la Chiesa ha la sua storia che è dentro la sacralità dell’Evento. Ogni festa ha i suoi riti e le sue gare – aste. Si pensi alle culture primitive.
Si pensi ai racconti pavesiani e demartiniani. Ma il sacro non ha aste collegabili alla santità. Paolo parlava le lingue del mondo e in ogni agorà trovava il giusto scavo per comprendere le comunità nel segno di Cristo nella fede. Il sacro deve ritornare alla sacralità. Il profano che si lega al sacro è altra cosa. D’altronde è, tale rapporto, una componente fondamentale per tutte quelle etnie storiche, il cui valore emblematico è dato anche dai codici culturali.
Ancora una volta si ribadisce l’importanza della lingua. La sua funzione ha bisogno di ulteriori ancoraggi certi che sono, appunto, il rito e la tradizione. O meglio la difesa delle identità espresse dal rito e la tutela e valorizzazione di quelle tradizioni che garantiscono una continuità tra un processo storico vero e proprio è una affermazione di tali identità. Nella contemporaneità una etnia (o una comunità di minoranza etnico . linguistica) è viva se oltre alla lingua si tiene fede e si continuano a trasmettere dimensioni di tradizioni. Da questo punto di vista ogni occasione laica o religiosa è un riferimento importante e centrale per la salvaguardia di valori contenuti nelle tradizioni. La Settima Santa è una tradizione che si confronta e continua a rappresentarsi con esperienze eterogenee.
L’influenza delle tradizioni mediterranee trova una chiave di lettura significativa nel rispetto delle cesellature rituali e nelle funzioni delle festività (laiche o religiose). Il Mediterraneo trasmette una cultura che è quella del mare inteso in senso geografico e reale ma anche considerato come proposta metaforica nel senso che traccia itinerari di viaggio. Soprattutto queste tre realtà: Taranto, Brindisi Lecce e la Calabria sono culture della tradizione che provengono dall’attraversamento del mare al di là di una definizione prettamente cronologica. In Sicilia il rito interagisce con il mito. Come in Calabria. Sono Feste legate ad una antropologia del territorio in cui convivono antropologia e cristianità.
Ci sono rimandi e modelli originali e originari di primaria importanza. Il mondo di Siviglia nella civiltà religiosa pasquale tarantina diventa un dato di fatto in cui le antropologie interagiscono con una religiosità ufficiale. Si tratta, comunque, sempre di un bene immateriale che incontro due elemti importante: la storia e la letteratura. Il mondo Mediterraneo (Taranto e Siviglia in prima istanza costituiscono una chiave di lettura non solo antropologica ma anche ontologica) è una eredità neolitica che si intreccia a usi e costumi, riti e tradizione del Regno delle Due Sicilie. Taranto diventa bacino di accoglienza turistica, ma riesce a legare le diverse forme di tradizione all’interno di un processo sia storico sia metafisico sia antropologico. Un territorio che vive la partecipazione in azione. Un modello di coerenza nella tradizione mediterranea. Il Mediterraneo proprio nelle tradizioni diventa un crogiuolo di identità che sono esperienze di comunanze in cui l’antropologia diventa chiave di lettura fondamentale. Anche in quelle realtà territoriali in cui non è presenta la religiose cristiana si avverte la necessità di riproporre una precisa ritualità rispettando un confronto che è diventato storico. È, stato, comunque, sempre nel Regno di Napoli che i Riti sono diventati tradizione in un vissuto prettamente antropologico".


Nocera Terinese, Rito di sangue dei "vattienti".
(Foto di Saverio Corigliano‎)


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Se la letteratura ha la pazienza del silenzio
(di Pierfranco Bruni)

Il problema si pone tra il descrivere il dolore e il vivere il dolore. Leopardi si pone davanti a due temi centrali. La solitudine e il voler amare pensando che amando si possa sconfiggere la solitudine.

La vita è condizionamento. Sempre. Spesso mi chiedo perché ci sentiamo in un paese delle meraviglie quando siamo in un paese delle disperazioni. La differenza tra disperazione e tragico? La disperazione è Cesare Pavese che non comprende il tragico di Seneca. Il dolore e la nenia è Leopardi che si inventa una malinconia per diventare personaggio dentro le rimembranze e offre alla filosofia una morale che non può avere. La filosofia non è morale e non ha morale. La filosofia è la follia del tragico che cerca di annullare la disperazione viaggiando dove abita Tiresia.
Condizionamenti! Alvaro non amava Leopardi. Papini aveva capito che la filosofia delle “Operette morali” diventava un gioco di leggerezza. Gli Illuministi hanno sempre vissuto la leggerezza del nulla non indossando mai maschere, ma diventando dei doppi. Le ambiguità sono vitali in un tempo di incoerenza. La maschera è la recita dei centomila che diventano memorie sommerse.
Enea legge ciò che sarà. Non ciò che è stato, come Ulisse. Ma viene dall’Oriente. Enea è Oriente e Ulisse Occidente. È l'Oriente che inventa Roma paganamente cristiana. Cristo è la Profezia ma anche la Provvidenza. Aveva messo in conto la doppiezza dell’incolto Pietro. Già perché la Profezia è "magia" e la Provvidenza è il "sacro".
La letteratura o ruota intorno al campo indiano della filosofia o è comicità senza ironia. Viviamo di luoghi comuni. È stato sempre così. Leopardi non è morto di malinconia. Ma di noia. La sua noiosa litania non ha permesso di compiere il gesto estremo.
Nella mia vita sono ritornato spesso sulla figura di Alice. Non tanto su quella di Arianna. Alice non solo è una metafora delle allegorie che si trovano nella favole – fiabe.  Vive tra la morte di Pirandello e quella di Alvaro. Il paese delle meraviglie non è un reale che si manifesta. È un immaginario che si percepisce. Io percepisco il dialogo tra il fantasma della madre morte e Pirandello proprio nel momento in cui la confusione si fa nostalgia.
Mi invento un dialogo tra Alvaro e Cristina Campo pensando che Alice sia Cristina nel suo essere tigre. Entrambi sono scrittori che se ne fregano del reale e sanno che vivere è soltanto scrivere la memoria con la consapevolezza che anche questa è un assurdo dal momento che non si vive più. Alice è una farfalla che ha lo stupore nelle ali. Muore e rinasce.

Sfoglio pagine di un diario fatto di ritagli sparsi e leggo da un appunto di Alvarez de Castillo:

A voltar pagina mi trovo a guardar ne gli occhi Teresa che ha la passione ruggente di Cleopatra. Silvia intrappolata nella siepe è morta di nenie e oblio nel canto notturno di una impossibile malinconia. E Beatrice falsa e cortese si specchia senza vedersi nelle illusioni di un esiliato senza esilio. Mentre Laura ha navigato dolce e fresche acque nella nudità della sua incolta pudicizia.
Io innamorato resto di Fiammetta che mai negò il trastullo a dire il vero ad una passione che d'amor esplose. Non rimembrar troppo oh Leo che di contraddizioni il tuo parlar è degno e di viltà il tuo cammino è un regno. Al contrario di chi Jacopo si chiamò che mai disdegnò per amor un duello sino a morirci dentro.
Di storie siam fatti e di destini mascherati ma buona gente credete a ciò che percepite e mai a ciò che udite. Di donne e amori e guerre le Angeliche son vissute ma voi amatele senza mai farvi rapire il core.
E se scelte dovete pur fare di Silvie e Beatrici e gatte lesse non vi contornate cosi come dei loro cantori che per noia son maestri ma di Teresine e Fiammette fatene un inno perché la vita è già così grigia che di fuoco abbiam bisogno e di canti veri siam scarsi ma coraggiosi e imprudenti si muore contenti nella gloria della Veronica che Franco si chiamò.
Buona gente la maschera non vi fa onore e la vita sì se al piacere date il dono senza ceder agli imbrogli e alle apparenze. Ed ora danzate al canto della gioia tra i passi di Gabriella tutta profumo e cannella e gli inferni i paradisi e i purgatoti lasciateli ai Manzoni ai Monti e ai Montali e fatene un falò per un sorriso in più e una finzione in meno”.

Il problema si pone tra il descrivere il dolore e il vivere il dolore. Leopardi si pone davanti a due temi centrali. La solitudine e il voler amare pensando che amando si possa sconfiggere la solitudine.
Non riesce ad amare. Perché non sa cosa è il MISTERO della lacerazione degli amori e sempre vive chiedendo consolazioni. I suoi "poemi" non sono disperazione. Sono consolazione. Una forma maniacale.
Cioran non è dolore. È disperazione. Non cerca consolazione perché sa, come Sgalambro, di vivere la distruzione del tempo. Il tempo è disperazione. Non la solitudine. Anzi la solitudine è morire lentamente in libertà. Il disperato è l’inquieto in solitudine che si cerca per distruggersi.
Leopardi?
Ha scritto sei sette straordinarie poesie... pagine tentate sul piano filosofico come le Operette morali, appunto, e il resto diventa mitizzazione. Porto dentro di me l’Arcano.
La leggerezza del dolore di Leopardi è la decadenza di Cioran che si disegna  nella morte arcaica di Pavese. Cioran è la mia persecuzione dolce.
Leopardi nei confronti di Pavese è un tenero e ambiguo allievo.
Foscolo è il vero tragico che ci confronta con la morte e con la fine della morte in una illusione esasperante. Cioran è un gigante e usa il linguaggio della consapevolezza che tutto è disperazione. Leopardi ci racconta la banalità del sabato del villaggio.

Dio per Leopardi è un relativo. Per Cioran e Pavese è il senso del tragico con il quale vuoi o non vuoi bisogna convivere. Seneca dialoga con Cioran. Con Leopardi si diverte soltanto. Cammino con accanto Pavese e Cioran. La letteratura si fa con la morte e mai con la illusione di scendere e il salire le scale appoggiandosi ad una ringhiera.
Ho solo il disamore che mi cammina nelle parole che d'amore vibrano. Sono stanco per tutto ciò che non ho mai dato e stanco per un applauso che più non tocca la mia anima. Vienimi incontro.
Sono vivo ma considerami morto. Più morto di cosi ci sono solo i vivi che non sanno di essere vivi. Chi avrà il bisogno di sentirsi vivo mentre percepisce che è morto? Chi avrà la forza di sentirsi morto mentre sa di essere vivo? La letteratura è l’agonia di un sigillo.
La metafisica che ho cercato si è intrecciata nella mia barba che cresce come i padri del deserto che camminano con la pazienza della luna nel grido di una preghiera che sempre mancherà al canto notturno di Leopardi che ha nel suo pianto la logica. Vivo di ARCANO. Ho sfogliato ancora UNA VOLTA il vocabolario del mio tempo, viaggiato lungo la grammatica dei simboli per guardare negli occhi il tempo sommerso che ha la memoria delle favole. Intanto la mia barba bianca mi regala anni in più. Ed è giusto così. Misteriosamente ribelle porto dentro di me l’Arcano. La Ragione assurda del tempo che passa e il Mistero segreto del viaggio di memorie.
Se “La donzelletta vien dalla campagna/in sul calar del sole”, io a scender nel muto gorgo mi apparto per viver la parola come agonia del mio tempo.
La letteratura che farò stasera, domani, dopodomani?
Che domanda da imbecilli!
La letteratura ha la pazienza del silenzio.


Sabato Santo 2017 - Processione de "La Desolata" a Canosa di Puglia. 
(Foto di Alberto Pellegrini)


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A 190 anni dalla morte di Ugo Foscolo.
L’inattualità di un contemporaneo 
(di Pierfranco Bruni)

Ritratto di Ugo Foscolo (1813) di François-Xavier Fabre, Biblioteca Nazionale di Firenze.



A 190 dalla morte di Ugo Foscolo e l’inattualità del rivoluzionario che recupera la tradizione. Un percorso che resta fondamentale in una età della ragione che in Foscolo ritrova la malinconia e il tempo tragico. Foscolo è la tradizione post medievale ma è anche il rivoluzionario che annuncia il romantico sentire la vita con la metafisica dell’anima. Infatti non si può prescindere da una osservazione che si apre alla modernità della letteratura attraverso il disegno della tradizione e della memoria: “L'arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentare con novità”.
Ugo Foscolo. Il poeta che traccia il silenzio dei “Sepolcri” e la grecità di Zante nel canto sublime di un ulissismo dolorante. La rivoluzione e l’eresia. Un binomio che permette di leggere Ugo Foscolo tra il superamento della Ragione e la “rappresentazione” del rivoluzionario nella sua attualità. Ugo Foscolo. L’inquietudine dell’intellettuale moderno nell’eresia del rivoluzionario è un percorso fondamentale per comprende l’agonia di un’epoca e la solitudine di un uomo.
È uno dei temi centrali e  riguarda anche il ruolo che ha svolto Foscolo a cominciare dall’ode “A Luigi Pallavicina” e all’ode “Bonaparte liberatore” passando attraverso “Dell’origine e dell’ufficio della letteratura” sino a toccare i suoi saggi su Petrarca, su Boccaccio, su Dante.
Ma è l’impegno del Foscolo che emerge dalle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” che diventa il fulcro intorno al quale ruota la visione post illuminista e prettamente romantica e risorgimentale oltre che rivoluzionaria nell’eresia. Su questi aspetti bisogna attentamente riflettere attraverso elementi filosofici, grazie ai quali si cerca di sottolineare come il Foscolo vada oltre l’Illuminismo e segna l’inizio di quella decadenza post rinascimentale sino a toccare l’estetica e l’inquietudine dannunziana.
Infatti il legame tra Foscolo e D’Annunzio è uno dei perni fondamentali. Così il suo raccordarsi costantemente con Dante: “Che Dante non amasse l'Italia, chi vorrà dirlo? Anch'ei fu costretto, come qualunque altro l'ha mai veracemente amata, o mai l'amerà, a flagellarla a sangue, e mostrarle tutta la sua nudità, sì che ne senta vergogna”. Così il suo itinerario intorno a Petrarca.
Petrarca viene vissuto come il poeta della lingua che rinnova in una modernità profonda: “Benché il Petrarca siasi studiato di ricoprire d'un bel velo la figura di Amore, che greci e romani poeti ebbero vaghezza di rappresentar nudo; questo velo è sì trasparente, che lascia tuttavia scernere le stesse forme. La distinzione ideale tra i due Amori derivò primamente dalle differenti cerimonie con cui gli antichi prestavano culto alla Venere Celeste, che presedeva a' casti amori delle zittelle e delle maritate, ed alla Venere Terrestre, riconosciuta divinità tutelare delle galanterie delle donne più in voga a que' tempi”.
La figura e l’opera di Ugo Foscolo,  nato a Zante nel 1778  morto Turnham Green nel 1827 diventa il fulcro dell’inquieto decadentismo e dell’uomo completamente libero ed eretico che rompe gli schemi sia dell’Illuminismo che del Romanticismo e si intaglia nella modernità del cuore dell’uomo. Sull’inquieto della modernità si scava tra i testi di Foscolo ed emerge un Foscolo nostro contemporaneo, anticipatore della tragedia ‘nicciana’.
Un Ulisse in costante fuga e non in viaggio. Una fuga esistenziale, metafisica e geografica. Ugo Foscolo è, infatti,  un eretico rivoluzionario. Il dolore dell’inquietudine non è solo tra le sue pagine. È  soprattutto nel sua vita di costante Ulisse in fuga che intreccia il senso e della tragedia e la tragedia della storia. La storia è nella lingua dei popoli.
Foscolo, come ebbe a dire De Sanctis, annuncia Leopardi. Lo dichiara sia sul piano delle realtà semantiche sia su un versante di una lingua considerata come vera metafisica di un vocabolario in il concetto di parola scava nel dimensione dei linguaggi: “Nel dare principio alla serie de' discorsi intorno alla storia letteraria ed a' poeti d'Italia, giudico cosa necessaria, quantunque forse non dilettevole, di premettere l'opinione mia su l'origine della poesia fra gli uomini.T utti i ragionamenti su la poesia in generale, e quindi tutti i giudizj intorno alle qualità ed ai gradi di merito di ogni poeta di tutte le età, e gl'infiniti canoni e teorie degli antichi retori e de' moderni metafisici si sono sempre fondate su l'osservazione, «che l'uomo è animale essenzialmente imitatore, e l'origine della poesia manifestamente ed unicamente ritrovasi nella naturale tendenza che l'uomo ha di riprodurre ogni cosa per mezzo d'imitazioni.» Da questa osservazione, che realmente trovasi in Aristotile, sgorgò la conseguenza che gli fu attribuita, e commentata in mille volumi, «che la poesia non è che imitazione della natura, e che i poeti eccellenti sono soltanto quelli da' quali la natura è fedelmente imitata.»”.
Ciò porta il viaggio foscoliano verso una eredità che è fortemente dentro la visione della filosofia dei linguaggi. Odi e Sonetti sono il sublime. I Sepolcri sono la memoria e l’attraversamento del senso di morte che resta nel presente. Jacopo Ortis è il personaggio del tragico nella melanconia.
Eliot nei suoi “Quattro quartetti” recita: “Noi moriamo con quelli che muoiono:/ecco, essi partono e noi andiamo con loro./Noi nasciamo con i morti:/ecco, essi tornano e ci portano con loro”. In Eliot vive Foscolo oltre Dante e il viaggio nel regno delle “stelle”. Perché Eliot è tempo e morte, come nel righello paudiano del viaggio: “Pentimenti sul passato, noja del presente, e timor del futuro; ecco la vita. La sola morte, a cui è commesso il sacro cangiamento delle cose, promette pace”.
Qui Ortis è necessità ma anche virtù. In Eliot e Foscolo è centrale il concetto virgiliano: “Stat sua cuique dies”. Come si vive attraversando l’Ecclesiaste. Ma è Leopardi che non smette di spingere Foscolo verso Eliot e in Eliot non c’è il Dante dell’esilio ma della perdita dell’esilio in profumo di pellegrinaggio. Il Leopardi di “Due cose belle ha il mondo: amore e morte”, ovvero di “Consalvo”. Il Leopardi annunciato da Foscolo è qui: “È purtroppo destino ineluttabile che il tempo distrugga ogni cosa nel suo fluire perenne”.
La metafisica dell’illusione si legge nella metafisica della nostalgia. In Foscolo è il nostos una “malattia” dell’anima che sanguina nei versi dedicati al fretello e nel suo guardare lo sguardo di Teresa che non ha però gli occhi di Beatrice, mentre la morte “incespica” nel ricordare.
Il ricordare è il viatico più potente di ogni destino. Ricordare è destino. Dimenticare è destino. Foscolo sa che il ricordare è l’ontologia che allontana ogni finzione. Il tragico si fa più scavante nella memoria e la morte diventa il vissuto nella vita che si cioncede al presente. Siamo Sepolcri che non smettiamo di avere sguardi. Le parole non possono essere cedute alla voce, ma agli occhi.
Il mio Foscolo è il “vizio” che mi “trascina” a Pavese. Dove l’oltre è soltanto il “gorgo muto”. Come Pavese, Foscolo resta l’inattuale di un contemporaneo che aveva ben compreso la malattia della modernità.


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Alla Biblioteca nazionale una mostra dedicata a Capuana
(di Pierfranco Bruni)

In occasione del centenario della morte del romanziere a Cosenza, il 2 dicembre, sarà presentata l'esposizione bibliografico-documentaria dal titolo "I colori del vero"
COSENZA In occasione del centenario della morte di Luigi Capuana (1915-2015), la Biblioteca nazionale di Cosenza, il 2 dicembre, alle ore 11, presenta la mostra bibliografico-documentaria dal titolo "I colori del vero", seguita da una conferenza tenuta dal professor Pierfranco Bruni.
L'esposizione intende celebrare e far riscoprire l'attività poliedrica di Luigi Capuana (1839-1915): romanziere, novelliere, poeta, giornalista, critico letterario e teatrale, fotografo, ispettore scolastico, docente universitario, politico, attraverso monografie rare e di pregio, periodici retrospettivi e correnti, lettere manoscritte autografe.
Luigi Capuana è l'uomo che, ripercorrendo le vicende letterarie dell'ultimo Ottocento e dei primi del Novecento, è considerato l'ideologo del Verismo, seguace dei teorici del Naturalismo francese (Zola in particolare), ma aperto anche agli influssi di uno psicologismo alla Bourget, affermò la necessità di dar vita a un romanzo nuovo, concepito come documento umano e ritrasse, al pari degli altri veristi italiani, il mondo contadino e la realtà regionale, approfondendo lo studio psicologico dei personaggi e quello dei sentimenti, che si sforzò di descrivere con metodo impersonale, cioè senza "relazione con il pensiero individuale dell'autore".

Ma le valenze di un programma più vagheggiato che realizzato, appaiono nel suo romanzo più noto, il Marchese di Roccaverdina (1901), dove egli cercò di far convivere gli interessi realistici con la tendenza alla ricerca psicologica sottile, un po' morbosa e il gusto per il soprannaturale e il favoloso, di impronta scapigliata. E' di notevole rilevanza anche la sua produzione teatrale, comprendente, oltre l'adattamento di Giacinta, numerosi testi in dialetto, raccolti in cinque volumi del teatro dialettale siciliano (1911-1912).

La mostra, che durerà fino al 2 febbraio, è articolata in cinque sezioni: 1-Luigi Capuana tra lettere e carteggi autografi; 2-Luigi Capuana: fiabe, novelle e romanzi; 3-Studi e saggi critici di Luigi Capuana; 4-Luigi Capuana e i veristi nella letteratura e critica letteraria contemporanea; 5-Luigi Capuana nella stampa periodica retrospettiva e corrente. L'intento della mostra è portare alla conoscenza di un più vasto pubblico "questo sapere nascosto", risvegliando specialmente nei giovani e negli studenti un nobile antico sentimento: l'amore per il libro, testimone e protagonista dell'evolversi del pensiero e della storia, fonte insostituibile di cultura e di informazione della memoria e del sapere.

Nella società dell'immagine e delle tecniche informatiche sempre più sofisticate e immediate, il libro "resta lo strumento di un momento di sapienza e soprattutto il miglior portatore di scienza".