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lunedì 30 marzo 2020

2020. MILETO. ANTICA E MODERNA. MEMORIE. ANTICHE E MODERNE.


Rivista in formato E-Book
Rif.: 2281-1109-01 
ISSN 2281-1109
Prezzo: €9,99 (incluso 4 % I.V.A.) 
   
ARCHIVIO STORICO DELLA CALABRIA
Nuova serie

A cura di Giovanni Pititto



SEZIONE MILETO

Mileto Antica e Moderna. 
In tempi diversi a vario titolo molti si sono espressi.

Pubblichiamo memorie, a che sia questo 
un 
Luogo di Memoria 

MILETO VECCHIA



"Mileto Vecchia L’area di “Mileto Vecchia” è l’unico Parco Archeologico Medievale esistente in Calabria. 
La titolatura a Monsignor Antonio Maria De Lorenzo, vescovo della medesima diocesi, è legata alla particolare sensibilità che quest’ultimo ebbe nei confronti della città abbandonata. 
Ben noto per i suoi scritti di storia e di archeologia, Monsignor De Lorenzo, giunto a Mileto, ci ha lasciato una dettagliata cronaca, datata al 1889, in cui descrive puntualmente l’area archeologica e il suo stato d’essere a circa un secolo dal terremoto che ne decretò l’abbandono. 
Frequentata probabilmente in epoche pre-elleniche, Mileto venne edificata sulla dorsale di due colline di arenaria, circondata da profondi valloni e naturalmente difendibile. 
Già esistente in età bizantina, il castrum Militense venne scelto da Ruggero I come capitale della sua costituenda Contea normanna di Calabria. 
Cambiò così la propria fisionomia, diventando sede privilegiata del Gran Conte e zecca di stato, con la coniazione di una nuova moneta, ed abbellita da marmi pregiati provenienti dal sito della vicina Hipponion-Valentia. 
I poli principali della città furono tre: il palazzo di Ruggero, la Cattedrale di San Nicola e del Vescovato, non lontano dalla quale è ricordata una cappella o piccola chiesa dedicata a S. Martino di Tours dove Ruggero II è stato battezzato da s. Bruno di Colonia, e la collinetta di Monteverde, sulla quale tra il 1063 e il 1070 fu costruito la “regal Badie”, il monastero benedettino della SS. Trinità, con delle formule architettoniche del tutto innovative per il Sud. 
Negli anni successivi il tessuto urbano si ingrandì sensibilmente tanto che nei primi decenni del XIV secolo fu uno dei centri più popolosi della Regione, arricchendosi di costruzioni notevoli quali palazzi signorili, chiese, un ospedale e i conventi dei Cappuccini e dei Carmelitani. 
I terremoti del 1638 e del 1659 provocarono ingenti danni strutturali e pesanti sconvolgimenti geologici, pertanto, dopo la “funesta catastrofe” del 1783, gli abitanti si videro costretti ad abbandonare il sito e ricostruire la nuova Mileto più a monte, su una dorsale collinare ampia e pianeggiante dove si trova l’attuale e omonimo centro abitato. 
L’interesse antiquario e archeologico verso le rovine dell’antica città nacque fin da subito, grazie all’arrivo, nella nostra Regione, di numerosi viaggiatori europei, incuriositi dalla Capitale Normanna. 
Sebbene distrutta, Mileto conservava ancora antiche e pregevoli vestigia come il sarcofago romano riutilizzato come sepolcro di Ruggero, epigrafi latine, colonne e altri elementi marmorei. 
Nei decenni successivi, il sito abbandonato divenne cava per l’esportazione e la vendita di materiale da costruzione. 
Molti dei monumenti furono oggetto di spoliazione, mentre le opere scultoree e decorative più importanti, anche quelle di età classica, andarono disperse o trafugate. 
Si diffuse, così, la convinzione di un passato magnogreco e romano della città tanto che, nel 1916, anche l’allora Soprintendente Paolo Orsi si accinse a eseguire alcuni scavi presso le rovine dell’Abbazia con la speranza di rinvenire i resti della città classica. 
Ma fu solo dagli anni ’90 che il sito fu oggetto di moderne indagini archeologiche, presso le absidi della SS. Trinità e l’area del complesso episcopale, mentre si datano al 2015 le più recenti campagne di restauro architettonico delle strutture superstiti".
[Da: https://www.fondoambiente.it/luoghi/mileto-vecchia?ldc ]


2017. Filippo Ramondino - Francesco Galante (a cura di), Mileto. Studi storici. Miscellanea di ricerche, Adhoc editore,Vibo Valentia , 2017. Tabularium Mileten ; 18. ISBN 978-88-96087-86-2.

Indice del Volume: 

Prefazione, 9 

Parte I: 
Storia e Architettura…p. 19 
Brevi note sul manoscritto di U. M. Napolione, conservato nella Curia Vescovile di Mileto … p. 21 
Sull’individuazione della Cattedrale di Mileto fondata da Ruggero I nel 1081 … p. 33 
La cattedrale normanna di Mileto: Rilettura critica di un monumento scomparso … p. 41 
Una scultura romanica di Mileto vecchia … p. 55 
Cronologia, varianti e valori metrici della distrutta chiesa abbaziale della SS. Trinità di Mileto vecchia in Calabria … p. 67 
Brevi notizie storiche sulla SS. Trinità di Mileto … p. 101 
L’architettura del periodo normanno a Mileto … p. 109 
Note sull’antico convento benedettino femminile di Sant’Opolo in San Calogero … p. 131 
Una colonna con incisione bizantina proveniente dalla vecchia Mileto … p. 161 
Addenda allo studio della SS. Trinità di Mileto: La cupola e la c.d. «Scarpa della badia» … p. 193 
Per la storia della città di Mileto: dalle origini all’età di mezzo … p. 213 
Vicende dei sarcofagi miletesi … p. 247 
Contributi alla conoscenza della scultura trecentesca in Calabria … p. 267 
Osservazioni in merito ad alcuni problemi interpretativi concernenti le scomparse abbaziali benedettine di Mileto e di Sant’Eufemia, in Calabria (XI sec.) … p. 291 

Schede di approfondimento: 
L’abbazia-madre di Saint-Evroult-sur-Ouche …p. 38. 
Gli Scavi Archeologici nell’abbazia della SS. Trinità …p. 64.
I Capitelli del chiostro dell’abbazia di Mileto …p. 98 
Le Vetrate dell’Abbazia …p. 128 
Il Ricamo di Pirou …p. 158 
La Zecca di Mileto… p. 191 
Un Capitello bizantino …p. 211 
I Mosaici …p. 264 

Parte II: 
Ruggero I e Robert de Grandmesnil … p. 323 
Ruggero I d’Altavilla: breve profilo di un condottiero … p. 325 
Robert de Grandmesnil: un abate «architetto» operante in Calabria nel XI secolo … p. 361 

Parte III: 
Biografia …p. 431. 
F. R. Calzone (a cura di), Giuseppe Occhiato: lo storico, lo scrittore, l’artista … p. 433 

Bibliografia…p.13 
Ringraziamenti 

In copertina: Capitello a stampella con leoni alati addossati, sec. XI arte normanna. 
© 2016 adhoc edizioni s.n.c. -Vibo Valentia.

Nella foto: Filippo Rev. Ramondino e Francesco Galante, alla presentazione dell'opera a loro cura: "Giuseppe Occhiato. Mileto. Studi storici. Miscellanea di ricerche". Il volume include studi e pubblicazioni di Giuseppe Occhiato, con particolare riferimento a quelli scritti tra la metà degli anni '70 ed il 2003. L'opera si concluderà con un ulteriore volume; ad oggi in elaborazione. 
Rispettivamente da sinistra a destra: Francesco Galante, l'archeologa Mariangela Preta, Filippo Ramondino.

Mileto. Commemorazione di Giuseppe Occchiato.

Mileto. Parco Archeologico di Mileto Antica. Sito della Abbazia della Santissima Trinità. 
Mileto. Parco Archeologico di Mileto Antica. 
Mileto Moderna. Veduta della Cattedrale.




Mileto. Parco Archeologico di Mileto Antica. 


19 Febbraio 2020
"Mileto, si lavora per salvare il palazzo simbolo dell’antisismica dei Borboni. Va avanti l’interlocuzione tra il Comune, la Soprintendenza e i proprietari dell’ex palazzo vescovile, realizzato a fine ‘700 con tecniche all’avanguardia.
Di Giuseppe Currà -19 Febbraio 2020 11:01

L'ex palazzo vescovile di Mileto
È stata attuata la prima parte dell’ordinanza con cui il sindaco di Mileto Salvatore Fortunato Giordano ha intimato ai proprietari dell’ex palazzo vescovile di via Duomo di mettere in sicurezza il fabbricato «con misure di carattere previsionale a tutela della pubblica e provata incolumità, impedendone contemporaneamente l’accesso a chiunque».
Nell’occasione, è stata anche effettuata la ripulitura dell’area ricadente in piazza Naccari, mentre per quanto attiene la messa in sicurezza definitiva dell’intero edificio, tramite «la realizzazione delle opere necessarie ai fini della salvaguardia della pubblica e privata incolumità ed, a lavori eseguiti, all’emissione e trasmissione agli organi comunali competenti del collaudo statico del manufatto», contatti sarebbero in corso tra i proprietari e la Soprintendenza di settore per ovviare pure a questa esigenza.
A quel punto al Comune di Mileto rimarrà da fare la cosa forse più importante, lavorare per cercare di acquisire l’antico fabbricato e porre, quindi, le basi per l’ottenimento di un finanziamento pubblico che permetta di riportarlo all’antico splendore. L’ex palazzo vescovile, dichiarato mesi fa dal ministero per i Beni e le attività culturali e per il turismo di interesse architettonico e, dunque, sottoposto a vincolo, versa da anni in stato di totale abbandono. Una parte dell’edificio, a causa di una serie di eventi verificatisi nei vari decenni, è ormai crollato.
Rimane da preservarne il resto e da ricostruirne la parte mancante con interventi mirati, vista anche la valenza della tecnica costruttiva. Il fabbricato è stato oggetto nel 2013 di un test in laboratorio realizzato – in collaborazione con l’Unical di Cosenza – dall’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio nazionale delle Ricerche (Cnr-Ivalsa) di San Michele all’Adige, in provincia di Trento.
In quell’occasione, lo studio ha permesso di mettere in evidenza le eccellenti caratteristiche di resistenza agli eventi sismici dell’edificio, non a caso ritenuto figlio di quella prima sperimentazione antisismica di fine ‘700, di grande attualità ancora oggi. Furono quelli gli anni in cui la Calabria venne colpita da un tragico terremoto. All’indomani, i Borboni per la ricostruzione degli abitati utilizzarono una muratura di pietre e malta rinforzata da un’intelaiatura in legno di castagno. Oggi di quella tecnica rimangono solo pochi esempi. Uno di questi, appunto, è proprio l’ex palazzo vescovile di Mileto".
[Da: https://www.ilvibonese.it/societa/60301-mileto-lavora-salvare-palazzo-simbolo-antisismica-borboni/ ]


20 nov. 2019
Francesco RIDOLFI | 20 nov. 2019 15:17 | 
Mileto, nasce “Il Sipario”, nuovo progetto editoriale semestrale di Vincenzo Varone. 

MILETO (VV) – Una nuova realtà editoriale si affaccia sullo scenario miletese ed ancora una volta protagonista di questo percorso è il giornalista e già sindaco della città normanna, Vincenzo Varone.
Il Sipario, questa la nuova testata presentata negli scorsi giorni nella sala consiliare del comune a Palazzo dei Normanni alla presenza anche del prefetto di Vibo Valentia, Francesco Zito, e del sindaco Salvatore Fortunato Giordano, sarà un semestrale teso a raccontare il bello ma anche il brutto della Calabria.
Un urlo di libertà” attraverso il quale Varone, contornato da alcune tra le più note firme del giornalismo e della cultura vibonese, intende offrire «spunti di riflessione» ma anche «di dibattito da sviluppare» nella società e riguardanti «le tante contraddizioni di questa nostra terra incompiuta nei fatti e nella sostanza delle cose».
Uno strumento, Il Sipario, che vuole dare nuova voce alla comunità calabrese, una voce che sfugga alla frenesia del mondo informativo quotidiano per leggere e rileggere i fatti di Calabria con un occhio più riflessivo e distaccato in modo da offrire una interpretazione diversa e più ponderata della realtà che ci circonda. 
Il tutto tentando anche di smascherare i falsi miti che vogliono la Calabria come esclusiva terra di malaffare e svelando agli occhi del lettore la bellezza segreta di una terra flagellata da mali atavici e da ghettizzazioni moderne.
È qui, quindi, che vengono alla luce accanto ai truci fatti di cronaca le tradizioni popolari, la storia millenaria, la capacità di costruire (purtroppo spesso al di fuori dei confini calabresi) della gente di Calabria. 
In punta allo Stivale non c’è solo il male, che va raccontato per contribuire ad esorcizzarlo e sconfiggerlo, ma c’è anche un mondo stupefacente sul quale Varone e lo scrittore Mimmo Mazzeo, suo compagno di sempre in questi progetti, intendono alzare “Il Sipario”.
COPYRIGHT: Il Quotidiano del Sud © 



"Posted on agosto 2, 2019
Il mio viaggio alla scoperta delle tombe degli Altavilla compie una nuova tappa calabrese, giungendo a Mileto, in provincia di Vibo Valentia, che fu capitale della contea di Ruggero I d’Altavilla; qui il normanno, mantenendo sia il legame con la sua patria d’origine, sia per sottolineare la continuità della sua stirpe con quella dei principi della Langobardia Minor, fece costruire nei pressi del palatium di Roberto l’Abbazia di San Michele Arcangelo, poi ridedicata alla Santissima Trinità, in modo da affermare la sua parentale spirituale con l’ultima dimora del Guiscardo, per portare avanti il processo di latinizzazione della popolazione di origine greca.

Il primo Abate fu Guillaume Fitz Ingram, dal nome in figlio illeggittimo e, nel 1120, Papa Gregorio VII vi istituì la diocesi diventando la prima sede episcopale di rito latino di tutto il meridione d’Italia.Inizialmente dipendente dall’abbazia di Santa Maria di Sant’Eufemia, ne fu distaccata nel 1098 e dichiarata direttamente dipendente dalla Santa Sede, oltreché abbatia nullius diocesis con delle sue parrocchie dipendenti, con bolla di papa Urbano II.

Nel 1166, su richiesta dell’abate Mauro, la chiesa fu riconsacrata in quanto l’altare maggiore era stato profondamente danneggiato da un crollo. Nel 1200 si ebbero i primi scontri con il presule di Mileto che si sarebbero trascinati per tutta la storia dell’abbazia a causa soprattutto della qualità di nullius diocesis della SS. Trinità che la rendeva indipendente dal presule locale. Nello stesso anno si verificano anche i primi scontri con i monaci greci di San Nicodemo che, con l’appoggio del vescovo di Gerace, si ribellarono al dominio dell’abbazia melitense, a cui erano sottoposti da una donazione del 1091, riuscendo a rimanere indipendenti.

Papa Alessandro IV ne estese, nel 1260, la giurisdizione su varie persone, laici ed ecclesiastici, che erano andate ad abitare a Monteleone agli ordini di Matteo Marchafaba, secreto dell’imperatore Federico II.

Nel 1358 il re Ludovico e la regina Giovanna concessero all’abbazia il diritto di tenere una fiera nei cinque giorni precedenti e nei tre successivi la solennità della Santissima Trinità; è possibile che si tratti della riconferma di un privilegio già concesso dal conte Ruggero. Durante la fiera (che nel 1700 durava due settimane, una prima e una dopo la festa) si era esenti dalle gabelle ma i granettieri del monastero avevano il diritto di esigere una parte delle merci presenti.

Nel 1659 l’abbazia fu colpita dal primo dei sismi che doveva poi distruggerla completamente. Il terremoto provocò il crollo sia della chiesa che del monastero, i cui materiali e beni vennero poi saccheggiati. In questa occasione anche il vescovo pretese di utilizzare le pietre dell’abbazia per riparare la cattedrale ed anche per farne commercio.Nel 1660 la chiesa fu ricostruita ma senza l’antica maestosità, le sue dimensioni infatti si ridussero alla metà. Del monastero rimasero in piedi solo le muraglie ed alcuni muri maestri; appoggiata alla muraglia ovest fu costruita la nuova residenza vicariale.

Nel 1717, il 13 agosto, Clemente IX soppresse la nullius diocesis abbaziale con la bolla dismenbrationis Abbatiae, unendone i territori alla diocesi melitense; il Papa decretò che in cambio il vescovo doveva versare una pensione annua di 2400 scudi romani al Collegio greco. Nel 1762 iniziò a Napoli una causa per stabilire se l’abbazia fosse di regio patronato; in conseguenza di ciò, 14 anni dopo, il vescovo smise di pagare la pensione. Il terremoto del 1783 segnò la totale distruzione della SS. Trinità, di cui rimangono imponenti rovine;vi furono effettuati degli scavi tra il 1916 e il 1923 da Paolo Orsi, altri scavi sono stati effettuati nel 1995 e 1999.

Ma come era, in origine, questa abbazia? Senza troppe sorprese, somigliava assai a Sant’Eufemia, di ispirazione cluniacense, con un transetto sporgente e con tre navate e tre absidi affiancate la cui centrale corrispondeva alla cupola del coro. La chiesa era lunga circa 42 metri e larga 26, con colonne greche provenienti dal Tempio di Proserpina di Hipponion, la nostra Vibo Valentia. Il campanile, invece, in origine pare fosse costituito da una torre separata dal corpo della chiesa

Con i due terremoti seicenteschi, la chiesa venne radicalmente trasformata con una ricostruzione che comportò una riduzione degli spazi, con la nuova chiesa che occupava le sole navate, con l’abside quadrata che terminava all’altezza dell’arco santo dell’impianto romanico e i pilastri al posto delle colonne. All’indomani del terremoto del 1783 restava solo una parte del prospetto e il contrafforte seicentesco e le pareti perimetrali solo per un’altezza minima, mentre oggi dell’intero complesso svetta solitaria la ‘scarpa della badia’ a testimonianza del monumento medievale e delle sue trasformazioni in età moderna.

E come Sant’Eufemia, la sua omonima di Venosa, Monreale o la Cattedrale di Palermo, Santa Trinità fungeva da chiesa mausoleo: vi furono infatti sepolti Ruggero I, la sua seconda moglie Eremburga e Simone, successore designato del Gran Conte

Secondo le cronache di Alessandro di Telese, durante la sua infanzia Simone incorse in un curioso incidente con suo fratello Ruggero. Un episodio che alla luce dei successivi sviluppi storici appare quasi profetico:

Come tutti i bambini, [Simone e Ruggero] stavano facendo un gioco con le monete, il loro preferito, e finirono col venire alle mani. Durante la lotta, ciascuno supportato da un proprio gruppo di amici, il più giovane, Ruggero, risultò vincitore. Egli derise il fratello Simone dicendo:

Sarebbe decisamente meglio che toccasse a me l’onore di regnare trionfalmente dopo la morte di nostro padre, piuttosto che a te. In ogni caso, quando riuscirò a farlo ti nominerò vescovo o anche pontefice di Roma – il che sarà per te la migliore delle sistemazioni

Il sarcofago che custodì le spoglie di Ruggero I° e che oggi si conserva presso il Museo Archeologico di Napoli, dove i Borboni lo trasferirono nel 1846 è probabile provenisse da Roma o Ostia (come molti sarcofagi antichi poi riutilizzati in diverse città italiane), ma non è escluso che possa essere stato costruito in Campania. Anche nei pressi di Mileto vi erano ”giacimenti” archeologici, come quello della greca Hipponion, ma i materiali ivi rinvenuti al tempo di Ruggero (colonne, capitelli, sculture) si ritiene siano stati utilizzati soprattutto per abbellire l’Abbazia e la Cattedrale normanne di Mileto.

Il manufatto è in marmo bianco inciso con scanalature a forma di onde disposte in senso verticale. E’ lungo metri 2.40, largo cm. 92 ed alto metri 1.91, decorato su tre lati, mentre il quarto lato poggiava in origine al muro della navata destra della Chiesa abbaziale della SS. Trinità di Mileto. Sul pannello centrale compare scolpita una porta a due battenti, con il battente destro socchiuso a simboleggiare il passaggio del defunto nel mondo dei morti.

Alcun elementi decorativi, come la sella curule e le corone di alloro scolpite su entrambi i lati del sarcofago, fanno ritenere che esso possa essere appartenuto ad un magistrato. Presenta un coperchio a foggia di tetto di casa, con alle estremità due busti, oggi acefali, di un uomo e di una donna ( forse l’antico proprietario e sua moglie). Si suppone che in origine i lati del coperchio possano essere stati ornati dai volti di due Gorgoni con capelli serpentini ma che all’epoca di Ruggero questi siano stati sostituiti dal simbolo cristiano della croce greca.

Ora, dato che da una testimonianza di un viaggiatore seicentesco, sappiamo come il sarcofago fosse posto un distico in cui vi era scritto

Hanc sepulturam fecit Petrus Oderisius magister Romanus in memoriam Rogerii Comitis Calabriae et Siciliae. Hoc quicumque leges dic sit ei requies.

Tali modifiche furono attribuite al marmorario romano Pietro di Oderisio; il problema è che il buon Pietro, autore del monumento funebre di papa Clemente IV a Viterbo, socio di Arnolfo di Cambio, nell’esecuzione del Ciborio di San Paolo fuori le Mura e a Westminster dell’arca con le reliquie di Edoardo il Confessore che porta una iscrizione che ricorda un Petrus romanus civis e idell monumento funebre di Enrico III, è attivo tra il 1270 al 1300.

Per cui, il suo intervento deve essere di molto posteriore alla morte di Ruggero I, risalente al 1101. Il mistero potrebbe essere chiarito grazie a uno studio pubblicato nel 1983 dalla storica dell’arte Lucia Faedo, in cui si afferma che questo sarcofago, fosse stato inserito in una struttura monumentale più complessa affine a quella delle tombe reali del duomo di Palermo collocate sotto un baldacchino sorretto da colonne in porfido. Indizi di questa ricostruzione sarebbero ricavabili da un pezzo di architrave in porfido, oggi conservato in Calabria come gradino d’altare in una chiesa di Nicotera, dove sarebbe giunto già dopo il terremoto del 1659, quando marmi e altre pregevoli cose della Chiesa della Trinità finirono dispersi o venduti. L’architrave risulta decorato da tre maschere col volto umano del tutto simili a quelle scolpite sul baldacchino della tomba di Federico II a Palermo.

Autore di questo baldacchino fu probabilmente Pietro di Oderisio, a cui Carlo II commissiò a Mileto una replica delle tombe di Palermo, per ribadire sia i suoi diritti come re di Sicilia, usurpati dagli Aragonesi, sia il suo essere erede spirituale degli Altavilla.

Un baldacchino simile doveva coprire anche il sarcofago di Eremburga, decorato da una scena di Amazzonomachia, racconto di lotta tra le mitiche amazzoni e i Greci, questi ultimi generalmente guidati da Eracle o Teseo.La scena è inquadrata in alto da un listello con superficie non lisciata ed in basso da due listelli, al centro dei quali corre una ghirlanda di foglie d’alloro embricate (parzialmente sovrapposte).

Sino a qualche tempo fa, era stato datato all’ultimo quarto del II sec. d.C. e considerato di provenienza attica; tuttavia, negli ultimi anni, per una serie di peculiarità stilistiche e tecniche, si è diffuso il sospetto che l’opera sia invece una riproduzione, su modello antico, realizzata contestualmente al suo impiego. Gli artigiani, in sintesi, si sarebbero solo ispirati a modelli classici antichi per la fabbricazione e la decorazione del sarcofago destinato a accogliere le spoglie di Eremburga".

Questo articolo è stato pubblicato da alessio brugnoli [Da: https://ilcantooscuro.wordpress.com/2019/08/02/santissima-trinita-a-mileto/


14 Marzo 2018
"Mileto, l’allarme dell’architetto Gangemi: «Pochi giorni e l’ex Seminario andrà perso». Il settecentesco edificio da anni lasciato in un colpevole stato di abbandono e degrado. Per l’esperto il suo destino è già segnato: «Qualche altra copiosa pioggia e potremo dire addio allo storico palazzo» 
Di Stefano Mandarano -14 Marzo 2018 09:02


L'ex Seminario vescovile di Mileto

Nel silenzio “assordante” delle istituzioni preposte, si aggrava sempre di più lo stato di degrado del “Palazzo della vergona”. Il settecentesco ex Seminario vescovile, da decenni risulta colpevolmente e pericolosamente abbandonato a se stesso sulla via Duomo, rappresentando, suo malgrado, il poco edificante biglietto da visita per chi, a vario titolo, giunge nella cittadina normanna. Oggi, a lanciare l’ennesimo allarme è l’architetto Francesco Gangemi, tra l’altro nel 2001 progettista del Piano di recupero del centro storico. 
«Ancora pochi giorni – chiosa il dottore in ricerca e conservazione dei Beni architettonici e ambientali – e lo storico palazzo si potrà considerare perso, il “misfatto”, più o meno scientemente orchestrato, definitivamente compiuto. Basteranno pochi giorni di copiose piogge, infatti, per far sì che anche quel che resta dell’originale facciata, con tanto di prezioso portale al seguito, venga mestamente giù. Da oltre vent’anni viene denunciato lo stato di abbandono e le “stranezze” (fortuiti abbattimenti e incendi di dubbia origine) che a cadenza periodica coinvolgono la struttura. Nel frattempo, diversi sindaci e commissari prefettizi si sono succeduti alla guida del Comune e nulla è cambiato». 
Quindi aggiunge: «Questo nonostante i motivi per imporre al proprietario di mettere in sicurezza e preservare il bene architettonico ci siano tutti, non ultime le ordinanze dei Vigili del fuoco e il fatto che esso rappresenta un perenne stato di pericolo per chi attraversa la zona, visto che ricade nei pressi della Villa comunale e della Scuola media e nell’area in cui si svolge il partecipato mercato settimanale. Spiace constatare che dove non sono riusciti i grandi terremoti e il lento scorrere del tempo, sta purtroppo facendo centro la colpevole negligenza dell’uomo». Il crollo definitivo del Palazzo rappresenterebbe anche una grave perdita per la comunità scientifica internazionale, che da tempo ne studia le tecniche costruttive e le attività propedeutiche agli interventi di recupero, restauro e riqualificazione. 
Nel 2013, in particolare, un test in laboratorio realizzato dall’Unical e dall’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio nazionale delle Ricerche (Cnr-Ivalsa) di San Michele all’Adige, in provincia di Trento, ne ha messo in evidenza le eccellenti caratteristiche di resistenza agli eventi sismici. Esso, nello specifico, è ritenuto figlio di quella prima sperimentazione antisismica di fine 700, di sconvolgente modernità e qualità ancora oggi. In qualsiasi altro luogo tutto ciò basterebbe e avanzerebbe a scongiurarne l’annunciata “morte”. A Mileto evidentemente no".  
[Da: https://www.ilvibonese.it/cronaca/9939-mileto-allarme-architetto-gangemi-ex-seminario-rischio-crollo/ ]


28 Ottobre 2017
Mileto: il San Nicola di Bari della cattedrale oggetto di studio della storica tedesca Regine Schallert
La collaboratrice scientifica della Bibliotheca Hertziana di Roma è stata nella cittadina normanna per scrutare i segreti della scultura marmorea di scuola michelangiolesca, commissionata nel 1500 dal vescovo De Rusticis

Di Giuseppe Baglivo -28 Ottobre 2017 16:58
Continua ad essere oggetto di studio l’imponente scultura marmorea di San Nicola di Bari, allocata nell’abside laterale destro della chiesa cattedrale di Mileto. Nelle scorse settimane, proprio per mettere il prezioso manufatto sotto la lente d’ingrandimento e cercare di svelarne segreti e peculiarità, nella cittadina normanna è giunta la collaboratrice scientifica della Bibliotheca Hertziana di Roma Regine Schallert. Una due giorni intensa, necessaria alla storica tedesca per acquisire sul campo elementi utili a confermare o a smentire alcune interessanti ipotesi di studio.
Di scuola michelangiolesca, dal 1549 il bellissimo San Nicola assiso in trono abbellisce le varie cattedrali che si sono succedute, prima nell’antico sito normanno e poi nell’attuale città. Il monumento marmoreo fu commissionato a Roma dall’allora vescovo di Mileto Quinzio de Rusticis, per poi vivere sulla propria pelle i tragici eventi sismici succedutisi in Calabria, venendo infine danneggiata dal terremoto che nel 1783 distrusse gran parte della regione. Abbandonato tra le macerie della distrutta cattedrale normanna, lì rimase anche dopo il trasferimento della città nel nuovo sito, posto a due chilometri di distanza dal precedente. Nel 1812, durante il decennio di dominazione francese, ancora lì lo trovò il colonnello Nicola Filiberto Desvernois, eroe delle campagne napoleoniche del 1796 in Italia e del 1799 in Egitto, il quale ad un certo punto optò per il trasferimento del San Nicola nel nuovo abitato, con lo scopo di adornare la piazza della cattedrale.
Caricata su un resistente carro buoi appositamente costruito e adagiata su uno strato di fieno, il 5 dicembre la scultura marmorea iniziò il suo viaggio in compagnia di trecento cacciatori a cavallo e dell’intera popolazione, tra il suono delle campane e il rumore dei petardi. Solo in un secondo momento, ricollocata la testa con la sua mitria dorata e restaurata ad un piede e ad una mano, essa fu sistemata all’interno della chiesa madre della diocesi.

NOTA DI GP: 
La d.ssa Regine SCHALLERT fa parte della Bibliotheca Hertziana –Max-Planck-Institut für Kunstgeschichte, Roma.


28 Settembre 2017
"Mileto, crolla un’altra parte dell’ex Seminario vescovile. Abbandonato in stato di degrado e vittima in questi decenni di numerose calamità “naturali”, il fabbricato rappresenta una delle poche testimonianze delle tecniche antisismiche di fine ‘700. 
Di Stefano Mandarano -28 Settembre 2017 14:40

L'ex seminario di Mileto
Nonostante le denunce e le dure prese di posizione, continua imperterrito il “silente” processo di demolizione dell’ex Seminario vescovile ubicato alle spalle della villa comunale di Mileto. Risale alle scorse ore, infatti, l’ultimo crollo di parte della facciata dello storico edificio.
Un declino ampiamente annunciato, che fa il paio con i tanti colpi “fortuiti” che gli sono stati inferti (incendi e abbattimenti di settori) e con il cedimento registratosi sulla stessa ala nel 2016. Nel frattempo, il Comune qualche mese fa aveva cercato di ovviare ai ritardi intimando al proprietario di puntellare e mettere in sicurezza la struttura. Come ovvio, del tutto inutilmente. Del resto, Mileto è una città “benevola” da questo punto di vista, tale da permettere di lasciare per decenni in stato di colpevole degrado un plesso architettonico di grande interesse storico, nonostante il tutto contribuisca a deturpare in modo ignobile il centro storico e renda di fatto off limits l’accesso a piazza Naccari, rappresenti un pericolo costante per l’incolumità fisica di tutti coloro che giornalmente attraversano la trafficata via Duomo. Dove non sono riusciti i grandi terremoti e il lento scorrere del tempo, dunque, sta facendo centro la negligenza dell’uomo.
Eppure, l’importanza storico-artistica del palazzo è acclarata.
Tempo fa, su di esso è stata addirittura siglata una convenzione tra il Dipartimento di architettura dell’Università degli studi Roma Tre e il Comune di Mileto, al fine di studiarne le tecniche costruttive e le attività propedeutiche agli interventi di recupero, restauro e riqualificazione. Nel 2013, infatti, un test in laboratorio realizzato dall’Unical della Calabria e dall’Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio nazionale delle Ricerche (Cnr-Ivalsa) di San Michele all’Adige, in provincia di Trento, ne aveva messo in evidenza le eccellenti caratteristiche di resistenza agli eventi sismici.
L’ex Seminario vescovile, nello specifico, è ritenuto figlio di quella prima sperimentazione antisismica di fine ‘700, di sconvolgente modernità e qualità ancora oggi. Una delle poche testimonianze di quel “modus costruendi”, che a breve, nel silenzio assordante delle istituzioni preposte, molto probabilmente non potrà più essere tale".
[Da: https://www.ilvibonese.it/cronaca/7876-mileto-crolla-parte-seminario-vescovile/ ]



15 settembre 2007
Lettera aperta di Giuseppe Calzone,  su “Il  Quotidiano della Calabria” (15 settembre 2007), al vescovo della Diocesi di Mileto, Nicotera e Tropea, Mons. Luigi Renzo. 

Eccellenza rev.ma Mons. Renzo,
l’appello di numerosi cittadini di Mileto preoccupati delle dichiarazioni rese dal Sindaco di Vibo Valentia dott. Sammarco in occasione della Sua Visita pastorale alla città di Vibo Valentia, mi spingono a  rappresentarLe - non senza confidare nel suo sereno e amorevole sguardo verso nostra cittadina che accoglie da mille anni la sede vescovile appena assunta alle sue paterne cure - i nostri patemi per la ingiusta richiesta esternata dal rappresentante politico di Vibo Valentia di sottrarre il titolo della Cattedra episcopale alla diocesi di Mileto, Nicotera e Tropea.

E così questi cittadini miletesi, colpiti nel sentimento religioso prima che nell’attaccamento alla storia e alle tradizioni della nostra millenaria diocesi, hanno ritenuto di autoconvocarsi per la costituzione di un Comitato a difesa della Diocesi di Mileto, Nicotera e Tropea in una sede provvisoria sita in Mileto via Conte Ruggero n. 8 , per giovedì 20 settembre p.v. confidando che il Sindaco di Vibo Valentia possa, nel frattempo, recedere dai suoi intendimenti.

Pur preso da riverenziale timore, attese le sue riconosciute qualità culturali oltre che spirituali , nonché  i suoi meriti pastorali, e ben memore delle Sue dichiarazioni programmatiche pronunciate nella solennità della celebrazione eucaristica all’atto del Suo insediamento nel duomo di Mileto, nelle quali ha messo al primo posto l’attenzione per i” piccoli ed umili” di fronte ai “grandi e ai potenti”, mi vedo costretto a ricordare quali sono le ragioni che sconsigliano anche il solo mutamento del titolo della Diocesi  dalla denominazione attuale di Mileto, Nicotera e Tropea a quello, ipotizzato, di Diocesi di Vibo –Mileto.

La prima di queste ragioni risiede nella religiosità di questa comunità miletese, che quasi portatrice del DNA del cattolicesimo - ricordiamo che la nostra diocesi sostituì nel 1081 ad opera di Papa Gregorio VII quella di rito greco-ortodosso di Bivona (anche geograficamente diversa dall’odierna Vibo Valentia ) – si esprime nell’attaccamento alla Chiesa e al proprio Vescovo e si sostanzia nella costante e corale partecipazione della gente alle celebrazioni eucaristiche dei ministri di Dio nelle chiese di Mileto e delle sue frazioni. 

Questa religiosità vede Mileto e soprattutto  Paravati al centro di un culto mariano ( Associazione Cuore immacolato di Maria, Rifugio delle anime) che spinge qui folle enormi di fedeli, con la loro intangibile fede. 
Cosa si potrà dire  a questi pellegrini - che da ogni parte del mondo accorrono,   a volte con un pressante fardello di sofferenza personale - per motivare lo scippo della dignità episcopale al luogo pio ove essi accorrono per pregare? 
E questo sol perché il Sindaco del Capoluogo, che meglio farebbe a rimboccarsi le maniche, come sua Eccellenza  ha suggerito, per alleviare i disagi della sua popolazione colpita - aggiungiamo noi - dai disastri naturali e da quelli umani di una cattiva amministrazione? 

E ancora, si possono mortificare le comunità cattoliche consorelle di Tropea e di Nicotera che con Mileto condividono il titolo della cattedra episcopale? 
Queste comunità rappresentano per la loro storia, la loro cultura le loro bellezze monumentali, paesaggistiche, e naturali  una realtà che non può essere mortificata a cuor leggero .

Ma, nella certezza che questo disegno di rapina - pur ammantato di frasi di formale disponibilità al dialogo da parte del Sindaco di Vibo -  non passi, ci sostiene quanto Sua eccellenza ha detto e cioè che: “quello che riguarda la geografia delle diocesi non dipende da noi e mille anni sono passati da quando è nata la diocesi normanna di Mileto” (prima diocesi di rito latino dell’intero mezzogiorno d’Italia la cui istituzione è stata richiesta a Papa Gregorio VII dal Gran Conte Ruggero, fondatore del Regno normanno - 1059 d.C.) .

E a tal proposito auspichiamo che i saggi padri romani nell’esame della geografia delle diocesi , ispirati dal Santo Padre Benedetto XVI - considerata la presenza benedettina nell’antica Mileto come elemento determinante nella rilatinizzazione del Sud- vogliano allontanare dalla Diocesi di Mileto il pericolo di usurpazione ;furono i benedettini appunto, che dall’abbazia della SS. Trinità di Mileto (1063 d.C.) irradiarono il culto latino fin nella Sicilia tolta agli arabi dal Gran Conte Ruggero  nel 1091.  

Se poi venissero addotte ragioni di migliore accessibilità di Vibo Capoluogo a motivo dell’accentramento delle istituzioni religiose, anche a questo potrebbe rispondersi con il dire che Mileto è servita da svincolo dell’autostrada A3, da stazione  delle FS, dista da Vibo Valentia solo 10 Km e che ormai si è creata un’area urbana che unisce senza soluzione di continuità i comuni di Vibo,Ionadi e Mileto  sull’asse della strada statale 18 . Né a Mileto mancano , che anzi è ricca di strutture edilizie restaurate con impiego di notevoli risorse , le sedi prestigiose ove possono svolgersi non solo le attività di culto ma anche quelle amministrative , culturali e pastorali. Ed anche importanti attività istituzionali ,economiche,commerciali, civili e militari (Nucleo industriale, G.O.C. Gruppo operativo Calabria dei CC ,centri commerciali,  Uffici regionali, mercati ortofrutticoli generali ,ecc. si sono decentrati verso Mileto in località ex campo di aviazione) ;
Da ultimo occorre fare una breve considerazione:  il Sindaco di Vibo Valentia sbandiera come elemento di forza  il prestigio proprio del Capoluogo che dovrebbe attrarre a sè il Titolo della cattedra episcopale e con ciò Vibo cumulerebbe al suo ruolo direzionale politico anche quello religioso :
In proposito ricorriamo alle parole sagge dello storico latino, Tacito, che dice: “Ciò che è  antico è stato nuovo” ( Omnia quae nunc vetustissima creduntur, nova fuere .. “.  Mileto è stata l’unica Città della Calabria che in epoca normanna riunì  le genti calabre e siciliane come capitale della contea in un unica realtà garantendo la convivenza pacifica di popoli diversi per cultura, per storia, e religione; anche per questo Mileto è il “simbolo” della pacifica convivenza tra le genti e le religioni, in un’epoca in cui  la folle interpretazione del proprio credo spinge taluni  a far scorrere il sangue di innocenti.
Questa intuizione fu fatta propria da Ruggero I il normanno , sanguinario in battaglia ma che seppe riprogrammarsi per garantire la convivenza pacifica dei suoi sudditi.
E per dirla con le parole del prof. Salvatore Tramontana :” Ciò emerge chiaramente a Mileto, dove col potenziamento del Castrum e con la costruzione della Cattedrale, il giovane d’Altavilla concretizzava … “la compresenza dei due distretti amministrativi , quello comitale e quello vescovile” (Fonseca) . Concretizzava cioè un impianto urbanistico e di potere che riconduceva al dialogo fra normanni,Chiesa e componenti etniche. Un dialogo che teneva magari presenti i sentimenti religiosi e le professioni di fede,ma che aveva, come principale punto di riferimento, specifiche normative istituzionali capaci di condizionare,sul piano materiale,psicologico e culturale, il modo di essere e di pensare delle popolazioni.Normative in grado di ricompattare la collettività non solo in rapporto al territorio, ma anche in relazione a norme ben definite che, nel fissare una identità, precisavano diritti e doveri comuni. A Mileto, appunto, Ruggero I non ha avuto paura di cambiare se stesso perché, nella città  che gli era stata concessa dal fratello e che recuperava la sede vescovile di Vibona,istituiva un centro di potere e di circolazione di uomini , merci e idee in grado di modificare un’identità e di riprogettarla in rapporto alla Chiesa di Roma e alle componenti bizantine e islamiche. E forse per questo, scrive il cronista Ibn Haldun, Ruggero “ aveva posto la sua sede nella città di Mileto, dirimpetto all’isola di Sicilia” (S. Tramontana, I normanni in Calabria: La conquista , l’insediamento gli strappi .. in I normanni in Finibus calabriae a cura di F.sco Cuteri,  Rubbettino Ed.           ) .
Sperando nella benevola accoglienza di questo lacunoso scritto, nell’augurarLe un Episcopato splendido ed operoso, secondo le Sue e le nostre migliori aspettative, Le chiedo a, nome del costituendo “Comitato in difesa della Diocesi di Mileto,Nicotera e Tropea – Anno 2007 “ di essere ricevuti da S.E. per quanto sopra illustrato. 
Con i più deferenti ossequi.                                                                   
Giuseppe Calzone 
Via ............ 
89852  Mileto (VV)


Strada Provinciale Mileto-Dinami

(15 ottobre 2012)
(di Giuseppe Calzone)
Ieri, percorrendo la strada provinciale in questione ho avuto l'amara sorpresa di constatare che la situazione è di molto peggiorata rispetto al 17 ott. 1998 quando ho scritto l'articolo. 
Vi è ordinanza di formale chiusura della strada del febbraio del 1999.
Ho visto che la strada è impercorribile, dissestata, piena di voragini e smottamenti e il nuovo cavalcavia dell'A3 verso Dinami (quello vecchio è stato demolito) non è ancora completato. 
Per voce comune si dubita la Provincia di Vibo Valentia possa fare qualcosa per sistemare la strada. 
Idem dicansi del Comune di Mileto.
Rispetto all'articolo dovrei aggiungere che Vittorio Naccari all'epoca protestò con me, perché a suo dire non era stato il vescovo ad ideare e ad avere il merito della strada Mileto Dinami. 
Tutto secondo lui era partito dal fatto che un medico, inviato da Roma dal Ministero della Sanità per ispezionare su un grave caso di scorbuto verificatosi a Dinami, era stato costretto a raggiungere il paese a dorso di mulo, acompagnato dal Sindaco di Mileto: Carmine Naccari. 
Da qui si avviò un percorso per sostenere l'opera a livello romano e successivamente intervenne anche il vescovo per agevolare la realizzazione della strada. 


PROVINCIALE MILETO-DINAMI
La nascita travagliata della strada provinciale
Oggi la strada è in dissesto
(di Giuseppe Calzone)
Di recente a causa del traffico che attanaglia la strada statale 18, specie sul campo di aviazione, si è parlato della strada provinciale Mileto-Dinami che, con i necessari interventi di ammodernamento, potrebbe diventare un utile “by pass” per raggiungere l’autostrada A3 evitando di attraversare Vibo in direzione dello svincolo di S. Onofrio. 
Questo intervento sarebbe utile per tutti i comuni del versante sud, sud-est del Poro che potrebbero facilmente collegarsi alla viabilità nazionale senza perdite di tempo. 
La strada provinciale Mileto - Dinami, la cui costruzione ebbe inizio nel 1952 e si concluse due o tre anni dopo, è scarsamente utilizzata da parecchio tempo a causa di alcuni franamenti. 
Il tracciato per raggiungere l’A3 dalla statale 18 è lungo ben 9 chilometri ed è tortuoso, per questo motivo sono pochi gli automobilisti che la percorrono.
Questa strada provinciale fu fortemente voluta dal Vescovo dell’epoca Mons. Enrico Nicodemo, poi divenuto arcivescovo di Bari, che dovette superare molti ostacoli per vederla realizzare. 
La storia dell’opera viaria per alcuni versi non risulta molto edificante poiché alcuni episodi che la caratterizzarono furono espressione di una mentalità maneggiona. 
Tuttavia può essere utile ricordarla per capire quali interessi potevano condizionare un’opera di viabilità nella Calabria del dopoguerra. 
La costruzione della provinciale, venne prevista in una legge del 1882 ma solo nel 1927 si parlò dell’opera in quanto il finanziamento venne stornato per costruire la strada provinciale che dalla strada statale 18 porta a Nicotera marina. 
Per raggiungere quella località allora bisognava fare un percorso molto lungo passando per Mesiano e attraversando altri paesi del versante sud-est del monte Poro. 
Non risulta che i miletesi abbiano protestato per il dirottamento dei finanziamenti, forse perché non informati. 
Ma un’altra impennata la pratica la ebbe negli anni tra il 1950 ed il 1952. 
Era Vescovo di Mileto Mons. Enrico Nicodemo e il prelato prese a cuore la realizzazione della strada per collegare il centro della diocesi di Mileto a Dinami e ai comuni pedemontani dell’entroterra. 
Il Vescovo visto che l’opera non veniva realizzata raccomandò la costruzione della strada al Ministro della Cassa per il Mezzogiorno e poi, non volendo apparire l’unico interessato al problema, pensò di coinvolgere i Sindaci dei due Comuni.
Quindi diede incarico all’avvocato Carmelo Moricca, all’epoca consulente legale della Curia vescovile, di contattare il sindaco di Mileto, avv. Carmine Naccari, e il Commissario Prefettizio del Comune di Dinami ( l’ins. elementare, poi Direttore didattico, Francesco Crocente ). 
Questa delegazione guidata personalmente dal Vescovo, alla quale si unì il sig. Protopapa Cuccomarino, segretario della D.C. di Dinami, si recò dal Prefetto di Catanzaro per sostenere la realizzazione dell’opera. 
Il finanziamento giunse dopo circa 15 giorni e la gestione della strada venne affidata all’ Amministrazione provinciale di Catanzaro. 
Sennonché altri due personaggi, influenti per gli incarichi ricoperti, essendo interessati intervennero nella vicenda. 
Il primo di questi abitava a Dinami e ricopriva allora l’incarico di Ingegnere capo dei Consorzi raggruppati di Bonifica ed anche quello di Presidente dell’Ordine degli ingegneri di Catanzaro; egli fece predisporre un progetto in base al quale la strada provinciale aveva inizio a Dinami e giungeva a Francica dopo aver attraversato il fondo denominato “Capitano”, questo percorso era del tutto diverso rispetto a quello previsto dalla legge del 1882 la provinciale, infatti, diventava Dinami-Francica. 
Mentre il Presidente dello Stabilimento della Montecatini di Crotone, che abitava a Serrata, sostenne un progetto che passando nella vallata del fiume Marepotamo attraverso il fondo “ Cappellano” faceva giungere la strada nei pressi di Paravati. 
Queste diverse indicazioni rallentavano la realizzazione del progetto iniziale: pare che il Vescovo Nicodemo, venuto a conoscenza di queste manovre, si sia indignato, anche perché nel frattempo, in esecuzione del progetto dei Consorzi di Bonifica raggruppati, era stata realizzata la strada provinciale da Dinami al Marepotamo e questa, attraversato il fiume, si fermava davanti ad un fondo di proprietà dell’ingegnere. 
Ma il vescovo di Mileto non rimase solo nella sua indignazione poiché anche i Miletesi seppero del progetto e cominciarono a covare un vivo astio nei confronti del Presidente dei Consorzi di Bonifica il quale, pur avendo una figlia sposata a Mileto, per oltre due anni non andò a trovarla per evitare spiacevoli incontri. 
Successivamente l’ingegnere per sanare la frattura con il Vescovo e con i miletesi scrisse un articolo su un giornale catanzarese dove tendeva la mano agli avversari. 
Lodava le antiche origini di Mileto, sia come capitale del regno normanno, che come centro di una grande diocesi, quindi affermava che nella costruzione della strada era giusto tenere conto anche di quelli che definiva gli interessi di Dinami, che non erano in conflitto con quelli dei miletesi. 
A quel punto al Presidente dei Consorzi di Bonifica giunse un messaggio del vescovo: nessuna recriminazione veniva più avanzata sul fatto che la strada da Dinami al Marepotamo fosse stata costruita in difformità dal tracciato iniziale ( quel che era stato era stato! ) ma, da allora in poi bisognava impegnarsi per completare l’opera correttamente. 
L’ingegnere da parte sua faticò non poco per spiegare alla Prefettura e all’Amministrazione Provinciale di Catanzaro perché avesse costruito in quel determinato luogo il ponte sul Marepotamo. 
E a giustificazione portò anche la natura geologica del terreno sul quale aveva fatto costruire le campate del ponte. 
Da quanto si è appreso, però, la vicenda influì negativamente sulla carriera del professionista. 
Da parte sua il vescovo Mons. Nicodemo, nel 1952 prima di partire per Bari, pose la prima pietra vicino al Seminario vescovile, dove la strada ha tuttora inizio e, successivamente, i lavori di costruzione risanarono la contrada “ Zifò “ nella quale si riversavano i liquami del paese. 
Alla fine il resto della provinciale venne realizzato, ma il tracciato risultò diverso e più lungo di quello che era il percorso originario. 
Qualche anno dopo il Vescovo mons. Nicodemo, dovendo raggiungere Rosarno passò per Mileto e, compiaciuto, volle percorrere un tratto di quella strada provinciale che dalla statale 18 porta allo svincolo autostradale : la tenacia del Vescovo era riuscita a vincere sui maneggi e sui complotti.


TESTIMONIANZE BIZANTINE
Una colonna e la sua incisione
(di Giuseppe Calzone)
In un articolo pubblicato qualche anno fa su Bizantinion, rivista internazionale di studi bizantini stampata a Bruxelles, lo studioso Giuseppe Occhiato si soffermava su una colonna proveniente dalla Mileto Vecchia che reca incisa una croce bizantina con alcune lettere anch'esse greco-bizantine. La colonna è di marmo bianco con venature grigie; il fusto misura 273 cm. in lunghezza e le basi misurano rispettivamente cm. 41 e 45,5. La croce con l’iscrizione si trova a circa 1,80 cm. della sua lunghezza in un cerchio del diametro di 25 cm.
Per molto tempo la colonna fu trascurata dagli studiosi : il Capialbi la ignora; così pure Domenico Taccone Gallucci; il Pititto [Francesco] ne riporta in uno schizzo l'incisione che definisce "monogramma" ; C. Naccari parla di un monogramma indecifrabile.
L'Occhiato indagava il disegno misterioso per svelarne il significato, la funzione e la cronologia. Quindi con la consulenza di archeologi italiani e stranieri, esperti in epigrafi, giungeva alla conclusione che l'incisione sulla colonna aveva il significato di una implorazione : " Signore proteggi il tuo servo ".
Tra le ipotesi fatte quella più plausibile è che la colonna fosse posta all'ingresso della chiesa della Cattolica esistente a Mileto vecchia, ove si officiava il rito bizantino, e che ogni fedele entrando leggesse l'iscrizione aggiungendovi il proprio nome : "Signore proteggi il tuo servo... Tizio o Caio ".
La chiesa della Cattolica, come è dato osservare in una veduta del XVII secolo, aveva un piccolo portico davanti alla facciata, per cui la colonna in questione faceva parte di quel colonnato.
Per quanto riguarda la datazione l'archeologo Clive Foss, sia pure con prudenza, dalla forma delle lettere, somiglianti a quelle rinvenute su altre epigrafi, la colloca nel periodo normanno tra l'XI e il XII secolo. 
Ciò potrebbe significare che anche in epoca normanna, quando era iniziata la latinizzazione dei territori conquistati, si protraevano usi, riti, lingua, diritti e ordinamenti bizantini. 
Il reperto, pertanto è un pezzo raro, se non unico, per la conoscenza della bizantinità calabrese. Bizantinità che viene identificata quasi esclusivamente nella Cattolica di Stilo che finisce per assorbire ingiustamente tutta l'attenzione degli studiosi e non, a danno della conoscenza del restante patrimonio.
Tornando alla nostra colonna vi è da dire che essa, con la sua iscrizione, potrebbe far retrodatare di qualche secolo le conoscenze intorno a Mileto. 
Della città,infatti, abbiamo notizie solo in epoca normanna, quando nel 1059 essa diviene la dimora prediletta di Ruggero I il Normanno, poi Gran Conte di Calabria e di Sicilia. 
E' da supporre pertanto che, per essere prescelta dai Normanni, dovesse avere qualche secolo di vita e, quindi, fosse esistente già in piena età bizantina o, addirittura più indietro nel tempo, in età tardo-romana. 
L'Occhiato sembra accogliere la tesi del Carugno, il quale riconduce l'origine di Mileto all'età imperiale, quando il suo primo nucleo abitativo poteva essere costituito da un oppidulum romano. 
In effetti, ove si trova l'attuale Mileto vennero rinvenuti due pregevoli mosaici appartenenti ad una ricca villa agricolo residenziale di epoca romana, attribuita al patrizio Sicca che ospitò Cicerone
Questo ritrovamento convaliderebbe l'ultima ipotesi.



I NORMANNI NELLA STORIA DELLA CALABRIA
Le abbazie di S.Eufemia e di Mileto.
(di Giuseppe Calzone)
Lo storico inglese Donald Matthew, nella premessa del suo libro uscito nel 1997, dal titolo "I normanni in Italia", evidenzia come L’Inghilterra sia stata sempre più attenta verso i Normanni rispetto all’Italia, dove vi é la tendenza a considerare questo popolo come un fenomeno che ha interessato esclusivamente il meridione. 
Niente di più sbagliato. 
Secondo l’autore, infatti, sono "le differenze ed i conflitti tuttora perduranti fra Italia del Nord e del Sud che rendono complicata l’integrazione della storia del regno normanno nel quadro di una storia d’Italia comunemente condivisa". 
Il Regno normano in forme diverse - da ultimo come regno delle due Sicilie - durò dal 1130 al 1860, fino alla caduta dei Borboni.
Secondo Mattew le affinità del regno normanno con gli altri regni sparsi per l’Europa ne fanno un soggetto di maggior rilievo europeo, in un’età in cui i Comuni, che si affermavano al Nord, erano piuttosto isolati e divisi tra loro, senza una produzione artistica e culturale di grande rilievo. 
I normanni riconducendo ad unità, sotto la monarchia, un territorio come quello meridionale, diviso tra popoli e culture diversi (bizantini, arabi, longobardi), hanno dato un contributo al suo sviluppo.
Altri autori invece, pur riconoscendo ai Normanni il merito di aver gettato le basi del futuro Stato moderno e centralizzato, affermano che con la loro rigida organizzazione amministrativa, di tipo feudale, hanno impedito che nel sud d’Italia nascessero realtà come i Comuni, i quali divennero centri di crescita economica e nell’Italia del nord crearono una società di tipo mercantile.
Probabilmente in entrambe le tesi vi é una parte di verità. 
Comunque siano andate le cose, sta di fatto che in Calabria (e ancor di più in Sicilia) i normanni hanno lasciato delle tracce profonde in diversi campi, tra i quali quello dell’architettura; anche se i terremoti hanno in gran parte distrutto il patrimonio monumentale riferibile a quel periodo.
Queste tracce le troviamo in molti centri calabresi : 
Scalea, 
Laino borgo, 
Roseto, 
Malvito, 
Altomonte, 
Bisignano, 
Rossano, 
S. Marco Argentano, 
Luzzi (Sambucina), 
Montalto, 
Cosenza, 
S.Giovanni in Fiore,
Corazzo, 
Taverna, 
Nicastro, 
Simeri, 
Catanzaro, 
Borgia, 
Squillace, 
Tropea, 
Nicotera, 
Serra S. Bruno (S. Stefano del bosco), 
Arena, 
Stilo, 
Bivongi, 
Bagnara, 
Gerace, 
Reggio Cal., 
Bova. 
Ci sono significative tracce del loro passaggio a Mileto (VV) - che fu scelta nel 1059 come capitale del regno dal Gran Conte Ruggero I - ed anche a Sant’Eufemia Vetere, nel territorio di Lamezia Terme. 
Qui in mezzo ad un agrumeto, si trovano i ruderi dell’abbazia benedettina di " Santa Maria " fondata nel 1062. 
Mentre a Mileto, su una collinetta dalle forme arrotondate, detta un tempo " Monteverde ", é possibile osservare i ruderi dell’abbazia normanna della Trinità. 
Di quest’ultima, che in origine fu dipendente dall’abbazia lametina, si é interessato, fra gli altri, lo storico dell’arte prof. Giuseppe Occhiato. 
Questo autore ha individuato nell’Abbazia di "Santa Maria" a Sant’ Eufemia Vetere e in quella della Trinità di Mileto, poi seguite da quella di Gerace, le prime chiese che hanno importato nel nostro sud, lo stile nordico - benedettino delle costruzioni chiesastiche della Normandia. 
I modelli francesi di queste costruzioni sono costituiti dalle chiese di Cluny, Bernay, Saint ‘Evroul sur-Ouche, modelli che attraverso le due abbazie calabresi si diffusero anche nella vicina Sicilia, dove vennero costruite le cattedrali di Catania, Messina, Cefalù, Palermo. 
Da qui discende l’importanza delle abbazie lametina e miletina nel panorama dell’architettura del medioevo meridionale.
Gli scavi condotti a Sant’Eufemia Vetere hanno provato quanto sostenuto dall’Occhiato, infatti è stata individuata un’abside laterale della chiesa che con la sua forma semicircolare e la sua disposizione sul terreno, si inquadra nello schema architettonico benedettino-cluniacense. Schema che nelle chiese calabresi prima e in quelle siciliane poi si coniuga con la tradizione romanica. 
Venne plasmato un nuovo modello che vede l’impianto planimetrico della chiesa formato da tre absidi semicircolari disposte a gradoni in linea decrescente sui lati. 
L’abside centrale è più ampia e sporgente rispetto a quelle laterali : questo elemento assieme alla tendenza alla verticalità,appartiene allo stile cluniacense. 
La pianta della chiesa cruciforme e le tre navate, invece, appartengono alla tradizione latina : le navate, infatti sono delimitate da colonne come le basiliche paleocristiane (a S. Eufemia vi erano dei pilastri). 
Anche gli scavi condotti a Mileto nel 1995 dalla Sovrintendenza archeologica di Reggio Calabria hanno confermato le tesi dell’Occhiato.
I normanni, discendenti dei Vichinghi,furono abili costruttori oltre che conquistatori e nel sud Italia stipularono un accordo con il Papa per legittimare le proprie conquiste; in cambio si impegnarono a riportare sotto l’ influenza della chiesa di Roma tutti i territori conquistati, che erano di rito Bizantino. 
Perciò costruirono monasteri ed abbazie secondo modelli architettonici cluniacensi (da Cluny nel nord della Francia). 
A Mileto appartiene il primato di essere stata la prima sede episcopale latina di tutto il meridione, infatti Papa Gregorio VII, per compiacere il Gran Conte Ruggero che era molto affezionato alla città, nel 1081 vi istituì la diocesi.
I primi artefici della conquista normanna furono i due fratelli Roberto il " Guiscardo " e Ruggero d’Altavilla, seguiti da Ruggero II. 
Essi erano particolarmente legati ai monaci benedettini francesi e fecero venire dalla normandia abati e monaci che, oltre a svolgere un ruolo religioso, fossero capaci di incidere profondamente anche sul piano sociale ed economico. 
Questi religiosi erano in un continuo rapporto di fiducia con i dominatori normanni ed erano considerati come " baronizzati " (Pontieri : "Tra i normanni ").
L’abbazia di Sant’Eufemia Vetere fu voluta da Roberto il Guiscardo nel 1062 come mausoleo per le anime dei suoi cari, mentre la Trinità di Mileto fu voluta (tra il 1063 ed il 1066) dal fratello Ruggero d’Altavilla, poi Conte di Calabria e di Sicilia, come tomba per sè e per la moglie Eremburga (il sarcofago di quest’ultima é oggi in mostra nel museo di Mileto).
A costruire l’abbazia di Sant’Eufemia fu un monaco normanno, Robert de Grandmesnil. 
Si ritiene, infatti, che furono gli stessi religiosi benedettini a progettare le chiese in cui furono nominati abati o vescovi (Occhiato : La Trinità di Mileto nel romanico Italiano, Editoriale progetto 2000, Cosenza,1994). 
Era regola nell’ordine benedettino che fosse studiata fra i vari rami dell’arte anche l’architettura e gli abati avevano l’obbligo di tracciare la pianta delle chiese e delle costruzioni secondarie che erano chiamati a dirigere. 
Robert de Grandsmenil, giunto in Calabria dalla Normandia nel 1062 con 11 monaci,fu il primo abate di Sant’ Eufemia e alle sue dipendenze vi erano le abbazie di Venosa e di Mileto, rette da due priori francesi. 
Pare che l’abate Grandsmenil sia stato costretto a fuggire dalla Normandia in Calabria a causa dei suoi intrighi politici contro il duca Guglielmo; detto "il conquistatore" dopo la battaglia di Hastings del 1066, con la quale sottomise l’Inghilterra.



Robert de Grandmesnil : l’abate architetto
Le abbazie strumento della politica normanna
(di Giuseppe Calzone)
L’attesa del 2000, anno del Giubileo e di transizione al terzo millennio, ha fatto proliferare libri, riviste e films sul medioevo: epoca avvolta da un alone di mistero con le sue ansie e le sue paure; prima fra tutte la paura della fine del mondo che si diffuse intorno all’anno mille.
Un libro che, pur non essendo recente, ci introduce in pieno medioevo é " I pilastri della terra ", di Ken Follet. 
L’autore narra la storia di un costruttore di cattedrali nell’Inghilterra dell’XI secolo e ci dà uno spaccato altamente suggestivo di vita medievale. 
Uno dei suoi protagonisti, l’indomito priore Philip, non si arresta di fronte a nessuna difficoltà pur di costruire la sua cattedrale. 
L’abate, per disegnare la pianta della chiesa,si alza prima dell’alba e in compagnia di un capomastro traccia l’asse della cattedrale orientandola da est ad ovest
Così immaginiamo che abbia fatto l’Abate Robert de Grandmesnil sulla collina dell’abbazia di Mileto tra il 1063 ed il 1066. 
Qui realizzò un’opera tanto superba che neppure i terremoti che l’hanno demolita sono riusciti a cancellare il ricordo della sua grandiosità. 
E’ probabile che a Mileto il costruttore abbia usato la stessa tecnica del priore citato nel romanzo. 
Infatti il prof. Paolo Peduto dell’Università di Salerno, durante gli scavi eseguiti nel 1995 sulla collina dell’abbazia miletina, ha ipotizzato che la chiesa sia stata tracciata su un banco di arenaria tuttora esistente.
Ma chi era Robert de Grandmesnil ?
Era l’abate dell’ abbazia di Saint ‘Evroul sur-Ouche (nord della Francia) da dove fuggì nel 1061 assieme alla sorellastra Giuditta d’Evreux, la quale proprio a Mileto nel Natale del 1061 sposò il Conte Ruggero. 
L’abate giunto in Calabria assieme ad 11 monaci, con il favore di Roberto il Guiscardo fratello di Ruggero, fondò l’abbazia di Sant’ Eufemia (Lamezia Terme) da cui in origine dipendevano le abbazie di Venosa (Basilicata) e di Mileto. 
La figura di questo abate è stata sapientemente tratteggiata dallo storico dell’arte Giuseppe Occhiato in un suo scritto dal titolo "Robert de Grandmesnil", apparso nella rivista Calabria Bizantina. 
L’abate era di carattere irruento, insofferente della disciplina ed ambizioso e fu costretto a fuggire dalla Normandia per salvarsi la vita dopo il fallimento di una congiura a cui prese parte contro il potente duca normanno Guglielmo "il bastardo".
La sua formazione quale architetto maturò proprio dall’osservazione delle forme architettoniche adottate nelle abbazie di Bernay e Cluny; da quest’ultimo centro monastico della Francia prese avvio la riforma benedettina che portò alla costruzione di abbazie e cattedrali in tutta Europa.
Infatti era regola dell’ordine benedettino studiare l’architettura e gli abati (ma anche i vescovi) avevano l’obbligo di tracciare la pianta delle chiese e delle abbazie ad essi affidate. 
L’Abbazia di Sant’ Eufemia Vetere e quella della Trinità di Mileto, poi seguite dalla chiesa di Gerace, furono le prime chiese che hanno importato nel nostro sud lo stile nordico - benedettino della Normandia.
I modelli francesi di queste costruzioni si diffusero con i Normanni anche nella vicina Sicilia dove vennero costruite le cattedrali di Catania, Messina, Cefalù, Palermo. 
Nella planimetria di queste chiese appaiono tre absidi. 
L’abside centrale è più ampia e sporgente rispetto a quelle laterali : questo elemento assieme alla tendenza alla verticalità,appartiene allo stile cluniacense. 
La pianta della chiesa cruciforme e le tre navate, invece, appartengono alla tradizione latina : le navate, infatti sono delimitate da colonne come le basiliche paleocristiane (G. Occhiato : La Trinità di Mileto nel romanico italiano).
Lo storico Pontieri parlando dei monaci normanni li descrive come uomini di chiesa, di mondo e di guerra, dediti più alle cose terrene che a quelle divine : questo monaco " passa con estrema facilità da un’opera di religione a dirigere l’assedio di città nemiche, da una congiura politica al governo di una comunità monastica, dai meschini e occulti intrighi feudali alle profferte più appassionate di fedeltà ".
Il motivo per cui i conquistatori normanni si sono rivolti alla costruzione di chiese si spiega con l’accordo stipulato a Melfi nel 1059 tra Papa Gregorio VII e i normanni. 
Il Papa legittimava le conquiste normanne nel sud d’Italia ed in cambio i conquistatori si impegnarono a riportare sotto l’ influenza della chiesa di Roma tutti i territori conquistati che erano di rito Bizantino. 
Perciò costruirono chiese e monasteri e appoggiarono i monaci benedettini i quali nelle abbazie svolgevano un ruolo politico ed economico oltre che religioso. 
Questi monaci erano veri e propri feudatari: amministravano possedimenti, godevano di privilegi.
Le abbazie per meglio svolgere il loro ruolo erano sottratte alla giurisdizione dei vescovi ed erano soggette direttamente all’autorità pontificia di Roma.
Questa autonomia fu causa di conflitti tra gli abati e i vescovi che non tolleravano i poteri concessi ai monaci. 
Le lotte per il potere non stanno a significare però che nell’ Europa dell’XI secolo non vi sia stato un forte fervore religioso, fervore che così fu espresso, con suggestive parole, dal monaco e cronista dell’epoca Rodolfo il Glabro : " Era come se il mondo stesso, scrollandosi di dosso la sua vecchiezza, si rivestisse d’un bianco mantello di cattedrali ".
Mentre Orderico Vitale, altro cronista dell’epoca, si compiaceva osservando come nelle mura delle abbazie di Venosa, di S. Eufemia e di Mileto si udissero gli stessi canti che si udivano a S. Evroult sur-Ouche (J. Lindsay - I Normanni - Bur).
Accadde che i monaci normanni nel sud d’Italia guardassero all’architettura del Nord della Francia per costruire le loro chiese ed i condottieri normanni rimasti in Normandia si ispirassero all’esperienza del sud Italia per conquistare l’Inghilterra.
Il cronista Guglielmo di Malmesbury, afferma che Guglielmo il Conquistatore prendeva a modello il carattere risoluto e ardito di Roberto il Guiscardo, il quale già nel 1059 era divenuto duca di Puglia e Calabria. 
Considerava un disonore " esser meno in valore ad uno come Roberto che egli superava di rango ". 
Gli Altavilla, infatti, appartenevano alla piccola nobiltà normanna e costruirono le loro fortune guerreggiando nell’Italia meridionale. 
Essi, com’é riconosciuto da tutti gli storici, gettarono le basi del futuro Stato moderno e centralizzato. 
Però la loro rigida organizzazione amministrativa, di tipo feudale, impedì che nel sud d’Italia nascessero i Comuni i quali divennero centri di crescita economica e nell’Italia del centro-nord crearono una società di tipo mercantile.



IL CONVENTO BASILIANO DI CIANO
di Giuseppe Calzone
I NORMANNI  E  I  MONACI  BIZANTINI  IN CALABRIA. Cenni sulle risorse umane e materiali e sull’ordinamento della società medievale. 
Ciano di Gerocarne   , 27 novembre 2004
Nel porgere il mio saluto a tutti gli intervenuti e alle Autorità ringrazio gli organizzatori di questo Convegno per la loro ammirevole iniziativa che tende  a far conoscere la plurisecolare storia di Ciano e del suo convento basiliano .Un ringraziamento particolare va al nostro Vescovo, Mons. Domenico Tarcisio Cortese; grazie a Lui possiamo ammirare preziosi oggetti  liturgici appartenuti al Convento di Ciano, tra i quali una bellissima Croce astile bizantina .
In questo mio intervento mi propongo di parlare  della politica dei conquistatori normanni verso le comunità religiose del  meridione d’Italia nell’XI secolo, poiché altri  relatori ed in particolare il dr. Pasquale del Giudice, autore del libro sul convento basiliano di Ciano affronteranno l’ argomento oggetto del convegno.
Parlerò poi delle risorse umane e materiali e dell’ordinamento della società medievale in Calabria, commentando alcuni documenti che riguardano  il Monastero di Ciano. 
L’Idea di un  Regno normanno
La politica normanna in campo religioso era ispirata ai  patti stipulati con il Papa nel 1059 a Melfi. I normanni con Roberto il Guiscardo ( che ottenne il titolo di duca di Puglia e Calabria) , per avere la legittimazione delle loro conquiste, s’impegnarono a riportare sotto l’autorità della Chiesa di Roma i territori conquistati , perciò sostituivano i monaci  basiliani e i vescovi di rito greco  con abati e vescovi latini. Questi monaci erano veri e propri feudatari: amministravano possedimenti e godevano di privilegi.
La storia della conquista del sud  da parte di Roberto il Guiscardo e del Gran Conte Ruggero (suo fratello minore), è divenuta un mito.Essi, approfittando delle divisioni esistenti tra le  popolazioni , conquistarono la Calabria in appena 12 anni, dal 1048 al 1060. Mentre la conquista della Sicilia, che era in mano agli arabi, durò dal 1061 al 1091 e fu il Gran Conte Ruggero a completarla, poiché Roberto il Guiscardo morì nel 1085.
A Mileto  il Gran Conte Ruggero , stabilì la sua corte e vi fondò una Zecca per battere moneta, abbellì la cittadina, che in origine era un borgo bizantino, con chiese e palazzi. Sempre a Mileto  sposò la prima moglie Giuditta d’Evreux e qui vide la luce Ruggero II           ( futuro re di Sicilia), nato dalla terza moglie del Gran Conte ,Adelaide del Vasto.        A Mileto nel 1081 il Gran Conte fece istituire la sede episcopale che fu la I diocesi latina del Meridione e qui  morì nel 1101 ,assistito da   San Bruno, e fu seppellito nella Chiesa Abbaziale della SS.Trinità. (Giuseppe Occhiato: La Trinità di Mileto nel romanico italiano; Ed. progetto 2000, Cosenza)
Sempre a Mileto il Gran Conte Ruggero concepì l’idea di costruire un regno che poi sarebbe durato, passando da dinastia in dinastia (Svevi,Angioini,Aragonesi,Borboni) fino al 1860, data dell’unità d’Italia (Salvatore Tramontana: “I Normanni in Calabria” ,in I normanni in finibus Calabriae, Ed. Rubbettino, 2003).
Nel costruire il loro regno i normanni dovettero affrontare molte difficoltà dovute alla presenza sui territori occupati di varie religioni. Secondo lo storico inglese Donald Mattew ( I Normanni in Italia, Laterza ,1997) essi non avevano precedenti che li guidassero nel modo di trattare gli Arabi, che erano in Sicilia, e i sudditi cristiani che erano in Calabria e nel resto del meridione. All’inizio trattarono con durezza sia i greci (bizantini) che i mussulmani . Ma in seguito furono piuttosto tolleranti delle diverse tradizioni. Un cronista arabo, Ibn-al Atîr scrisse che il Gran Conte Ruggero non lasciò officine,mulini o forni a nessuno dei Greci,Mussulmani o Franchi (normanni) con ciò si riferiva alla rigida politica fiscale del Gran Conte verso i sudditi. Mentre il figlio, re Ruggero II, allontanandosi dalla mentalità accentratrice dei franchi istituì a corte nuove cariche inserendo nell’amministrazione del Regno elementi prima esclusi ( E.Caspar – Ruggero II – e la fondazione della monarchia normanna in Sicilia; Laterza, ) .

Rapporti con le comunità greco-bizantine
Nell’Italia meridionale i greco- bizantini persero la loro autonomia ecclesiastica quando i loro vescovi furono obbligati ad ubbidire alla Chiesa di Roma , mantennero però i loro riti.La lingua greca rimase la lingua della cultura e dell’amministrazione, infatti sia il Gran Conte Ruggero che il figlio Ruggero II, quest’ultimo prima di diventare re, emanavano la maggior parte dei loro documenti in greco ( in greco è il documento cosiddetto “Sigillum aureum” che contiene l’atto di fondazione della Diocesi di Mileto ). Ruggero II dopo l’incoronazione del 1130  firmava i documenti latini con il nome in greco.
Mentre i vescovi greci in Calabria furono sostituiti con vescovi latini o dovettero accettare la giurisdizione del Papa, i monaci mantennero i loro legami con Costantinopoli, capitale dell’Impero romano d’Oriente , e con il Monte Athos, centro spirituale del monachesimo bizantino.
I monaci bizantini lasciarono molte tracce della loro attività perché molti cenobi e monasteri  (come questo di S.Pietro Spina di Ciano) conservarono documenti legali o religiosi attraverso i quali è possibile risalire alla vita sociale delle comunità greche.I Grandi monasteri furono protetti da Ruggero I e dalla sua famiglia mentre quelli piccoli erano sostenuti dalle popolazioni o dai signori locali.Lo studioso H.Houben ( Medioevo monastico e meridionale ,Napoli 1987) osserva come i normanni non disdegnassero di essere menzionati nelle preghiere dei monaci greci e non erano loro ostili , al contrario facevano loro delle donazioni per essere commemorati nei loro dittici. In definitiva se le popolazioni erano greche erano rimanevano greci anche i monaci .
I condottieri normanni si facevano seppellire in chiese mausoleo ( La Trinità di Venosa per Roberto, la Trinità di Mileto per Ruggero) così copiando un modello concettuale orientale, infatti nella chiesa dei SS.Apostoli a Costantinpoli si trovavano i sepolcri degli imperatori bizantini. Così i normanni traevano legittimazione e prestigio appropriandosi  dell’ideologia dell’Impero d’Oriente secondo la quale il potere si legava in modo preminente alla funzione di rappresentare il Cristo sulla terra. Infatti, nei mosaici della Chiesa Martorana di Palermo, Ruggero II è raffigurato in sfarzosi abiti bizantini mentre si fa incoronare da Cristo in persona.Ed i normanni facendosi seppellire nelle chiese mausoleo intendevano subentrare, e subentravano, all’imperatore bizantino nel sud d’Italia.
I monasteri e i cenobi bizantini erano  molto numerosi, ma non ricchissimi, i normanni per poterli controllare  decisero di raggrupparli in unità più grandi in modo da disporre di risorse adeguate in ciò seguendo il sistema della dipendenza di molti monasteri bizantini da quello del Monte Athos in Grecia. Su consiglio di S.Bartolomeo da Simeri, fondatore del Patirion di Rossano, Ruggero II nel 1131 elevò il capo del monastero S.Salvatore di Messina alla carica di archimandrita di una congregazione di circa 40 monasteri.

Le risorse materiali ed umane e l’ordinamento della società
Lo spaccato dell’economia calabrese nell’XI,già delineato da studiosi medioevisti, viene confermato anche dai documenti riguardanti il Convento di Ciano. Questo monastero fu fondato presumibilmente  tra il 1075 e il 1080 da  frate Gerasimo, suo primo igumeno (priore) . Il suo testamento ci consente di capire su quali risorse materiali ed umane  poteva contare il cenobio : Frate Gerasimo fondò il monastero su un piccolo appezzamento avuto dal padre;  dice di coltivarlo servendosi dei suoi agricoltori (villani) e delle sue mani. Intorno ad esso vi era la vigna ed al monastero  appartenevano altri appezzamenti di terreno in varie località . Facevano parte del paesaggio agrario anche gli uliveti . Nel testamento  sono menzionati oltre all’arredo liturgico, anche le attrezzature che erano costituite da 10 botti,20 tini,10 zappe,4 mortai ,coltelli per potare,tenaglie,tegami grandi e piccoli ed altri arnesi. Inoltre vi era del bestiame consistente in 6 coppie di buoi, 6 asini e due giumente.Certamente vi era un mulino, del quale rimangono i ruderi accanto al torrente “Pòtami”, che testimonia la produzione di frumento.
Questi dati confermano assieme ad altri (  vedi anche il testamento dell’anno 1198 di  Giovanni Scullandi ,signore di Aieta , pubblicato nel libro di Del Giudice) quale fosse il paesaggio agrario diffuso in tutta la Calabria intorno all’anno Mille: Oliveti e vigne erano posti a ridosso dei centri abitati.Nell’ultima fase della dominazione bizantina era più diffusa la vigna dell’uliveto.Il vino ed il pane erano alla base dell’alimentazione della quale facevano parte  anche i grassi animali .Intorno ai centri abitati e ai monasteri vi erano anche delle colture orticole (Barbara Rotundo: Paesaggio agrario calabrese in età normanna ,in  I normanni in finibus Calabriae ,Rubbettino,2003) . Cereali e vite erano pertanto le colture preminenti.La cultura dei cereali era basata sul maggese, attuabile con poca spesa, e sul riposo dei terreni. Per cui il ciclo più ricorrente era quello biennale in base al quale si alternavano cereali invernali e  maggese. Negli atti dei monasteri greci ( monastero di S.Giovanni a Théristes ,1101-1102) si parla di abbondante produzione di vino,grano ed olio. In epoca bizantina oltre alle coltivazioni vi era il cosiddetto incultum (la foresta) che poteva essere sia di proprietà privata che pubblica; nell’incultum (silva) avveniva la raccolta dei frutti spontanei,del legname per costruire e per altri usi; i castagneti erano diffusi in tutta la regione   In parecchi atti si fa riferimento a mulini ad acqua o pressoi d’olio. Importanti perciò sono anche i documenti legali e religiosi del convento di Ciano, che meritano di essere ancora di più approfonditi per trarne altre notizie preziose .
Nel testamento di Frà Gerasimo si fa riferimento alla coltivazione del campo del monastero di Ciano con i contadini , oltre che dall’abate con le proprie mani;nelle abbazie latine non è dato incontrare abati che zappano la terra.Questo era forse uno dei motivi che avvicinavano i monaci italo-greci alla popolazione: essi oltre che per la loro religiosità erano benvoluti per la condizione dimessa e umile in cui vivevano. Il riferimento contenuto nel testamento del frate di Ciano  ci induce a tratteggiare brevemente la condizione dei villani, che erano legati alla terra e ne seguivano la sorte in caso di trasferimento da un soggetto ad un altro. Nel privilegio del 1200 Gian Francesco de Arenis,Conte di Arena, donò  al convento di Ciano dei villani. Questi sono indicati per nome e cognome; a volte è indicato  il nome del capo famiglia e genericamente i figli. I loro obblighi erano indicati espressamente : dovevano dare e consegnare ogni anno al monastero l’erbatico ( tassa per il pascolo di erbivori) e il ghiandaggio  (tassa per il pascolo dei suini) come tutti gli altri villani del  dominio (feudo di Arena ) “ e cioè 1) a natale una gallina,due pani,un troncone (capicollo),il lombo del porco che uccidevano e metà della sugna; 2)A Pasqua due buccellate (grossi pani ) e una corolla di pane con dieci uova; 3)nella festività di S.Pietro una matassa ( di lana?); 4)Durante la vendemmia dovevano fornire i cerchi per la riparazione delle botti ,e per angaria e perangaria (prestazioni personali) , due giornate di lavoro la settimana; 5)Per perangaria dovevano fornire dodici giornate lavorative, delle quali tre durante la vendemmia,tre durante le semine,tre alla mietitura,e tre nell’aia durante la trebbiatura.
Altri  uomini, indicati espressamente, dovevano dare e consegnare al monastero annualmente:
Erbatico e ghiandaggio; una giornata lavorativa la settimana;tre giornate lavorative alla mietitura,tre alle semine, e tre alla vendemmia, nella festività di S.Pietro una matassa ( di lana?);a Natale una gallina e due pani ; A Pasqua una corolla di pane  con dieci uova.
Al monastero venne pure concessa la libertà di avere tenere e possedere boschi, colture, terre, campi, oliveti, verzieri, giardini, orti, acquedotti, mulini, battenderie. E la selvaggina uccisa dal cacciatori nei possedimenti del monastero spettava per un quarto allo stesso  monastero .
Si evince, anche da tale documento che in Calabria affittuari e villani avevano tipi differenti di obblighi e che il ceto contadino non era affatto uniforme.Nel XIII secolo sembra che la condizione dell’angarius fosse considerata la più bassa delle condizioni sociali, essi non potevano aspirare ad alcun incarico pubblico. Comunque, le condizioni praticate ai suddetti “vassalli” e villani  nello Stato di Arena e Soreto erano così gravose che questi erano restii ad accettare gli affitti dei territori ed altri corpi feudali, e di soggiacere a diritti,angarie e parangarie.Tanto si evince da scritti pubblicati nel libro del dr. Del Giudice: “Il convento basiliano di S.Pietro Spina di Ciano”. Nonostante tutto, in Calabria, come in altre parti del regno (Sicilia) l’unico modo per acquistare diritti sui terreni era quello,da uomini liberi, di diventare villani, pagando  decime, tributi e facendo servizi (prestazioni personali come quelle descritte)  per aver poi la possibilità di trasferire i diritti ai propri eredi secondo un uso delle signorie latine:per i greci,infatti, era importante acquisire così beni familiari.
In generale dall’esame dei documenti la Calabria nell’epoca medievale appare come un mosaico di comunità rurali ed anche urbane distinte e preoccupate di assicurarsi dei diritti e delle condizioni migliori nei confronti dei signori del luogo.Esemplare e la storia dei contadini asserviti al Monastero di S.Stefano del Bosco (Serra S.Bruno) che ottennero il diritto di appellarsi a Federico II contro i tentativi di  abusi dell’abate Ruggero (Donald Mattew,opera citata) .
Finisce qui il mio contributo  a questo convegno. Mi sono proposto di affrontare gli argomenti trattati in chiave di conversazione con i cittadini di Ciano e con gli amici presenti, senza pretese di scientificità, la  quale appartiene, e non può che appartenere agli studiosi specialisti della materia .


  
RICCARDO CUOR DI LEONE ALLA CROCIATA
La lite con i contadini di Mileto
(di Giuseppe Calzone)
Qualche  storico  di   recente   ha   messo   in discussione  la  buona  fama  di  Riccardo Cuor di Leone, re d'Inghilterra.  Egli,  che fu celebrato da  poeti  e  cantori come il simbolo del perfetto cavaliere medievale,  pare che in più occasioni si sia  comportato  da  ribaldo.  Non si comportò da cavaliere  quando,  recandosi  alla  Crociata,  si fermò  a  Mileto.
La  notizia  del  passaggio  di Riccardo Cuor di Leone per Mileto,  che  a  prima vista  potrebbe  sembrare una leggenda,  ha delle basi storiche che sono indicate in questo scritto.
 Nel  1187 i Musulmani occuparono Gerusalemme,  la Città  Santa,  che  era  stata  conquistata  dai Cristiani   durante  la  seconda  crociata.   Papa Gregorio VIII impressionato dal fatto sostenne  la necessità  di una terza crociata.  La predicazione assumeva  toni  drammatici.Si  descrivevano  i luoghi santi profanati dai Musulmani infedeli, che bivaccavano  nel  Tempio  commettendo  soprusi  ai danni  dei  pellegrini.  Quindi  si  incitavano  i Cristiani  a  vendicare  le ingiustizie subite e a riappropriarsi di Gerusalemme,  capitale del Regno Divino (L.   Gatto   -    Le  Crociate  -  Ed.  Tasc.Ec.Newton, 1994).
Aderirono al  progetto  di  una  terza  crociata Federico Barbarossa re di Germania, Filippo II re di Francia ed Enrico II re d'Inghilterra, fissando la   data   d'inizio   nel   1189;  la  morte  di quest'ultimo però indusse il figlio, Riccardo Cuor di Leone,  a rinviare la partenza al 1190.  Mentre Federico Barbarossa partiva da Ratisbona nel 1189, Filippò  II e Riccardo partirono con le flotte nel 1190, il primo da Genova e il secondo da Marsiglia per ritrovarsi a Messina.
Qui si inserisce  l'episodio  che  ci  interessa.  Domenico  Taccone-Gallucci  vescovo  e studioso di storia locale,  nella  monografia  sulla  Città  e Diocesi di Mileto del 1882,  richiama uno storico inglese definito autorevole (Oweden :  Biblioth.  Historica Siciliae, tomo II) ed afferma che il 21 settembre  1190  Riccardo  Cuor  di  Leone nel suo viaggio verso Messina si fermò a  Mileto.  Notizia ripresa anche da F. Pata, C. Naccari, Occhiato ed altri.
Mileto  era  un passaggio quasi obbligato per chi attraversava la penisola diretto verso la Sicilia; pochi decenni prima era stata capitale  del  regno normanno  e  il  Conte Ruggero,  già durante prima Crociata aveva ospitato dei pellegrini  in  marcia verso   la   Terra  Santa  (vedi  Privilegio  di fondazione  della  Badia  di  S.   Maria  e  degli Apostoli  di  Bagnara,  spedito nel 1085 da Conte Ruggero).
Giunti a Mileto, il cronista che seguiva Riccardo racconta che era ancora visibile la torre  di legno che, munita di ruote, era servita a Roberto il Guiscardo per accostarsi alle mura della città assediata ed espugnarla. Mileto prima dell’arrivo dei normanni era infatti un  “castrum” bizantino.
Senonchè  nel suo   breve   soggiorno,   ospite dell'Abbazia  della  SS.  Trinità ,  re  Riccardo inoltratosi da solo a caccia nelle campagne non era conosciuto da  alcuni contadini e veniva a diverbio con essi.
Naccari Carlizzi Leoluca riferisce ( Lettera  al mio  Vescovo - Mileto 28 maggio 1986) che la lite fu provocata da Riccardo il quale "  soffiò  "  un falco ad un contadino, che non gradì il gesto.  Un falco  in  pieno medioevo valeva bene una lite con un villano.  E' risaputa, infatti, l'importanza di questi rapaci,  che venivano usati per la  caccia.  A riprova  di  ciò  basti  ricordare che un altro grande sovrano,  Federico II,  compose un trattato di  falconeria  (" De arte venandi cum avibus ") sull'arte di cacciare con gli uccelli.
Vi è però un'altra  versione dei  fatti (o meglio illazione).  Pare  che Riccardo Cuor di Leone nei poderi che circondavano Mileto non abbia preso  solo  il  falco,  ma  anche  dei  polli  da arrostire   allo   spiedo  (c’è chi, malignando, ipotizza che non di falco, né di polli si trattò, bensì di una giovane donna, molestata dal sovrano).
Il  passaggio  dei pellegrini diretti alle crociate  spesso  non  era ben  visto  dalle  popolazioni  locali,  perchè  i crociati avevano necessità di reperire cibo  e  lo chiedevano,  o  lo  prendevano  con la forza,  nei luoghi ove passavano.
Comunque siano andate effettivamente le  cose , certo  è  che  il  monarca dovette allontanarsi in tutta fretta.
Quindi occupò Messina;  passò con la flotta  per l'isola  di  Cipro e puntò su  San Giovanni d'Acri, in Terra Santa.  Non riuscendo a conquistarla con le armi,  fece un  accordo  con  il  Saladino  per consentire ai Cristiani di recarsi a Gerusalemme.  Nel   1192   durante  il  viaggio  di  ritorno  in Inghilterra fu fatto prigioniero  da  Leopoldo  II  Duca   D'Austria.
Successivamente,  liberato  , sconfisse il fratello Giovanni  Senza  Terra,  che voleva  usurpargli  il  trono.  Morì nell'assedio del castello di Chalùs dopo aver vinto  la  guerra contro il re di Francia,Filippo II.
La  vita  avventurosa  di  Riccardo Cuor di Leone venne cantata da diversi poeti e scrittori, uno di questi Ambroise,  era un cronista normanno vissuto alla  fine  del  XII  secolo,   che  seguì  il  re d'Inghilterra  nella  terza  crociata.  Questi  ci racconta  tra i tanti episodi il valore che mostrò Riccardo Cuor di Leone nel liberare dai  Musulmani la  città  di Giaffa (oggi Tel Aviv -Giaffa sulla costa dello Stato di Israele).
Il re,  avvertito che la città sta per cadere  in mano  musulmana,  la  mattina  del 1° agosto 1992, arriva sul posto con alcune navi  genovesi.  Prima che le navi attracchino Riccardo,  con lo scudo al collo, un'ascia danese in mano, salta in mare con l'acqua fino alla cintura,  corre alla  riva,  la libera dai Musulmani, penetra in città e qui trova i      nemici  che  saccheggiano  le  case,  ne fa un' orribile carneficina e mette  in  fuga  l'esercito del  Saladino  (René  Grousset  - L'epopea delle Crociate, Ed. De Agostini, 1968).
La vecchia Mileto,  quindi,  vide davvero  questo personaggio ? Pare proprio di si !
Annotazioni:
Riccardo condusse una vita spericolata e da viaggiatore (così com’era d’uso nel medioevo): su 117 mesi di regno ne passò soltanto sei in Inghilterra, sette in Sicilia (incluso il soggiorno calabrese) uno a Cipro, tre in diverse traversate marittime, quindici in Terra Santa, sedici in varie prigioni dell’Austria e della Germania e ben sessantuno sul suolo francese (L. Gatto, Vita quotidiana nel medioevo, Ed. Riuniti, Roma 1997)
Riccardo aveva sangue normanno, infatti: La nonna materna di Riccardo, Matilde di Scozia era figlia di Enrico I, normanno - figlio di Guglielmo il Conquistatore -.
Enrico II padre di Riccardo era figlio di un Plantageneto e di Matilde figlia di Enrico I.



RICCARDO CUOR DI LEONE O CUOR DI TERRORE ?
La figura del sovrano inglese. 
(di Giuseppe Calzone)
Nel numero 5/95 del settimanale vibonese l’Altra Provincia è stato riportato un episodio riguardante il re d’Inghilterra Riccardo cuor di leone il quale, andando alle Crociate in terra Santa, giunse in Calabria e il 21 settembre del 1190 si fermò a Mileto, ospite dell’abbazia della SS. Trinità. Qui venne alle mani con alcuni contadini. Il diverbio, come narra lo storico  inglese Roger  de Oweden ( Bibliotheca Historica Siciliae, tomo II) fu causato da Riccardo che prese un falco ad un contadino . Questi chiamò in aiuto i vicini ed il monarca, scaraventato a terra rischiò di essere linciato. Il fatto viene ricordato anche da Domenico Taccone Gallucci che, nella monografia “Città e diocesi di Mileto “ 1882, menziona lo storico inglese. L’articolo in questione ,nonostante i riferimenti bibliografici, da alcuni è stato accolto con scetticismo, quasi che si trattasse di amenità imbastite per dal lustro al paese natio dell’articolista. Il fatto raccontato, in verità rappresentava una stonatura rispetto all’immagine che ci è stata tramandata dalla storiografia ufficiale su Riccardo Cuor di Leone, ritenuto il simbolo del perfetto cavaliere medievale. Sicché era poco credibile che il monarca inglese si fosse azzuffato con un villano dopo avergli rubato un falco. Sennonché , a confermare come Re Riccardo non fosse nuovo a simili imprese è intervenuta la televisione inglese BBC, che ha riscritto la storia e ha demolito il mito del monarca. Il quotidiano “La Repubblica” del 5 gennaio 1995 nelle pagine della cultura dà notizia di questa inversione di rotta  titolando : Rivisitazioni: La BBC riscrive la storia, manda in frantumi un mito: “ Il re dei re era un assassino sanguinario”; Riccardo  cuor di terrore. Il documentarista Terry Jones, suffragato dall’esperto Steven Runciman, ne dice di cotte e di crude. “Riccardo era un criminale interessato soltanto al denaro e alla guerra”, e la terza crociata gli diede l’occasione di compiere dei massacri quotidiani. Nel confronto con il Saladino, re dei musulmani, è quest’ultimo a farci una bella figura. Se il cronista normanno Ambroise ,che nel 1190 seguì Riccardo Cuor di leone  e ne raccontò le gesta, potesse ascoltare questi giudizi si rivolterebbe nella tomba. Egli ci descrisse il valore che mostrò nella liberazione della città di Giaffa in Israele , raccontando come il Re, avvertito che la città stava per cadere in mano musulmana, la mattina di un  1° agosto  si precipitava  sul posto con alcune navi genovesi. Prima che le navi attraccassero, Riccardo con lo scudo al collo, un’ascia danese in mano, saltava in mare, con l’acqua fino alla cintura correva alla riva, la liberava dai Musulmani, penetrava nella città, qui trovava i nemici che saccheggiavano le case, ne faceva un’orribile carneficina e metteva in fuga l’esercito del Saladino”. ( René Grousset – L’epopea delle Crociate, Ed. De Agostini, 1968 ) . In verità a mettere in discussione la figura di Riccardo ci aveva pensato qualche anno fa la biografa Régine Pernoud. Il Re era un ottimo soldato ma era un cattivo re, un cattivo figlio (insidiò il regno del padre) ed un cattivo marito. Condottiero eccezionale ma facile agli eccessi anche nella vita privata e sentimentale. Più volte intrattenne rapporti omosessuali. Forse anche la sua amicizia con Robin Hood, che lo aiutò a recuperare il regno usurpatogli dal fratello Giovanni senza terra, è una favola. E , tuttavia, pare che riuscisse a mantenere i suoi legami con il popolo al quale non esitava a manifestare il suo più sincero pentimento per le malefatte commesse . La terza Crociata che per il cronista medievale Ambroise fu una splendida avventura, nel documentario della BBC assume i toni di una sequela di massacri e azioni turpi. L’esercito di Riccardo sarebbe stato composto da “una teppaglia di mercenari contadini “ e i crociati erano “una massa di cannibali” e massacrarono tutti gli Ebrei che riuscirono a trovare in Germania. La strage degli ebrei fu in effetti una delle pagine più turpi dell’impresa crociata; impresa animata da una profonda fede e sostenuta dall’idea-forza della liberazione di Gerusalemme. Gli Ebrei venivano ritenuti colpevoli della situazione in cui si trovava la Terra santa perché avevano fatto crocefiggere il Cristo , indebolelendo di conseguenza la condizione dei Cristiani ( Le Crociate, L. Gatto, Ed. Econ. Newton, 1994 ). Per tornare a Terry Jones, commentatore della BBC, egli riferisce che i Crociati di Riccardo in Turchia distrussero interi villaggi poiché non si erano accorti che erano abitati da popolazioni convertite al cristianesimo e, addirittura, per una disputa su un paio di scarpe uccisero 4000 persone. Stando così le cose la rissa di Mileto, in cui si cacciò Riccardo per colpa di un falco e di un indomito contadino, che ne era il legittimo possessore, è episodio da educande; comunque conferma che il Re inglese non era affatto uno stinco di santo.



VESCOVI   CONTRO   ABATI
Cinquecento anni di intrighi e lotte
(di Giuseppe Calzone)
Ricordate l’aria di mistero e di terrore che avvolge la vita dell’abbazia nel romanzo di Umberto Eco : " Il nome della rosa "? Le storie di gelosia, di rivalità, i casi di corruzione tra monaci, i conflitti all’interno della Chiesa, le dispute dottrinali tra gli ordini religiosi, le denunce, l’inquisizione, i processi ? Sembra di vivere proprio quel romanzo mentre si leggono le vicissitudini delle fondazioni religiose miletesi (Abbazia ed Episcopato), che ci vengono tramandate dall’ archivio del Collegio Greco di Roma e dall’archivio dell’Accademia delle Scienze di Napoli.
A 14 Km da Vibo Valentia, su una collina a sud-est di Mileto, è possibile osservare i pochi ruderi della Mileto medievale, distrutta dal terremoto del 1783.
D’ origine antichissima ed incerta, divenne importante, quando i Normanni nel 1059 la eressero a capitale della Calabria e della Sicilia.
Nel nuovo abitato di Mileto nel 1938 sono stati rinvenuti anche reperti di epoca romana, consistenti in due pregevoli mosaici del I secolo d.C.,appartenuti ad una villa di vaste dimensioni.
Se è vero che la vecchia Mileto deve il suo momento di splendore e la sua notorietà ai re normanni, è anche vero che la città mantenne un ruolo importante in Calabria nei secoli successivi grazie alla presenza delle due fondazioni religiose volute da re Ruggero: l’Abbazia della Trinità e l‘ Episcopato. I normanni, secondo i patti stipulati nel 1059 a Melfi con il Papa, sostituivano i monaci basiliani e i vescovi di rito greco con abati e vescovi latini. In virtù di tale patto a Mileto furono fondate l’Abbazia della Trinità (1063 - 1066) e la sede vescovile (1081).
Il gioiello della Mileto normanna fu l’abbazia benedettina, nella quale risiedevano più di cento monaci (vedi Occhiato, La Trinità di Mileto nel romanico italiano, Cosenza 1994). L’Abbazia divenne il cardine della politica religiosa normanna, tanto da ricevere da parte del Conte Ruggero,una ricchissima dotazione di beni e privilegi confermata dalla Curia Pontificia. I primi possedimenti furono cenobi di monaci basiliani spodestati. Nel 1080 la Trinità possedeva 4 abbazie e tre chiese in Calabria e altre 4 abbazie in Sicilia. Nel 1098 passa a 15 priorati calabresi e 7 siciliani - come risulta da una bolla di papa Urbano II. Dal 1123 al 1151 i possedimenti calabresi aumentano da 15 a 24 e quelli siciliani da 7 a 16.
Le enormi ricchezze procurarono molti nemici alla fondazione che, da questo momento, dovette lottare aspramente su tutti i fronti per mantenere i privilegi ottenuti da Ruggero I e dai pontefici romani.
Una prima lite scoppia nel 1117 con i certosini di Santo Stefano del Bosco (Serra S. Bruno). Poi, tra il 1122 ed il 1136, i benedettini miletesi gelosi dei favori accordati da Ruggero 2° ai monaci basiliani di Rossano (i normanni erano diventati tolleranti con i bizantini), accusarono di eresia il fondatore del Patirion (San Bartolomeo di Simeri) che però ne uscì indenne.
Le ricchezze ed il prestigio dell’abbazia, il cui abate fu uno dei più grandi feudatari del regno di Napoli (Lenormant, La Grande-Grèce), la esposero ad aggressioni, devastazioni e minacce di ogni genere. A queste spesso gli abati reagirono con le armi, addirittura un abate organizzò una spedizione militare da Mileto a Seminara, dove erano stati usurpati alcuni possedimenti. Le dispute e i contrasti più violenti, affrontati con processi civili e falsificazioni di ogni sorta, sorsero però con i Vescovi di Mileto. In Inghilterra fece di peggio l’arcivescovo di Canterbury che, all’abate suo rivale,distrusse l’abazia mai più risorta. Il primo contrasto tra vescovo ed abate riguardò la proprietà del Borgonovo - Monteleone (oggi Vibo Valentia), dove l’imperatore Federico II aveva ordinato di far sorgere castello e abitato su un terreno dell’abbazia ; si raggiunse un accordo solo nel 1287 : il Vescovo acquistò ogni diritto sul territorio di Monteleone, mentre l’Abate mantenne i diritti spirituali sui casali di " S. Gregori, Cramestii, Bibonis et Larzonis ". Le liti però furono non solo di ordine temporale ma anche di natura spirituale e di competenza giurisdizionale. Infatti il papa Urbano II nel 1098 aveva posto l’Abbazia di Mileto sotto la protezione della Santa sede con esenzione dalla giurisdizione episcopale, l’abbazia perciò diventava una sorta di diocesi nella diocesi,  suscitando la gelosia dei vescovi che assistevano, non senza reagire,all’estensione del potere civile e religioso degli abati in Calabria ed in Sicilia.
Le liti tra abati e vescovi di Mileto proseguirono fino al 13 agosto del 1717 quando, il papa Clemente XI, stanco dei litigi, per porre fine alla catena di odii aggregò il monastero della Trinità alla mensa vescovile di Mileto. Ma la questione non finì qui, perchè nel 1762 il  canonico Antonino Grandolino, per sottrarre l’Abbazia alla giurisdizione del vescovo di Mileto, sostenne che l’Abbazia era di "regio patronato" perchè fondata da re Ruggero ed il re di Napoli, Ferdinando I, nel 1774 sequestrò l’ archivio abbaziale e assegnò l’abbazia all’Accademia delle Scienze della città partenopea. L’abbazia fu definitivamente soppressa da Ferdinando IV nel 1766,non senza la forte opposizione dei vescovi di Mileto che tentarono in ogni modo di sottrarla al patronato della Corte di Napoli (vedi Occhiato : opera citata). All’ intrigo degli uomini subentra poi la forza bruta della natura : come l’abbazia misteriosa di Umberto Eco crolla, distrutta da un violento incendio, così l’abbazia di Mileto crolla, assieme alla città, distrutte dal terremoto del 1783. Finiscono così cinque secoli di lotte, intrighi, processi e falsificazioni, tra i vescovi e gli abati di Mileto. Ancora oggi la cittadina, non più illustre, mantiene un ruolo grazie all’ Episcopato.



IL SEMINARIO VESCOVILE DI MILETO
(di Giuseppe Calzone  )

1.1  IL SEMINARIO NELLA MILETO ANTICA
Il Concilio di Trento nell’anno 1563 stabilì che in tutte le diocesi venisse fondato un “perpetuum  Seminarium” per  provvedere alla formazione culturale e spirituale dei giovani che aspiravano a diventare sacerdoti. Ma già prima di tale decisione , e precisamente nel 1438, il vescovo di Mileto,Antonio Sorbilli, aveva ottenuto dal Papa Eugenio IV la fondazione  di una “Scuola di chierici secolari” che ha anticipato l’istituzione dei   Seminari in Italia ; in essa vi erano due insegnanti : uno di grammatica e l’altro di canto sacro come risulta dalle relazioni di visite Ad limina fatte periodicamente dai vescovi  di Mileto alla Santa Sede.
Formalmente il Seminario di Mileto venne istituito dal vescovo Mons. Marco Antonio del Tufo nel 1587. Tutti i vescovi successivi ( Centini,1631-1639; Paravicino 1681-1695; Filomarini ,1734-1756;Carafa,1756-1783)  si occuparono dell’ampliamento e potenziamento del seminario che inizialmente era modesto per mancanza di risorse finanziarie.Già all’epoca del vescovo Carafa, secondo il Napolione , il Seminario poteva “gareggiare co’ i migliori Seminarij del nostro Regno”.
Le scuole di grammatica erano due, due di lingua latina,una di umanità; si studiava geometria e aritmetica,etica e diritto naturale,il catechismo romano, la teologia dommatica e morale. Il Maestro di Cappella  assieme al canto Gregoriano e di Palestrina  insegnava a suonare il cembalo.Si tenevano lezioni di oratoria sacra e di Istituzioni canoniche.Il seminario oltre che dai seminaristi era frequentato da esterni e dai convittori e contava nel 1759 oltre 70 alunni.
Il Seminario fu temporaneamente chiuso dopo il terremoto del 1783 che distrusse  Mileto antica e tanti altri paesi della Calabria , ma subito si progettò la sua ricostruzione nella nuova Mileto.

  
IL SEMINARIO  NELLA NUOVA MILETO
      IL SEMINARIO SOCCORSALE

Il primo vescovo della nuova Mileto, Mons. Enrico Capece Minutolo (1792-1824) ampliò il ricostruito edificio del Seminario . Sopraggiunse poi il dominio dei francesi che proprio nella battaglia  di Mileto ( 1807) sconfissero i Borboni e mantennero per un decennio il controllo della Regione ( 1805-1816) . Il vescovo  si allontanò dalla sede  ed il seminario venne usato come alloggio dei militari.
 Fu riaperto nel 1820 con 80 alunni che aumentarono con i vescovi successivi Armentano (1824-1846) e Mincione   (1847-1882).
Quest’ultimo vescovo   fece edificare  davanti la Cattedrale un secondo seminario detto “ausiliare o soccorsale”, essendo il primo diventato insufficiente a contenere tutti gli alunni ( la costruzione andò avanti dal 1854 al 1860) . Nel periodo successivo all’unità d’Italia (1866-1881) il Vescovo Mincione non volle accettare le norme scolastiche della legge Casati che estendeva al resto della nazione il sistema scolastico piemontese e  il Seminario principale fu  requisito dal Governo Nazionale per far alloggiare le truppe di passaggio. Continuò a funzionare per i chierici già avviati alle scienze sacre il Seminario Soccorsale con il nome di “Convitto S.Giuseppe” dichiarato di proprietà esclusiva del vescovo Mincione.
Il vescovo successivo Mons. Carvelli (1882-1888)riattivò  il seminario principale ampliandolo . Nel 1883-84 il seminario ospitava 108 seminaristi più 20 esterni.
Si può affermare che per tutto il ‘700 e per la maggior parte dell’800 le uniche scuole secondarie presenti nel comprensorio della Diocesi di Mileto, che andava da Nicastro a Palmi, erano il vecchio Seminario di Mileto ed il Collegio di Monteleone ( prima dei Padri Gesuiti e poi dei Basiliani).
Altro potenziamento il seminario ebbe con il Vescovo De Lorenzo (1889-1898) mentre il vescovo Giuseppe Morabito  dovette ricostruirlo dopo i terremoti del 1905 e del 1908 che produssero danni e morti.Anzi Mons.Morabito fece istituire  nel seminario un osservatorio simico e meteorologico ; la sua attività però non fu lunga poiché venne chiuso negli anni ‘20.
Nel frattempo era in funzione nella splendida insenatura marina di S. Irene di Briatico il Seminario estivo e, nei pressi del bivio di Nao di Ionadi sulla S.S.18, era stato realizzato un altro edificio ecclesiastico originariamente adibito a sanatorio.
Il vescovo Paolo Albera  (1924-1943) completò la ricostruzione del Seminario e fece costruire l’attuale Chiesa Cattedrale poiché quella realizzata dal vescovo Mincione era stata danneggiata dal terremoto. Il vescovo Nicodemo, succedutogli nell’Episcopato (1945-1952), fece eseguire altri ampliamenti del seminario.
Si arriva quindi ai nostri giorni al vescovo Mons. De Chiara (1953-1959) che realizzò  alcune ristrutturazioni, anche se la sua opera s’incentrò sull’azione pastorale. 
Già da anni (1928) l’insegnamento elementare nelle scuole statali era divenuto obbligatorio, e nel 1942 era stata istituita la scuola media statale (a Mileto aperta  nel 1951), per cui si è registrato un calo della domanda d’istruzione rivolta ai Seminari vescovili. I seminaristi e gli alunni esterni diminuirono sensibilmente. 
I seminaristi iscritti sono attualmente 20 e frequentano le scuole pubbliche di Mileto.

1.3  Il SEMINARIO ED IL COMPLESSO MONUMENTALE DELLA  CATTEDRALE:   OGGI
Alcuni  vescovi, oltre a svolgere le funzioni pastorali proprie e a  provvedere alla cura spirituale della Diocesi, si sono particolarmente distinti nella costruzione e nel potenziamento del patrimonio edilizio diocesano ed in particolare del Seminario e del complesso monumentale annesso alla Cattedrale di Mileto.
Tra essi si evidenzia <il> Vescovo attuale, Mons. Domenico Tarcisio Cortese che insediatosi nel 1979,  pur in una fase difficile che ha comportato  tagli del territorio della Diocesi (sono state scorporate nel 1979 le parrocchie poste in Provincia di Reggio Calabria e accorpate nel 1986 le Diocesi di Mileto, Nicotera e Tropea), ha completamente restaurato e ristrutturato gli edifici ecclesiastici miletesi rendendoli più rispondenti alle nuove esigenze ed ha valorizzato, incrementandoli e tutelandoli, i beni artistici, storici e culturali di Mileto  .
Nel seminario , ove oltre ai seminaristi , è  ospitato l’Istituto tecnico Commerciale statale , è stata restaurata e ristrutturata tutta l’ala sud , che contiene fra l’altro la Cappella, le cucine, il refettorio e la grande sala delle conferenze intitolata al vescovo Mons. Vincenzo De Chiara.
Altra importante ricostruzione è stata quella del vecchio Seminario Soccorsale ( Seminario teologico S.Giuseppe) che è stato riportato in altezza alle originarie dimensioni ( due piani), completamente ristrutturato e parzialmente adibito ad uffici diocesani. Qui , all’incrocio tra via Piperno e via Duomo, nel 1927 Mons. Francesco Pititto inaugurò un piccolo teatro per il seminario diocesano, teatro successivamente concesso in affitto a privati per essere adibito a Cinema fino agli anni ‘70.
L’ala dell’Episcopio che prospetta sulla S.S. N. 18 è stata ricostruita per accogliere l’Archivo Storico Diocesano e il  Museo Statale, quest’ultimo anche grazie ad un accordo con il Ministero dei Beni Culturali e con gli enti locali (Comune e Provincia) . Importanti  interventi e restauri sono stati fatti eseguire dal Vescovo Mons. Cortese sulla Cattedrale, che è stata abbellita e arricchita di opere d’arte, di porte e statue di bronzo.



La  tomba  del  Re

LA SEPOLTURA DI CONTE RUGGERO
Autorizzato il trasferimento del sarcofago da Napoli a Mileto
(di Giuseppe Calzone)
L’aspirazione di far tornare in Calabria la tomba del gran conte Ruggero, è stata coltivata fin dalla istituzione del Museo Statale di Mileto avvenuta il 6 giugno del 1991. Finalmente il sogno si è avverato perché il Ministero per i Beni culturali ed ambientali ha autorizzato il Museo Nazionale di Napoli, che custodisce il sarcofago, a darlo in prestito al Museo di Mileto, funzionante dal mese di agosto del 1997. Ci auguriamo che il monumento possa rimanere definitivamente a Mileto, certi che questa fosse la volontà di Ruggero I. Il re normanno, esalato l’ultimo respiro con il conforto di San Bruno, volle essere seppellito qui, dove aveva costruito le fortune del regno, poi trasmesso al figlio Ruggero II (G. Occhiato, La Trinità di Mileto nel romanico italiano, 1994).
Rocco Pirro nella sua Cronologia dei re della Sicilia, edita a Palermo nel 1643, ci tramanda il seguente epitaffio del conte Ruggero : Linques terrenas migravit dux ad amoenas - Rogerius sedes, nunc coeli detinet aedes (Il duce Ruggero lasciando le terrene migrò verso le dimore amene, ora occupa le sedi del cielo). La sepoltura del conte Ruggero è stata l’unica tra quelle dei fratelli Altavilla a conservarsi. La storica dell’arte Lucia Faedo, in uno scritto pubblicato a Pisa nel 1983 nella rivista " Aparxai " Nuove ricerche e studi sulla magna Grecia", dal titolo " La sepoltura di Ruggero, Conte di Calabria", descrive e ricostruisce le vicende storiche e le caratteristiche architettoniche della tomba. La sepoltura è costituita da un sarcofago in marmo bianco di età romana del III sec. d.C. - sennonché una iscrizione, riportata dall’Abate Pacichelli nel 1690, afferma che essa fu realizzata da un marmoraro romano del XII sec. di nome Petrus Oderisius ; l’iscrizione è confermata dal Calcagni e dal Cimaglia. A questo punto Lucia Faedo si chiede : " Se il sarcofago romano è databile al III sec. dopo Cristo, com’è è possibile che la tomba sia stata realizzata da un marmoraro romano del XII secolo? ". Da questo interrogativo prende avvio una ricostruzione che, passo dopo passo, ci spiega l’enigma.
Ma veniamo alla descrizione del sarcofago (v. Maria Teresa Iannelli in " Beni culturali a Mileto di Calabria" ; di Autori vari, Ed. Barbaro, Oppido M., 1982). Esso è di marmo bianco, strigilato, cioè inciso con scanalature a forma di onde disposte in senso verticale. E’ lungo metri 2,40, largo cm. 92 ed alto metri 1,91. E’ decorato su tre lati, essendo per il quarto lato appoggiato al muro della navata destra della Chiesa abbaziale della SS Trinità. Fu riscolpito sui due lati stretti con la trasformazione in croci dei visi di due Gorgoni (volto di donna e capelli a forma di serpenti). In mezzo al pannello centrale vi è scolpita una porta a due battenti, con il battente destro socchiuso che sta a simboleggiare il passaggio del defunto al mondo dei morti. E’ sormontato agli angoli da due busti, pure in marmo, privi di testa di cui quello di destra, maschile, tiene un rotolo nella mano sinistra ; il busto di sinistra è invece femminile. Secondo la Faedo il sarcofago è unico nel suo genere ed apparteneva ad un magistrato romano insignito di due onorificenze (vi è scolpita una sedia curule con due corone di alloro). Il Conte Ruggero, che morì a Mileto il 22 giugno del 1101, si fece seppellire in questo sarcofago romano, secondo un’ usanza che si affermò durante il medioevo, per cui il riutilizzo di antiche sepolture era indice di prestigio.
Andiamo adesso alla soluzione del mistero e cioè del perché, pur essendo il sarcofago del III sec. d.C., il monumento funebre recasse la firma di un marmoraro romano del XII secolo. La Faedo con un esame puntiglioso delle tombe normanne, evidenzia le affinità tra la tomba di Mileto, appartenente al conte Ruggero e quella di Palermo, ove fu sepolto l’imperatore Federico II di Svevia. Quest’ultima è composta da un sarcofago in porfido con baldacchino sorretto da colonne anch’esse in porfido.
Com’era, dunque, la sepoltura del conte Ruggero ? Essa era formata dal sarcofago romano, posto su un basamento di marmo e sormontato da un baldacchino sorretto, presumibilmente, da tre colonne in porfido. La copertura ad edicola richiamava i cibori (baldacchini) degli altari, proprio per rimarcare la sacralità della tomba.
Cosa resta di quel baldacchino ? Rimane un pezzo di architrave in porfido, che si trova in una Chiesa di Nicotera, utilizzato come gradino d’altare. Qui vi è giunto dopo il terremoto del 1659, quando i marmi e le cose di pregio appartenuti alla Chiesa della Trinità vennero dispersi o venduti, come risulta dalle " Notizie degli scavi " del 1882. L’architrave è decorato da tre maschere col volto umano. Una posta ad angolo, con barba, baffi e occhi a mandorla spalancati. Le altre due maschere sono giovanili: naso largo e appuntito, bocca piccola e acconciature dei capelli diverse tra loro. I soggetti di questa decorazione sono in tutto simili alle maschere scolpite sul baldacchino della tomba di Federico II a Palermo.
Palermo: tombe nella CattedraleAnche le dimensioni dell’architrave di Nicotera e del baldacchino di Palermo appaiono identiche (il primo che è un frammento, corrisponde alla metà del secondo) Da ciò ne deriva che la sepoltura di Mileto appartiene alla stessa tipologia normanna (XII sec.) di quella di Palermo. anche se non si può affermare che le due tombe appartengono allo stesso Petrus Oderisius. Il problema della non corrispondenza dell’epoca di costruzione delle tombe rispetto alla data di utilizzazione (Federico II morì nel 1272, Ruggero I morì nel 1101) è stato affrontato dagli studiosi Deer e Swarz, i quali hanno ipotizzato che il sarcofago che custodisce Federico II sia stato fatto costruire da Ruggero II (morto nel 1154) il quale non lo utilizzò per sé ma, a causa di una controversia, lo donò alla chiesa di Cefalù. Questa successivamente lo diede a Federico II, che lo utilizzò per la propria sepoltura. Mentre il monumento di conte Ruggero fu commissionato al marmoraro romano Petrus Oderisius dalla moglie del conte, Adelasia, oppure dal figlio Ruggero II ; non si sa se immediatamente dopo la sua morte o intorno al 1145.
Secondo lo studioso Deer, le sepolture normanne erano " un monumento autoritario di glorificazione laica ", ed in questa ottica va visto anche l’uso del porfido che, nel monumento di Ruggero I di Calabria,afferma la nuova regalità normanna, mediante il richiamo a una tradizione che risale all’età ellenistica, tradizione che fu fatta propria dagli imperatori di Roma, di Bisanzio e dal Papato, e che attribuisce al porfido, grazie al colore purpureo, una precisa connotazione regale" (Lucia Faedo op. citata). Diversi frammenti di porfido sono stati rinvenuti anche durante il breve lavoro di pulitura del perimetro interno della chiesa abbaziale fatto nel mese di novembre dell’anno 1999.
Attendiamo, quindi, che questo pezzo, unico, secondo gli studiosi della materia, ritorni a Mileto per la gioia della gente, degli studiosi calabresi e di quanti si sono adoperati per farlo ritornare.



CONVEGNO SUGLI SCAVI ARCHEOLOGICI

Primi risultati incoraggianti
(di Giuseppe Calzone)
Ha sgranato gli occhi il prof. Paolo Peduto quando i suoi studenti dell’Università di Salerno dallo scavo sotto l’abside sud dell’Abbazia della Trinità hanno tirato fuori un centinaio di frammenti di vetro di varie forme. Solo un archeologo a prima vista avrebbe potuto accorgersi che si trattava di vetro,tanto pessimo era lo stato di conservazione; oggi però, quei frammenti ancora non restaurati,ci parlano e ci dicono che in Calabria, a Mileto, possediamo la collezione di vetri dell’XI secolo più ricca mai scoperta in tutta Europa. Sono queste le parole del Prof. Peduto, che nell’autunno del 1995 con un modesto finanziamento della Sovrintendenza Archeologica di Reggio Calabria ha condotto gli scavi a Mileto Vecchia. Entusiasta della scoperta è anche la dott.ssa Maria Teresa Iannelli, Direttore Archeologo della Sovrintendenza archeologica che, fra l’altro, ha il merito di dirigere con competenza il Museo di Vibo Valentia con l’annesso laboratorio di restauro. A Mileto, ci dice la dott.ssa Iannelli, sia pure con una campagna di scavi brevissima, abbiamo voluto dare un indirizzo metodologico su come condurre gli scavi, servendoci anzitutto di un archeologo competente, che ha proceduto allo scavo stratigrafico del terreno ottenendo risultati importanti. 
Occorre puntare prima di tutto sulla conoscenza del sito di Mileto perchè il difficile non è progettare parchi archeologici, tutti sappiamo realizzare praticelli recintati per attirare l’attenzione dei turisti, ma è più impegnativa la ricerca e lo scavo; i parchi archeologici devono venire dopo la conoscenza scientifica. Non dobbiamo preoccuparci di attirare solo i turisti ma dobbiamo, attraverso una conoscenza approfondita, consegnare il patrimonio archeologico miletese, prima di tutto alla comunità locale e poi a quella regionale e nazionale. Abbiamo dimostrato a Mileto che anche con pochi fondi si possono fare tante cose. La spesa complessiva è stata di circa 40 milioni,di cui trenta milioni per uno scavo durato 6 settimane e 10 milioni per l’aerofotogrammetria. Allo scavo hanno lavorato cinque operai ai quali si sono aggiunti gli studenti e i collaboratori del Prof. Peduto, che hanno consentito di prolungare appunto a sei settimane uno scavo che sarebbe dovuto durare appena 4 settimane. La dott.ssa Iannelli ha poi precisato che occorre l’impegno finanziario di altri Enti poichè la Sovrintendenza archeologica non può garantire interventi costanti per Mileto ed ha informato che la Regione Calabria ha staziato 150 milioni. Per l’anno in corso, gli scavi potranno proseguire grazie ad un finanziamento dell’Amministrazione provinciale di Vibo Valentia, così come ha comunicato l’Assessore provinciale ai beni culturali dott.ssa Concettina Di Gesu. Mileto - ha detto la dott.ssa Di Gesu - è stata inserita tra i Comuni a rilevanza turistica della Provincia di Vibo e grazie alla valorizzazione del suo patrimonio culturale potrà ricavare dei benefici economici per l’afflusso di turisti. Purtroppo la Regione ha respinto le schede POP presentate quest’anno dalla Provincia di Vibo Valentia per i beni culturali. Facendo riferimento ai turisti il prof. Peduto ha precisato che per incrementare il turismo non bisogna distruggere il paese danneggiando l’ambiente ed il territorio, così come accade in alcune zone costiere della Calabria. Quindi, tornando all’oggetto del convegno, ha precisato che al momento degli scavi aveva assunto l’impegno di tornare a Mileto per informare la cittadinanza delle scoperte fatte. Quindi, con l’aiuto di una lavagna luminosa, grafici e diapositive ha illustrato i reperti portati alla luce e la loro importanza. E’ stata poi la volta dei suoi collaboratori e del dott. Santoro il quale, servendosi di computer e della tecnologia digitale, ha proiettato i rilievi aerofotogrammetrici, delineando le mappe tridimensionali del sito archeologico con l’ubicazione dell’abazia della trinità e dell’annesso convento.
Per effettuare i saggi l’equipe del Prof. Peduto si è servita di uno studio del prof. Giuseppe Occhiato sulla Chiesa Abbaziale della trinità di Mileto. I risultati di maggiore rilievo emersi riguardano i frammenti di vetro appartenenti alle vetrate originali dell’ Abbazia distrutta dai terremoti del 1659 e del 1783. Si tratta per lo più di piccole lastre rettangolari,ma non mancano lunette e forme arrotondate con uno spessore di circa 4 mm. Esse sono decorate con una sottile grisaglia nera e bianca, destinate ad essere montate con listelli di piombo che sono stati trovati accartocciati nello scavo. Le decorazioni raffigurano motivi geometrici, con alternanza di strisce e globetti, linee dritte ed onde, motivi floreali stilizzati, disegni comuni fino alle produzioni del XIII secolo. Una piccola lastra di colore ametista ha attirato l’attenzione: vi sono pitturati i contorni di un viso in forme molto accurate (un occhio, il naso, le arcate sopraciliari, i riccioli) le fattezze richiamano motivi pittorici riferibili alla metà del XII secolo. Questi materiali rinvenuti a Mileto sono importanti perchè sono tra le più antiche attestazioni di vetro dipinto in Italia e per essi gli archeologi americani, inglesi e francesi hanno mostrato un vivo interesse. Altri materiali rinvenuti sono costituiti da frammenti di ceramica, più comuni rispetto al vetro che, per le sue caratteristiche e la sua fragilità non è facile da trovare negli scavi. Le ceramiche di Mileto sono databili intorno al XIII secolo. Si tratta sia di ceramiche invetriate (o vetrine piombifere) che di protomaioliche,tutte - a dire del prof. Peduto - di altissimo livello tecnico. A questo secondo tipo appartiene un frammento raffigurante un cavaliere (la figura è priva del busto) con cavallo avente un piede in una staffa, di colore blu. I cavalieri normanni usavano appunto la staffa. La ceramica sarebbe stata prodotta in Sicilia e attesterebbe i fitti scambi commerciali che intercorrevano tra la capitale del regno normanno e l’isola. L’interessante convegno che ha dato conto degli scavi è stato organizzato dalla Pro loco, dall’Accademia Milesia e dal giornale L’artiglio, con il patrocinio del Comune di Mileto.



STUDI PUBBLICATI SU MENSILE “VIBO PROVINCIA”
numero monografico “Mileto e la contea melitana“ dedicato al nono centenario della morte di Ruggero I d’Altavilla, Gran Conte di Calabria e Sicilia. (Vibo Provincia –mensile della Provincia di Vibo Valentia, Anno VI- 11 DIC. 2002, a Cura di F. Galante, F.Gangemi , F. Ramondino stampato da Mapograf, Vibo Valentia). IL FRAMMENTO SCULTOREO DELL'ABBAZIA RUGGERIANA DI BAGNARA. I CAPITELLI DI CALANNA E DI MILANESI



LA TOMBA DEL GRAN CONTE RUGGERO
La tomba del Gran Conte Ruggero
GIUSEPPE CALZONE
Il sarcofago del Gran Conte Ruggero continua ad attirare su di sé l’attenzione di molti se è vero che, dopo il mancato trasferimento al Museo Statale di Mileto da quello Nazionale di Napoli dov’ è custodito, si sono moltiplicate le richieste delle Autorità locali (Amministra-zione Provinciale di Vibo Valentia, Comune di Mileto, Episcopato) e le raccolte di firme dei cittadini per poter-lo riportare a Mileto, nella sua sede naturale. Sede naturale in quanto fu Ruggero I, morto a Mileto il 22 giugno del 1101, che dettò disposizioni di essere seppellito nell’abbazia benedettina della SS. Trinità. Nel museo di Mileto si trova il sarcofago della ^ moglie di Ruggero, Eremburga, pervenuto da Napoli fin dal 1998. In alcune fonti abbaziali (primo quarto del XVII sec.) si parla poi di un terzo sarcofago nel quale sarebbe stato sepolto un figlio (o figli) del Conte a lui premorto, una sorta di ara romana (“pilae more romano”); di quest’ultimo non se ne seppe più nulla subito dopo il terremoto e le parziali distruzioni della Chiesa abbaziale del 1659.
Ma l’interesse storico, artistico e affettivo per il prestigioso mausoleo di Ruggero I segue in ordine di tempo l’interesse scientifico degli storici dell’arte che via via negli anni hanno enucleato alcuni problemi sui sarcofa- gi che possono essere così semplificati: da dove provenivano? Chi vi era sepolto (interrogativo posto per il sarcofago di Eremburga e l’altro minore)? Chi ha trasformato la tomba di Ruggero in sepoltura della tipologia a baldacchino e quando? Chi è stato il committente dell’opera: la vedova del conte, Adelaide, il figlio Ruggero II, la stessa Abbazia della Trinità o la corte Angionina di Napoli?
Questo scritto non affronterà, se non in minima parte, questi problemi che sono molto complessi, proponendosi solamente di dare un’informativa sulle questioni che vengono agitate.
Per quanto concerne la provenienza dei sarcofagi, è condivisa dalla maggior parte degli esperti l’opinione che essi provenivano da Ostia o Roma (qualcuno parla di origine campana) poiché dalle rovine romane furono tratti molti sarcofagi riutilizzati in numerose città d’Italia (Genova, Firenze, Cagliari, Amalfi, Messina ecc.). Mentre sappiamo che provenivano dall’antica Hippo- nion molti materiali di spoglio (colonne, capitelli, sculture) usati nell’XI sec. per abbellire l’Abbazia e la Cattedrale normanne di Mileto.
Di recente si sono occupati del sarcofago di Ruggero I, Giuseppe Occhiato e Marilisa Morrone Naymo che hanno pubblicato i loro scritti nel Catalogo stampato da Rubbettino in occasione della mostra su Ruggero 1 e la Provincia Miletana (ancora in corso).
Molti altri studiosi hanno però scritto sull’argomento che, per le problematiche accennate, possiede un indubbio fascino, anche perché la sepoltura del conte Ruggero è stata l’unica tra quelle dei fratelli Altavilla a conservarsi.
L’epitaffio inciso sulla tomba del conte Ruggero ci viene tramandato da Rocco Pirro nella sua Cronologia dei re della Sicilia, edita a Palermo nel 1643 ed è del seguente tenore: Linquea terrenas rnigravit dux ad amoenas ? Rogerius sedes, nunc coeli detinet nedes
(Il duce Ruggero lasciando le terrene migrò verso le dimore amene, ora occupa le sedi del cielo).
Sappiamo che le epigrafi erano tre di cui le due più piccole erano riportate alle spalle del sarcofago di Ruggero I sopra un tondo di marmo all’esterno del quale a mo’ di croce vi erano le parole: Rogerii Comitis Ca- labriae et Siciliae. In queste scritte vi era il riferimento al costruttore: Hanc sepulturam fecit Petrus Ode- risius La terza iscrizione probabilmente apposta nel 1699 era più lunga e si trovava sul basamento del sarcofago. Le epigrafi furono riportate dal vicario abbaziale Diego Calcagni, dotto gesuita, nella sua “Historia Crononogica brevis” del- l’Abbazia.
Importante sull’argomento è uno scritto di Lucia Faedo, pubblicato a Pisa nel 1983 nella rivista “ Aparxai “ Nuove ricerche e studi sulla magna Grecia”, dal titolo “ La sepoltura di Ruggero, Conte di Calabria”. In questo suo studio la Faedo descrive e ricostruisce le vicende storiche e le caratteristiche archi- tettoniche della tomba. La sepoltura è costituita da un sarcofago di marmo bianco di età romana del III sec. d.C. - sennonché un’iscrizione, riportata dall’Abate Pacichelli nel 1690, afferma che essa fu realizzata da un marmoraro romano del XII sec. di nome Petrus Oderisius; l’iscrizione è confermata dall’abate Diego Calcagni (“Historia cronologica brevis” dell’abbazia) e da Maria
Natale Cimaglia (celebre avvocato pugliese che descrisse il sarcofago per motivi professionali nelle liti tra il regio fisco, l’Abbazia, il Vescovato di Mileto - di cui era difensore- e il Collegio Greco di Roma).
A questo punto Lucia Faedo si chiede: “Se il sarcofago romano è databile al III sec. dopo Cristo, com’ò possibile che la tomba sia stata realizzata da un marmoraro romano del XII secolo?”. Da questo interrogativo prende avvio una ricostruzione che, passo dopo passo, ci spiega l’enigma. Ma veniamo alla descrizione del sarcofago. Esso è di marmo bianco, strigilato, cioè inciso con scanalature ondeggianti disposte in senso verticale. E lungo metri 2,40, largo cm. 92 ed alto metri 1,91. È decorato su tre lati, essendo stato -per il quarto lato- appoggiato al muro della navata destra della Chiesa abbaziale della SS Trinità. Fu riscolpito sui due lati stretti con la trasformazione in croci dei visi di due Gorgoni (volto di donna e capelli a forma di serpenti). In mezzo al pannello centrale vi è scolpita una porta a due battenti, con il battente destro socchiuso che sta a simboleggiare il passaggio del defunto al mondo dei morti. È sormontato agli angoli da due busti, pure in marmo, privi di testa di cui quello di destra, maschile, tiene un rotolo nella mano sinistra; il busto di sinistra è invece femminile. Secondo la Faedo il sarcofago è unico nel suo genere ed apparteneva ad un magistrato romano insignito di due onorificenze (vi è scolpita una sedia curule con due corone di alloro). Il Conte Ruggero, che morì a Mileto il 22 giugno del 1101, si fece seppellire in questo sarcofago romano, secondo un’usanza che si affermò durante il medioevo, per cui il riutilizzo di antiche sepolture era indice di prestigio. Alle spalle del mausoleo vi erano appese le sue armi che, secondo notizie tratte da un manoscritto barberiano del 600, furono prelevate dal cardinale romano Andrea Della Valle, famoso collezionista, all’epoca in cui fu abate commendatario dell’Abbazia di Mileto. Andiamo adesso alla soluzione del mistero e cioè del perché, pur essen
do il sarcofago del III sec. d.C., il monumento funebre recasse la firma di un marmoraro romano del XII secolo. La Faedo con un esame puntiglioso delle tombe normanne, evidenzia le affinità tra la tomba di Mileto, appartenente al conte Ruggero e quella di Palermo, ove fu sepolto l’imperatore Federico II di Svevia. Quest’ultima è composta da un sarcofago in porfido con baldacchino sorretto da colonne anch’esse in porfido.
Com’era, dunque, la sepoltura del conte Ruggero? Essa era formata dal sarcofago romano, posto su un basamento di marmo e sormontato da un baldacchino sorretto, presumibilmente, da tre colonne in porfido. La copertura ad edicola richiamava i cibori (baldacchini) degli altari, proprio per rimarcare la sacralità della tomba.
Cosa resta di quel baldacchino? Rimane un pezzo di architrave in porfido, che si trova nel Duomo di Nico- tera, utilizzato come gradino d’altare. Qui vi è giunto dopo il terremoto del 1659, quando i marmi e le cose di pregio appartenuti alla Chiesa della Trinità vennero dispersi o venduti, come risulta dalle “Notizie degli scavi” del 1882. L’architrave è decorato da tre maschere col volto umano. Una posta ad angolo, con barba, baffi e occhi a mandorla spalancati. Le altre due maschere sono giovanili: naso largo e appuntito, bocca piccola e acconciature dei capelli diverse tra loro. I soggetti di questa decorazione sono in tutto simili alle maschere scolpite sul baldacchino della tomba di Federico II a Palermo. Anche le dimensioni dell’architrave di Nicotera e del baldacchino di Palermo appaiono identiche
(il primo che è un frammento, corrisponde alla metà del secondo) Da ciò ne deriva che la sepoltura di Mileto appartiene alla stessa tipologia normanna (XII sec.) di quella di Palermo, anche se non si può affermare che le due tombe appartengono allo stesso Petrus Oderisius.
Il problema della non corrispondenza dell’epoca di costruzione delle tombe rispetto alla data di utilizzazione (Federico II morì nel 1272, Ruggero I morì nel 1101) è stato affrontato dagli studiosi Deer e Swarz, i quali hanno ipotizzato che il sarcofago che custodisce Federico
II fosse stato commissionato da Ruggero II (morto nel 1154) il quale non lo utilizzò per sé ma, a causa di una controversia, lo donò alla chiesa di Cefalù. Questa successivamente
lo diede a Federico II, che lo utilizzò per la propria sepoltura. Mentre il
monumento di conte Ruggero fu commissionato al marmoraro romano Petrus Oderisius dalla moglie del conte, Adelasia, oppure dal figlio Ruggero II; non si sa se immediatamente dopo la sua morte o intorno al 1145.
La studiosa Marilisa Morrone sulla datazione del sarcofago del Conte Ruggero concorda con Lucia Faedo (prima metà del XII sec.) e contrasta, invece, con l’ipotesi formulata dal Claussen il quale sostiene che il Petrus Oderisius di Mileto (appartenente alla nota famiglia di marmorari romani detti Cosmati) è lo stesso che nel XIII sec. ha realizzato la tomba di Edoardo il Confessore a Westminster (Londra) e di Clemente IV a Viterbo (m. nel 1268).
Il dibattito in corso è illuminante per capire a quale livello artistico si era rivolta la committenza per realizzare il monumento; basti pensare che Pietro Oderisio era socio del famoso scultore Arnolfo di Cambio attivo nei centri artistici più importanti d’Italia e d’Europa.
La Morrone nello scritto citato “Riuso dell’antico nei monumenti ruggeriani in Mileto” conferma anche la ricostruzione della tomba di Ruggero ed apporta un nuovo elemento: l’immagine di una tomba in una miniatura dell’opera di Pietro da Eboli: “Liber ad honorem Augusti scritto su incarico dell’imperatore Enrico VI nel 1197 (dal Codice bernese n. 120). Essa spiega che la tomba con il re giacente del codice bernense pur portando l’iscrizione di tomba di Ruggero lì appartiene a suo padre, Ruggero I, sia per la corona che non è regale ma ducale o comitale, che per il titolo dato al Gran Conte Ruggero, definito re anche nella planimetria dell’Abbazia di Mileto e in altre fonti. In verità sappiamo che era feudatario del fratello Roberto il Guiscardo. E soprattutto per la tipologia (tomba con strigilature e baldacchino) essendo questa tomba del tutto diversa da quella di Ruggero II che si trova nella Cattedrale di Palermo ed è costituita da un’urna in porfido, su cui successivamente è stato eretto un baldacchino.
La Morrone esclude che possa essere stato il Pietro Oderisio del XIII secolo-socio di Arnolfo di Cambio nel ciborio di S. Paolo a Roma- a realizzare il mausoleo di Ruggero I e propende per un’altra versione già data dalla Faedo e cioè che a compiere l’opera sarebbe stato un suo omonimo, appartenente alla stessa famiglia, vissuto prima. Anche perché nel XIII secolo, secondo la studiosa, l’Abbazia di Mileto era in fase di decadenza;non vi era più la corte normanna; non esisteva in poche parole una committenza tanto potente da potersi permettere un artista di così alto livello. Ma tale tesi non è condivisa da Giovanni Pititto, studioso delle fonti diplomatiche e dell’Archivio abbaziale della Trinità di Mileto, secondo il quale dall’esame delle fonti risulta che sul finire del XIII secolo l’Abbazia ha vissuto un periodo di vera rinascita e di floridezza economica quale soggetto feudale attivo, al punto da potersi permettere la realizzazione del monumento quale sugello e testimonianza della ritrovata potenza (i regesti abbaziali trascritti dal Pititto dovrebbero apparire a breve). A proposito, pure dal Pititto ci viene l’indicazione che la lastra tombale murata alle spalle del pulpito, nella Cattedrale di Mileto, apparteneva ad un Abate della Trinità del XIII secolo.
Sarebbe pertanto da verificare la tesi del tedesco Claussen secondo il quale l’Abbazia, vedendosi minacciata nei propri diritti dal Vescovo di Mileto, volle riaffermare la fondazione regia del monastero con la realizzazione dello splendido monumento al suo fondatore Ruggero I. Quale fosse il significato delle sepolture normanne ci viene detto dallo studioso Deer secondo il quale esse erano “un monumento autoritario di glorificazione laica”. In questa ottica va visto anche l’uso del porfido che, nel monumento di Ruggero I di Calabria (ma anche in quello di Ruggero II a Palermo),afferma la nuova regalità normanna, mediante il richiamo a una tradizione che risale all’età ellenistica, tradizione che fu fatta propria dagli imperatori di Roma, di Bisanzio e dal Papato, e che attribuisce al porfido, grazie al colo-re purpureo, una precisa connota-zione regale” (Lucia Faedo op. cita-ta). Diversi frammenti di porfido so-no stati rinvenuti anche durante il breve lavoro di pulitura e negli scavi della chiesa abbaziale di Mileto 
(1995 e 1999) e si trovano oggi esposti nel museo statale.
Purtroppo, la tomba del Gran Conte Ruggero non è stata restituita a Mi-leto, e chi sa se mai lo sarà! Un risultato, comunque, questo dibattito sul monumento lo ha ottenuto ed è stato quello di farlo portare al ripa-ro rimuovendolo dal cortile dove si trovava presso il Museo Nazionale di Napoli.
Il nostro auspicio, però, è che i diri-genti di quel Museo, sensibili alle motivazioni storiche, giuridiche, ar-tistiche e morali della richiesta, vo-gliano accoglierla e consentano il ri-torno del sarcofago del Gran Conte Ruggero a Mileto.
Bibliografia essenziale
AA.W., Beni culturali a Mileto di Calabria, Ed. Barbaro, Oppido M., 1982.
L. Faedo, La sepoltura di Ruggero, conte di Calabria in APARXAI, “Nuove ricerche e studi sulla Magna Grecia ...” Pisa 1983, pp. 691-706.
P.C. Claussen, Magistri doctissimi romani, (Corpus Cosmatorum I) Sturt- gart 1987.
M. Morrone, Riuso dell’antico nei monumenti ruggeriani in Catalogo “Ruggero I e la Provincia Miletana”, a cura di Giuseppe Occhiato, Rubbettino 2001.
G. Occhiato, Vicende dei sarcofagi Mile- tesi in Catalogo “Ruggero I e la Provincia Miletana”, a cura di Giuseppe Occhiato, Rubbettino 2001.
G. Occhiato, La Trinità di Mileto nel romanico italiano Progetto Editoriale 2000, Cosenza 1994.
P. Pensabene, Contributo per una ricerca sul reimpiego e il “recupero” dell’antico nel medioevo. Il reimpiego nell’architettura normanna. In “Rivista dell’istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte”, serie III, 1990, pp. 5-138.
Sito Internet: omceow.it/storia_normanni.



Sull’interpretazione di un luogo di Cicerone 
(Lett. ad Attico 3.4)

(di Guido Carugno)

Nel febbraio del 58 fu promulgata la lex Clodia de capite civis Romani    (che mandava Cicerone in esilio - n.d.r.) (1). Cicerone, senz’ attenderne l’approvazione dei comizi tributi, nella notte del 20 marzo lasciò Roma e si diresse verso la Campania. Voleva recarsi in Epiro (ad Att. 3,1), ma poi cambiò idea e, lasciata la via Appia, si mise sulla via Popilia che conduceva a Reggio Calabria. Nei pressi di Nares Lucanee scrisse ad Attico (3,2) per informarlo del cambiato itinerario e gli dava appuntamento a Vibo Valentia; in una successiva lettera (ad Att. 3,3), spiegava all’amico che per motivi di sicurezza si era rifugiato a Vibo nella casa di Sicca. Qui Cicerone venne a conoscenza della correzione apportata da Clodio alla seconda legge che nel frattempo era stata promulgata. Partito da Vibo alla volta di Turi,per raggiungere Brindisi e quindi l’Oriente, durante il viaggio, verso il 13 di aprile, scrisse una lettera ad Attico (3,4) nella quale tra l’altro gli diceva: allata est enim nobis rogatio de pernicie mea; in qua quod correctum esse audieramus erat eiusmodi ut mihi ultra quadringenta milia liceret esse, illoc pervenire non liceret. Statim iter Brundisium versus contuli ante diem rogationis, ne et Sicca apud quem eram periret et quod Melitae esse non licebat (2). Cicerone, male informato. parla di 400 miglia. che per giunta calcola da Roma, ma in effetti egli era allontanato di 500 miglia dai confini d’Italia, come attesta Plutarco. (3). Ora, mentre Cicerone era a Vibo nel fundus Siccae (4), dovette ricevere, quantunque non ne faccia menzione nelle lettere scritte ad Attico in questo periodo, una comunicazione: da Gaio Virgilio, pretore della Sicilia, il quale gli faceva sapere, come attesta Plutarco (5), di tenersi lontano dalla sua provincia. Cicerone dovette maturare l’idea di recarsi in Sicilia durante il viaggio verso il mezzogiorno della penisola, tant’è vero che, come abbiamo ricordato, ad un certo punto non bene identificabile, invece di recarsi direttamente a Brindisi per raggiungere l’Oriente, deviò verso il Bruzio ponendosi sulla via Popilia (6). L’esule dunque, agitato da vari pensieri, depose l’idea di andare in Oriente e decise di trovare ospitalità in Sicilia, dove era pretore un suo amico. Quantunque questa decisione non emerga dalle lettere inviate ad Attico, tuttavia non c’è dubbio che le cose si siano svolte così, come del resto rilevasi sia da quanto Cicerone stesso ricorda nell’orazione pro Plancio 95, 96, sia anche dalla testimonianza di Plutarco (1.c.), il quale attribuisce all’esule il proposito di raggiungere la  Sicilia appena uscito da Roma . Ora, riprendendo il nostro ragionamento, se, come abbiamo motivo di ritenere, Cicerone, prima di scrivere questa lettera ad Attico, aveva ricevuto anche la comunicazione da Gaio Virgilio, a maggior ragione, a parte il computo della distanza dall’Italia, egli dovette rinunziare al proposito di andare in Sicilia, nella quale gli era vietato di porre i piede. Veramente, nel passo della lettera che stiamo esaminando. Cicerone non fa altra questione se non quella della distanza, ma poichè lascia intendere di recarsi in oriente, dal momento che prende la via di Brindisi, è giusto pensare che il divieto di Gaio Virgilio era già a sua conoscenza. Suppongo che Cicerone tralasci di ricordare esplicitamente il divieto del pretore di Sicilia, perchè egli è tutto rivolto con la mente alla correzione della legge del tribuno. Quando Cicerone scrive ut... illoc pervenire non liceret (7) vuole alludere alla Sicilia e non ad altro luogo;ed è anche evidente che, nelle righe seguenti della lettera, il pensiero dell’esule è rivolto ad altro e che la Sicilia, tra le considerazioni che seguono, non può essere più ricordata in quanto che l’argomento è stato già in precedenza esaurito, sia pure con la semplice valutazione della distanza. Nell’esame della lettera, non dobbiamo in questo momento perdere di vista la successione logica del pensiero di Cicerone, perchè ciò, come vedremo, ha una grande importanza ai fini della nostra dimostrazione. A questo punto, vien fatto di domandarsi: che c’entra, nel passo della lettera, il ricordo di Malta e quando mai Cicerone aveva_ manifestato il proposito di rifugiarsi in quest’isola? Se Melita fosse Malta, Cicerone avrebbe ricordato quest’isola, logicamente, accanto alla Sicilia e non dopo altre considerazioni statim iter Brundisium versus contuli... ne et Sicca apud quem eram, periet et  quod Melitae esse non licebat. Ma c’è da fare un’altra importante osservazione. Malta che, come si sa, è a sud di Pachino di circa 90 km., fu definitivamente strappata ai Cartaginesi nel 218 dal console Sempronio, il quale costrinse alla resa il presidio cartaginese agli ordini di Amilcare (8). Da allora, quel gruppo di isole fu annesso alla provincia di Sicilia ed il governo centrale, con sede nel municipio di Malta, era rappresentato da un procuratore alle dipendenze del pretore di Sicilia. In base a ciò. non può sfuggire l’impossibilità d’identificare Melita con Malta. Ai fini del divieto imposto a Cicerone dal pretore Gaio Virgilio, è evidente che dire Sicilia o Malta era perfettamente la stessa cosa, dato il rapporto di dipendenza giurisdizionale dell’isola dal pretore di Sicilia (9). Esclusa l’identificazione di Melita con Malta per gli argomenti su addotti, cerchiamo di identificare questo luogo. Suppongo che dovesse trovarsi in territorio metropolitano e lontano da Vibo, come sil rileva dal passo di    Cicerone, in cui il nome di Sicca, che era a Vibo, è posto accanto alla menzione di Melita (ne et Sicca, apud quem eram periret, et quod Melitae esse non licebat). Ora, nei pressi di Monteleone esiste un paese chiamato Mileto, sulle cui rovine Ruggiero il Normanno nel 1058 fece costruire una cittadina nella quale stabilì la sua corte (10). Questa località è vicina all’antico Hipponio, che sovrastava all’ Ippwniàthz  kòlpoz (Strabone 6, 266), detto dai Romani sinus Vibonensis (Plinio n. h. 10,29). Quivi appunto nel 191 a. C. i Romani dedussero una colonia di plebei del Lazio.
Concludendo, dunque, Cicerone ha voluto dire ad Attico: appena che sono venuto a conoscenza della correzione apportata da Clodio al bando per cui non potevo, per motivi di distanza, recarmi in Sicilia, ho preso immediatamente la via di Brindisi il giorno precedente alla votazione della legge, sia per non mettere nei guai Sicca, che mi ospitava a suo rischio (11), sia anche perchè a Mileto non potevo starmene nascosto in campagna. A bene osservare il testo di Cicerone, appare chiaro che l’esule, dopo aver liquidato con la valutazione della distanza di 400 miglia il suo progettato ritiro in Sicilia, nel successivo periodo,passa ad un’altra serie di considerazioni, in cui il fatto che egli non volesse generosamente mettere nei guai Sicca, dato il divieto di Clodio di accogliere l’esule, è intimamente legato alla sua permanenza a Mileto, cioè nel fundus Siccae, che corrisponde esattamente a (tò) cwrìon  (12) ricordato da Plutarco.
L’Amatucci,nell’interessante nota già ricordata, ha avuto per primo il merito di identificare Melita con l’attuale Mileto. Il fundus Siccae, ricordato da Cicerone, è da identificare col cwrìon  menzionato da Plutarco. E questo fundus non era a Vibo,dove Sicca,come attesta Plutarco,non volle accogliere l’esule per ovvie ragioni di sicurezza, bensì in un oppidulum della valle del Mesima, denominato sin dal sec. XIV Mellite o Melita (13). La serrata dimostrazione dell’Amatucci,che identifica il luogo dell’Appennino calabrese ricordato da Cicerone nella lettera in questione. è basata su rilievi di carattere puramente topografici, che dimostrano un‘esatta conoscenza dei luoghi percorsi da Cicerone in questo doloroso momento della sua vita. Il Crispo (14) non condivide il punto di vista dell’Amatucci e ritiene che Melita sia Malta, ma di questa sua asserzione non dà una dimostrazione convincente. Certo, è naturale che, leggendo Melita il pensiero corra a Malta, ma, in base a quanto abbiamo detto, discutendo dei luoghi di Cicerone e di Plutarco che ricordano lo stesso episodio, non credo che si possa agevolmente accogliere quest’identificazione che si tramanda, a parer mio, erroneamente di edizione in edizione (15). Io ho accolto la tesi dell’Amatucci e ad essa ho apportato nuovi elementi per sostenerla e - confermarla.
Ma la questione non è del tutto esaurita, in quanto che bisogna liberare il terreno di una difficoltà nel testo plutarcheo. Superata questa difficoltà, i due testi, quello di Cicerone e quello di Plutarco, saranno perfettamente concordanti. Nel testo di Plutarco si parla di Ouìbioz, un anhr Sikelòz, che s’era molto giovato dell’amicizia di Cicerone e che sotto il suo consolato era stato capo dei genieri; costui non volle accogliere l’esule nella sua casa a Vibo, ma promise di assegnargli un luogo in campagna (oikìa  men ouk edéxato, [tò] cwrìon de katagràyein epeggélleto).
Ora, Plutarco parla di Vibio siciliano. Cicerone, nel passo della lettera, menziona invece Sicca .E’ possibile conciliare le due testimonianze? Si deve pensare ad una svista di Plutarco, che tramanderebbe un nome per un altro, oppure Sicca e Vibio siciliano sono effettivamente due persone distinte? Per spiegare questa confusione e per far concordare le due fonti sono state avanzate delle ipotesi. Premettiamo che presso taluni si nota una certa perplessità nel riconoscere in Vibio siciliano, che non volle accogliere Cicerone a Vibo bensì in un cwrìon ,  lo stesso personaggio ricordato da Cicerone e che accolse invece l’esule a Vibo. Questo dubbio è dello Smith (16), che si fa eco di vecchi commenti. Effettivamente a prima vista, Sicca e Vibio potrebbero sembrare due persone distinte. Ricordiamo e discutiamo alcune opinioni di studiosi più recenti. Il Munzer (17), nell’articolo su Sicca, afferma, sia pure con riserva, che “ Sicca sia diventato un uomo siciliano può ben essere ammesso, tanto più che si parla (in Plutarco) della proibizione del governatore di Sicilia per cui Cicerone non poteva porre il piede nell’isola”. A questa stravagante supposizione, aggiunge ancora il Munzer, “ resta incerto se Vibius sia derivato da un prenome o nome gentilizio ovvero- da un malinteso del nome della città di Vibo “. Ma come si può dubitare che Vibius non sia il nome di una gens? D’altra parte, l’aggettivo di Vibo è Vibonensis e non Vibius. Non sfugge che le spiegazioni addotte dal Munzer sono tortuose e difficilmente accettabili. Rimane da spiegare che Sicca non è mai presentato da Cicerone sotto Vibio Sicca ed inoltre che Vibio, cavaliere romano, secondo Cicerone (cft. Verr. 2,6), è presentato da Plutarco come un siciliano. Il Crispo, ad un bel momento del suo articolo, identifica Sicca, ricordato varie volte da Cicerone nell’epistolario, ma sempre senza alcuna indicazione di casato, con Lucio Vibio cavaliere romano, che era direttore di una società di  publicani a Siracusa quando Cicerone lo conobbe in Sicilia nel 71.
Secondo il Crispo, Vibio, ricordato da Plutarco come siciliano, “apparteneva a quei patrizi romani che facevano lunghe dimore in  Sicilia per attendere ad industrie agricole, a commerci o ad altri lucrosi affari “ . Egli “ come tanti altri patrizi romani, aveva un luogo di delizie nello ameno suburbio vibonense, in prossimità  dello scalo marittimo ” (18). L’identificazione dei due personaggi è parsa al Crispo naturalissima. La questione è posta su un piano di discussione ben più seria da Tyrrel e Purser (19). i quali pensano ad una confusione operata da Plutarco: “This looks very like as if Plutarch has misinterpreted Sicca Vib (onensis), wich he may have found in some autority as a Sicilian Vibius “. Questa supposizione ha il pregio di spiegare, con un attendibile dato di fatto, come fu ingenerata in Plutarco la confusione tra Sicca e Vibio.
In effetti, tutte queste ipotesi non hanno nessun valore perchè derivano da un testo di Plutarco che attualmente può considerarsi superato.
Gli antichi editori, ed in ultimo il Sintenis, dopo  anhr pongono Sikelòz, sull’autorità dei quattro codici Parigini (A 1671, B 1672, C 1673, E 16751), collazionati appunto per ultimo dal Sintenis. Questi codd. contengono le vite plutarchee divise in tre volumi e sono designati, nella edizione di Lindskog-Ziegler con la sigla Y (20). Ora, bisogna osservare che il Matritensis del sec. XIV ed il Vaticanus 138, gemello del precedente, designati entrambi dallo Ziegler con la sig!a N, non hanno la parola Sikelòz.
Il   Matritensis, come già sostenne il Craux (21), e più recentemente ha affermato lo Ziegler stesso (22). ha una grande importanza nella costituzione del testo delle vite sia di Cicerone che di Demostene. Non è improbabile pensare che la parola Sikelòz inserita dopo  ‘an¢hr     nei codd. parigini, provenga da una cattiva lettura Sìkkaz (scritta al margine di qualche vecchio esemplare e successivamente entrato nel testo. Chi scrisse  Sìkkaz sull’autorità di Cicerone (ad Att. 3, 2, 4), volle, evidentemente, indicare che il personaggio  Ouìbioz,  ricordato da Plutarco, era da identificare con Sicca, ricordato da Cicerone (23). L’errore dunque non rimonterebbe a Plutarco il quale, d’altra parte, è autore di non poche sviste e confusioni che si leggono nella vita di Cicerone da lui scritta (24). Si potrebbe anche avanzare quest’altra ipotesi e cioè che, al margine di qualche vecchio esemplare, fu scritto da un lettore direttamente Sikelòz e che poi questa parola fu inserita nel testo. In questa seconda ipotesi,chi scrisse Sikelòz  volle designare, ovvero credette di designare la patria di Vibio che egli erroneamente pensò che fosse stato un siciliano,probabilmente perchè Cicerone lo conobbe in Sicilia nel 71, come si ricava dalla Verrina 2, 2, 6. Non saprei dire se questa mia ipotesi sia da preferirsi a quella precedente avanzata dal Graux e sostenuta dallo Ziegler. Comunque, fanno bene questi due editori della vita di Cicerone ad espungere dal testo plutarcheo la parola Sikelòz. Eliminata dunque dal testo la inserzione di  una nota marginale, probablmente mal letta e che ha provocato un errore paleograficamente giustificabile, rimane questo di sicuro, che mentre Cicerone, confidenzialmente, come del resto fa anche in altre lettere, designò l’amico col semplice nome Sicca, Plutarco, invece ricordò lo stesso personaggio con il nome gentilizio Vibio, plebeo in verità  e di origine sabellica. La dimostrata identificazione fa cadere ogni difficoltà d’interpretazione e  le ipotesi, formulate dagli studiosi (Munzer, Crispo ecc.), per dare una soluziomie alla intricata questione, appaiono del tutto inutili di fronte al testo di Plutarco, costituito sull’autorità di due codici fondamentali.
Rimane ora un’altra cosa da spiegare. Per qual motivo Plutarco designa il personaggio Vibio col nome della gens mentre Cicerone, tranne che nel luogo ricordato della Verrina 2, 2, 6, lo designa sette volte nell’epistolario (26) col semplice cognomen? Questo dipende, evidentemente,dalla fonte che Plutarco adoperò. Nel narrare gli episodi compresi tra il consolato di Cicerone ed il secondo triumvirato, si ritiene che - Plutarco non abbia attinto, eccezion fatta, com’io suppongo, di un luogo dell’orazione pro Plancio 95, 96, ad altra fonte se non a Tirone che scrisse una vita di Cicerone (27). Quest’opera, ricca di particolari del fidato liberto. dovette essere la principale  guida di Plutarco.
(In” Giornale italiano di filologia”, AA.VV. ,1952, n. 1, pp. 56-62)

Note
(1)  Cfr. de domo 18, 47: velitis iubeatis ut Marco Tullio aqua et igni interdictum sit. Cfr. inoltre Vell. Pat. 2, 45; App. b. c. 2. 15; Cassio Dione 38, 14-17: Cic. pro Sextio 24, 53; in Pis. 7; post rediturn in sen. 2, 4; de domo 19, 50.
(2) Cito il testo secondo l’edizione di CONSTANS, Paris 1941 vol. II pag. 30, 31. Lo stesso brano nell’edizione di TYRREL-PURSER, Dublin 1904 vol. 1 pag. 359. suona così: adlata est ,nobis rogatio de pernicie mea, in qua quod correctum  esse audieramus erat eiusmodi ut mihi ultra quingenta milia liceret esse. Illo cum  pervenire nobis non liceret, statim iter Brundisium versus  contuli ante diem rogationis ne et Sicca, apud qaem eram, periret et quod Melitae esse non licebat. Non mi pare che si possa accettare quingenta, che è del Boor Obs. crit. p. 46, in base a Plutarco Cic. 31 e Cassio Dione 38, 7, invece di quadringenta dei codd. In effetti, solo dopo Cicerone conobbe i termini del bando, come si rileva dalla lettera ad Attico 3, 7, 1: et veremur ne interpretetur illud - quoque oppidum (sc. Athenas) ab Italia non satis  abesse.
(3)  Cic. 32 ... ò Klòdioz,  kaì  diàgramma   proùJhken  eìrgein puròz  kaì ùdatoz  tòn andra   kaì  mh parècein stéghn  entoz  miliwn  pentakosìwn Italìaz. 
Cassio Dione computa la distanza da Roma in 3750 stadi che corrispondono a 500 miglia, giacchè il miglio romano è pari a stadi 7 ½ . La testimonianza di Plutarco concorda con quanto Cicerone stesso afferma nella lettera ad Attico 3, 7, 1.
(4) Dell’esatta ubicazione del Fundus Siccae si sono interessati l’Amatucci: “ Di un luogodell’epistola IV lib. III di Cicerone ad Atticum e d’un Oppidulum dei Bruttii in rend. Della R. Acc. Di Arch. – lett. e belle arti 1898 pp. 131-137, ed il Crispo “ I viaggi di M. T. Cicerone a Vibo in Archivio storico per la Calabria e la Lucania,  1941 fasc. III p. 183 e seg.
(5)  L. c.
(6)  I dettagli del viaggio di Cicerone non sono chiari. Dice bene M. C. SMITH Cicero’s journey into exile, in Harward Studies vol. VII p. 71.84: “ circumtances connected with Cicero’s departure into exile until he left Italy are tolerably well accertauned in their main ortlines: but there are some points of details wich remain doubtfull “.
  (7)  Quest’avverbio (altri leggono illo, illuc o correggono diversamente) è interpetato in vario modo. lo credo che si debba intendere “in Sicilia”. In questo, seguo il BOOR (o. c. p. 46): “ in Siciliam quae regatione Clodii erat excepta ut tradit Dio 1. c. :  kaì Sikelìa” . Dello stesso avviso è lo Smith (o. c. p. 83), il quale, trovando strano che Cicerone nella lettera non abbia ricordato il divieto di Gaio Virgilio,  congettura che  “ a clause dras dropped out before illo, something of this natere simul  litterae a Virgilio nostro quibus significahat se nolle me in Sicilia esse. Illo cum pervenire non liceret... “. Ma questa è un’arbitraria ricostruzione. Il testo nei codd. è tramandato con leggere varianti. Per Tyrrel e Purser (o. c. p. 435) illo significa “ to Epirus”. Tralascio di ricordare altre correzioni al testo che mi  sembrano inutili e inaccettabili.
(8) Cfr. Livio 21, 51.
( 9) Dicono Tyrrel e Purser (o. c. p. 432) che Gaio Virgilio, sebbene amico di Cicerone, non volle ammettere l’esule nella sua provincia perchè, in qualità di pubblico ufficiale, non credette di  assumersi la responsabilità ( admitting him, to the province of Sicily, or to its adjunct Malta (cfr. pro Plancio 95, 96: Plut. l.c.) . Così anche scrive il Constans (1. c. p. 15):  “ en meme temps, il receivait de C. Vergilius une lettre par la quelle celui-ci se refusait a l’accuellir en Sicile ou à Malte ”, e rimanda in nota al luogo su citato dell’orazione pro Plancio.
Ma quando mai Plutarco e Cicerone, nel luogo dell’orazione ricordano l’isola di Malta? Si fa menzione soltanto del divieto per l’esule di recarsi in Sicilia, e non d’altro. Ora, probabilmente, se Cicerone ricorda, nel luogo dell’orazione, la Sicilia, avrebbe ricordato esplicitamente anche Malta, se Melita fosse stata quest’isola. Quale ragione vi sarebbe stata di passarla sotto silenzio ?
(10) L’origine di Mileto si fa risalire ai Milesii della Ionia; cfr. Barrius “ De antiquitate et situ Calabriae” Romae 1571. Questa tradizione è  raccolta dagli studiosi locali, ad eccezione del CAPIALBI “ Topografia d’Ipponio in Memoria d. Ist. Di corr. Archeolog. 132 p. 159 e seg. . Il LENORMANT “La Grande Grèce Paris” 1881 vol. III p. 256 e seg. ha sostenuto che il nome della città di Mileto non risale al di là del X sec, e che fu importato da Bizantini da Mileto d’Asia, clic si stanziarono in vari punti della  Calabria. Ma questa è un’ipotesi da dimostrare. Non trovo notizie storico-archeologiclìe in N. TACCONE GALLUCCI “Ricordi storici dell’antica Mileto Bologna 1866 né in C. NACCARI Cenni storici intorno alla città di Mileto, Laureana di Borrello, 1931.
(11) Cfr. Cassio Dione 38, 17, 7: kaì  prosepekhrùcJh in’ ei’  dh¢  pote  entòz  autwn janeìh, kaì  autòz  oì  upodexàmenoi  autòn anatì  diolwntai .
(12) L’articolo tò del Korais (1809) che corresse con acume il testo di Plutarco. Evidententemente, l’editore fu indotto a preporre l’articolo all’indeterminato e semplice cwrìon , dallo specifico riferimento al fundus Siccae, ricordato da Cicerone.
(13) L’AMATUCCI ricorda (o. c. p. 135) che alle rovine di quest’oppidulum una gentile poetessa calabrese, Edvige Pittarelli (nata in Francica il 1482 e morta dopo il 1554), dedicò un’elegia dal titolo  “de ruinis Francicae, olim Mellite vocata “.
(14) 0. c. p. 194 nota 1, afferma che “ l’opinione dell’Amatucci... è fondata su errori topografici essenziali e su apocrifi mantoscritti dei sec. XVII e XVIII. Nei documenti medioevali Mileto non è mai chiamata Melita...
(15) 1 biografi e i commentatori di Cicerone, almeno quelli che ricordano ciò, interpretano concordemente Melita per Malta. Nell’edizione di Tyrrel e Purser (ad locum) non si legge nulla in merito a questo problema, eppure a pag. 351 e -seg. in un excursus si discute, con una certa ampiezza, sul decreto di Clodio, sulle tappe dellesilio ecc. Forse, il problema ermeneutico di questo passo non è stato mai posto giacchè è sembrata la cosa più naturale  identificare Melita con Malta, senza riflettere, a mio avviso, all’impossibilità di questa interpretazione.
(16) Cfr. Dictionary of Greek and Roman biography and mithology, London 1867,vol. III pag. 815.      -
(17) PAÙLY-WISSOWA      lI   A 1923  p. 2186.
(18) O. c. p. 187.
(19)  0. c. p. 191
(20) Plutarchi vitae parallelae voll. 4, Lipsia 1914-1939.
(21) De Plutarchi codice manu scr. Matritensi iniuria neglecto in Revue de phil. N.s. . V (1881) p. I e seg.
(22) Plutarchstudien in Rhein. Mus. 68 (1913) p. 97 e seg. sul cod. Matritensis cfr. Th. Michaelis “ De Plutarchi cod. manuscr. Matritensi Berlin 1899.
(23) Cfr. Graux “ Plutarque”,Vie de Cicéron Paris 1889, p.137 nota 1.
(24)    Cfr. l’introduzione del Graux alla vita di  Cicerone da lui commentata. Di un certo interesse è anche lo studio del D’APPOZIO “Quatenus Plutarchus in rebus Ciceronis narrandis eius scriptis usus sit “   in Atti della reale Accademia Pontoniana di Napoli XXXIV (1904) memoria 7.
(25) Non condivido di leggere nel testo di Plutarco Ouìbioz Sìkkaz, anhr… come propone lo Ziegler in “addenda et corrigenda” Lipsia 1939 vol. IV 2 p. XV
(26) Cfr. ad fam. 14,4,6; ad Att. 8,12,4; 12,23,3; 14,19,5; 16,6,1; 6,11,1;3,2.
(27) Cfr. HEEREN “de fontibus et autorictate vitarum parallelarum” Gottingae 1820 p.129 e seg.; GUDEMAN “ The Sources of Plutarch’s Life of Cicero” Philadelphia 1902.

  
Recenti ricerche archeologiche nell'area
di Mileto Vecchia (Mileto - VV)
(di Francesco A. Cuteri)

In Calabria, nuove ricerche archeologiche, maturate in un clima di crescente interesse verso il periodo medievale, hanno consentito, tra l'altro, di acquisire importanti dati in riferimento all'età medio-bizantina e normanna. Si tratta di indagini promosse o patrocinate dalla Soprintendenza per i Benì archeologici, che hanno interessato contesti urbani (Reggio Calabria), complessi fortificati (Amendolea), monasteri (SS. Trinità di Mileto e S. Giovanni Theristìs di Bivongi), chiese cattedrali (Bova). A questo importante elenco è oggi possibile aggiungere la Cattedrale di Mileto, oggetto di preliminari indagini conoscitive nell'autunno del 2002.
Com'è noto, a pochi chilometri dall'attuale Mileto (VV) si conservano i resti dell'antico centro conosciuto come Mileto Vecchia.
La città medievale, definitivamente abbandonata in seguito al disastroso sisma del 1783, si caratterizzava come un centro di dorsale, posta com'era tra due rilievi di calcare pertinenti al sistema collinare che dal monte Poro scende verso la vallata del Mesima (2).
Sulle origini della città e soprattutto sulle fasi bizantine non si dispone di nessuna documentazione storica certa. E' certo, invece, che nel 1058 Roberto il Guiscardo faceva dono al fratello Ruggero del castrum Melitense. E' dunque probabile che prima della conquista normanna Mileto fosse un piccolo borgo fortificato, o kastron, posto a controllo della via tirrenica. Come è stato di recente osservato, "durante il suo lungo governo Ruggero I prese varie misure per trasformare un castello insignificante, situato in un territorio a popolazione esclusivamente greca di lingua e religione, nella capitale della potente contea normanna di Calabria e di Sicilia"3.
La capitale normanna, sede forse a partire dal 1085 di una zecca, assunse ancora maggiore importanza e acquisì lo status di città con l'istituzione, nel 1081, della sede vescovile4.
A partire dal XIII secolo Mileto, pur rimanendo un centro popoloso, iniziò progressivamente a perdere la posizione eminente precedentemente avuta, certamente legata al ruolo strategico svolto nelle fasi della conquista; del decadimento e impoverimento della cittadina danno testimonianza anche i materiali ceramici raccolti in superficie nell'area urbana'.
La distruzione avvenuta nel 1783 e la mancanza di ricerche specifiche non hanno finora permesso di ricostruire la connotazione urbanistica del centro e di individuarne l'impronta originaria.
Nella nuova articolazione urbanistica che caratterizzò il capoluogo di quella che Goffredo Malaterra definisce la provincia Melitana, particolare peso assunse la fondazione, avvenuta secondo uno schema ben documentato, dell'abbazia benedettina di S. Angelo o della SS. Trinità. Questa, costruita fuori dalle mura sulla collina detta Monteverde, è da intendersi come "punto nodale nella

I Nel corso degli anni novanta, importanti ricerche sono state compiute a S. Severina (MoRRONE 1998), Gerace, Tropea (DI GANGI-LEBOLE Di GANGI 1998), Nicastro, S.Eufemia di Lametia Terme (RUGA 1994; Di GANGI 1994), Mileto (MARINO 1998; FIORILLO-PEDUTO 2000); S. Giovanni Theristls di Bivongi (CUTERI-IANNELLI 2000). Recentissime sono invece le ricerche nel castello di Amendolea (cfr. Amendolea 2000), a Piazza Italia a Reggio Calabria (AccARDO-CUTERI 2001), e l'analisi stratigrafica delle murature del S. Omobono di Catanzaro, edificio civile normanno successivamente trasformato in chiesa (CUTERI 2001)

2 ZINZI 1985.

3 VON FALKENHAUSEN 1998.

4 FIORILLO-PEDUTO 2000.

5 FIORILLO-PEDUTo 2000, p. 226; buona parte dei reperti ceramici pubblicati sono erroneamente riferiti al complesso abbaziale della SS. Trinità, ma essi vennero rinvenuti da alcuni membri dell'Accademia Milesia in un terrazzo posto a oriente dell'antica cattedrale,e dunque in piena area urbana.

Rekatholiseirung avviata dai Normanni e caposaldo nella vicenda architettonica d'un romanico nascente nel nuovo quadro politico-culturale dell' esrtremo Sud"6.

Ampiamente studiata e letta nei suoi valori ideologici, formali e strutturali7, la chiesa abbaziale è stata oggetto in tempi recenti di alcune campagne di scavo, pulitura e rilievo ad opera della Soprintendenza Archeologica della Calabria e dell'Università di Salerno8. Tali ricerche, riprendendo anche le trincee scavate dall'Orsi9, hanno portato ad una più completa lettura planimetrica dell'edificio, con l'individuazione di fasi edilizie intermedie rispetto a quelle già note di XI e XVII secolo, alla scoperta di alcune sepolture riferibili sia alla prima fase dell'impianto cimiteriale che a quella di età moderna, e al rinvenimento di piccole lastre di vetro colorate e decorate, appartenenti alle vetrate della chiesa (XI-XII secolo)10. Con la campagna di scavo della primavera del 199911, è stato inoltre possibile portare alla luce alcune basi di colonne in marmo, una delle quali reca incisa la curiosa scritta "MILETO VECHIO", e individuare, nella navata di destra, il punto esatto in cui nel Settecento era posto il sepolcro di Ruggero12. Sono inoltre stati recuperati numerosi reperti tra i quali segnaliamo i tasselli marmorei di differente misura relativi alla più antica pavimentazione (in marmo bianco, giallo e nero, in serpentino e in porfido), e alcune iscrizioni marmoree frammentarie, una delle quali reca la scritta "COMES°".

Parallelamente, si è dato inizio allo studio delle apparecchiature murarie e dei materiali da costruzione13. Ciò ha consentito di stabilire, grazie anche al rinvenimento di un concio che reca inciso un marchio di lapicida, importanti connessioni costruttive con altri edifici romanici dell'Italia meridionale quali l'Incompiuta di Venosa, la Cattedrale di Cefalù, il S. Adriano di S. Demetrio Corone, il S. Omobono di Catanzaro14

Alcuni dei materiali rinvenuti nel corso degli scavi nell'area della SS. Trinità, sono stati recentemente esposti (ottobre 2002), insieme ad alcuni capitelli romanici già presenti nel Museo Statale di Mileto, nella mostra allestita presso il Museo di Lipari, in un'ala del Castello, dal Titolo: "Alle radici della civiltà mediterranea - I Normanni nello Stretto".

 Nel 2002, importanti ricerche archeologiche sono state avviate anche in quello che viene giustamente inteso come il fulcro topografico e simbolico della città: la Cattedrale di S. Nicola. La campagna di scavi, diretta dalla dott. ssa Maria Teresa lannelli della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, è stato coordinato sul campo dal prof. Francesco A. Cuteri (Univ. "Mediterranea" di RC) e dalla dott. Barbara Rotundo (Scuola di Specializzazione in Archeologia - Univ. di Roma "La Sapienza"), e ha visto l'attiva e concreta partecipazione dell'Amministrazione Comunale, in particolare del Sindaco, dott. Domenico Antonio Crupi, dell'Assessore alla Cultura, arch. Francesco Staropoli, e di Giuseppe Bulzomì.. Lo scavo è stato possibile grazie anche al contributo di alcuni volontari di Mileto e di un gruppo di studenti del Corso di Laurea in Storia e conservazione dei Beni architettonici e Ambientali (Università "Mediterranea" di Reggio Calabria).

Nel corso delle indagini archeologiche è stato possibile portare alla luce una piccola porzione del muro perimetrale meridionale e l'intero corpo absidale, in precedenza solo in minima parte visibile. Nell'abside di destra, conservata solo per metà, sono stati riconosciuti i resti di un'ampia finestra che dava luce ad una piccola cripta, quella indicata nelle antiche planimetrie della

6 ZINZI 1985.
7 OCCHIATO 1994; GARZIA ROMANO 1988.
8 MARINO 1998; FIORILLO-PEDUTO 2000.
9 ORSI 1921.
lo MARINO 1998; FIORILLO-PEDUTO 2000.
11 La campagna di scavo è stata diretta dalla dott.ssa Maria Teresa lannelli ( Sopr. Arch. della Calabria).
12 Sulle vicende del sarcofago di Ruggero si rimanda a quanto di recente proposto in MORRONE 2001 e OCCHIATO 2001. 13 Le cave di calvare evaporitico, spesso vacuolare, utilizzate per la costruzione della SS Trinità e della Cattedrale sono state da me individuate nell'area di S. Calogero, non lontano da Mileto Vecchia.
14 ZORIC 1989; GARZYA ROMANO 1988; CUTERI 2001; CUTERI C.S.

Rekatholiseirung avviata dai Normanni e caposaldo nella vicenda architettonica d'un romanico nascente nel nuovo quadro politico-culturale dell' esrtremo Sud"6.

Ampiamente studiata e letta nei suoi valori ideologici, formali e strutturali7, la chiesa abbaziale è stata oggetto in tempi recenti di alcune campagne di scavo, pulitura e rilievo ad opera della Soprintendenza Archeologica della Calabria e dell'Università di Salerno8. Tali ricerche, riprendendo anche le trincee scavate dall'Orsi9, hanno portato ad una più completa lettura planimetrica dell'edificio, con l'individuazione di fasi edilizie intermedie rispetto a quelle già note di XI e XVII secolo, alla scoperta di alcune sepolture riferibili sia alla prima fase dell'impianto cimiteriale che a quella di età moderna, e al rinvenimento di piccole lastre di vetro colorate e decorate, appartenenti alle vetrate della chiesa (XI-XII secolo)10. Con la campagna di scavo della primavera del 199911, è stato inoltre possibile portare alla luce alcune basi di colonne in marmo, una delle quali reca incisa la curiosa scritta "MILETO VECHIO", e individuare, nella navata di destra, il punto esatto in cui nel Settecento era posto il sepolcro di Ruggero12. Sono inoltre stati recuperati numerosi reperti tra i quali segnaliamo i tasselli marmorei di differente misura relativi alla più antica pavimentazione (in marmo bianco, giallo e nero, in serpentino e in porfido), e alcune iscrizioni marmoree frammentarie, una delle quali reca la scritta "COMES°".

Parallelamente, si è dato inizio allo studio delle apparecchiature murarie e dei materiali da costruzione13. Ciò ha consentito di stabilire, grazie anche al rinvenimento di un concio che reca inciso un marchio di lapicida, importanti connessioni costruttive con altri edifici romanici dell'Italia meridionale quali l'Incompiuta di Venosa, la Cattedrale di Cefalù, il S. Adriano di S. Demetrio Corone, il S. Omobono di Catanzaro14

Alcuni dei materiali rinvenuti nel corso degli scavi nell'area della SS. Trinità, sono stati recentemente esposti (ottobre 2002), insieme ad alcuni capitelli romanici già presenti nel Museo Statale di Mileto, nella mostra allestita presso il Museo di Lipari, in un'ala del Castello, dal Titolo: "Alle radici della civiltà mediterranea - I Normanni nello Stretto".

Nel 2002, importanti ricerche archeologiche sono state avviate anche in quello che viene giustamente inteso come il fulcro topografico e simbolico della città: la Cattedrale di S. Nicola.

La campagna di scavi, diretta dalla dott. ssa Maria Teresa lannelli della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, è stato coordinato sul campo dal prof. Francesco A. Cuteri (Univ. "Mediterranea" di RC) e dalla dott. Barbara Rotundo (Scuola di Specializzazione in Archeologia - Univ. di Roma "La Sapienza"), e ha visto l'attiva e concreta partecipazione dell'Amministrazione Comunale, in particolare del Sindaco, dott. Domenico Antonio Crupi, dell'Assessore alla Cultura, arch. Francesco Staropoli, e di Giuseppe Bulzomì.. Lo scavo è stato possibile grazie anche al contributo di alcuni volontari di Mileto e di un gruppo di studenti del Corso di Laurea in Storia e conservazione dei Beni architettonici e Ambientali (Università "Mediterranea" di Reggio Calabria).

Nel corso delle indagini archeologiche è stato possibile portare alla luce una piccola porzione del muro perimetrale meridionale e l'intero corpo absidale, in precedenza solo in minima parte visibile. Nell'abside di destra, conservata solo per metà, sono stati riconosciuti i resti di un'ampia finestra che dava luce ad una piccola cripta, quella indicata nelle antiche planimetrie della

6 ZINZI 1985.
7 OCCHIATO 1994; GARZIA ROMANO 1988.
8 MARINO 1998; FIORILLO-PEDUTO 2000.
9 ORSI 1921.
lo MARINO 1998; FIORILLO-PEDUTO 2000.
11 La campagna di scavo è stata diretta dalla dott.ssa Maria Teresa lannelli ( Sopr. Arch. della Calabria).
12 Sulle vicende del sarcofago di Ruggero si rimanda a quanto di recente proposto in MORRONE 2001 e OCCHIATO 2001. 
13 Le cave di calvare evaporitico, spesso vacuolare, utilizzate per la costruzione della SS Trinità e della Cattedrale sono state da me individuate nell'area di S. Calogero, non lontano da Mileto Vecchia.
14 ZORIC 1989; GARZYA ROMANO 1988; CUTERI 2001; CUTERI C.S.


chiesa edite dal Napoleone, o forse ad una piccola chiesa-cappella sotterranea15. Nell'abside centrale sono invece ben riconoscibili gli interventi edilizi che sono stati eseguiti nel tempo e che hanno in parte alterato l'originaria struttura. Non sono state al momento individuate, in questo settore, resti della pavimentazione.
Nell'abside laterale di sinistra, quella più conservata, sono state invece individuate tracce di sepolture, e lenti di calce, residuo di un più antico piano di calpestio. La muratura appare qui ben leggibile, anche se si registrano interventi di demolizione volti ad asportare le decorazioni che ornavano la struttura, probabilmente marmoree. Sono stati infatti rinvenuti, proprio in questa zona, numerose scaglie e lastrine di marmo.
Sulla base dei primi dati archeologici e dell'analisi delle strutture murarie superstiti, appare evidente che l'intero corpo absidale oggi visibile è il frutto di una ricostruzione della chiesa, avvenuta forse nel corso del XIV secolo. L'impianto originario di età normanna era molto più pronunciato e articolato di quello attuale e nelle sue strutture, dopo la ricostruzione bassomedievale, furono ricavate alcune cappelle gentilizie. Di queste, lo scavo ne ha evidenziate alcune con importanti tracce di affreschi. Tali affreschi sono stati scoperti solo in parte, al fine di poterli documentare, e sono stati immediatamente ricoperti, in attesa di poter intervenire congiuntamente con lo scavo e i primi interventi di consolidamento e restauro.
Nel corso della ricerca, che ha tra l'altro consentito di mettere in luce il perimetro orientale del muro che recingeva l'area del Vescovado, sono stati recuperati numerosi reperti. Si tratta di frammenti di vetro pertinenti alle vetrate sei-settecentesche, e a bicchieri medievali, ceramiche (frgg. di piatti e boccali) che coprono un arco cronologico che va dal XIII al XVIII secolo, mattonelle in maiolica, frammenti di sculture marmoree e, infine, porzioni di iscrizioni in marmo riferibili ad antichi sepolcri gentilizi o vescovili.
Nonostante il limitato intervento archeologico, tutti questi reperti, e le strutture messe in luce, evidenziano le straordinarie potenzialità dell'area e lasciano intuire la complessa articolazione della sommità collinare, frutto delle trasformazioni urbanistiche avvenute tra età bizantina e età moderna.
Lo scavo ha altresì evidenziato che solo nuove, approfondite ricerche possono oggi offrire un contributo ad una più precisa conoscenza dei monumenti medievali di Mileto, evitando al contempo il rischio di incorrere in interpretazioni basate su supposizioni o sull'analisi di ciò che non vi è o non si vede.

15 Per una prima proposta di lettura del complesso architettonico cfr. OCCHIATO 1994, pp. 193 ss.

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lunedì, maggio 16, 2016 mileto , periodo normanno , ruggero II , Storia , VV Mileto VV. Il Parco Archeologico di Mileto Antica. 

Mileto, oggi è una cittadina calabrese di 6701 abitanti situato a sud di Vibo Valentia della cui provincia fa parte Mileto nella storia conserva un posto di tutto rispetto. Ruggero I il Normanno, della famiglia degli Altavilla di Normandia la eresse a sua residenza rendendola una dei centri più importanti non solo della Calabria, ma dell'intera Europa e qui in quel periodo nacque uno dei suoi figli Ruggerro II il normanno(Mileto, 22 dicembre 1095 – Palermo, 26 febbraio 1154) che fu conte di Sicilia dal 1105, duca di Puglia dal 1127 e primo re di Sicilia e Calabria dal 1130 al 1154. Oggi A Mileto troviamo Il Parco Archeologico di Mileto Antica che sorge sull'antica città rasa al suolo dal terremoto del 1783. Un primo insediamento risale all'epoca romana, ma il periodo in cui la città di Mileto visse il maggiore splendore è sicuramente il periodo della dominazione normanna, . Oltre ai ruderi dell'Abbazia benedettina della SS Trinità tra i più importanti monumenti medievali in Calabria, conserva i resti di una cattedrale, fondata nel 1081, sono visibili anche diversi reperti marmorei. Poco più a sud di Mileto (Circa 1 km)si trova la frazione di Paravati dove visse Natuzza Evolo, mistica nota in tutta Italia e nel mondo per una serie di innumerevoli episodi (apparizioni e colloqui con Gesù Cristo, la Madonna, santi e defunti, la comparsa di stimmate ed altro), tanto da richiamare a Paravati migliaia di persone e diventare promotrice della nascita di un Santuario. 

Di seguito riportiamo un saggio dello storico e scrittore Giuseppe Occhiato (Mileto, 1934 – Firenze, 28 gennaio 2010), scritto per L'Accademia Milesia associazione culturale di Mileto.
La Città del periodo normanno si attesta su di un preesistente nucleo bizantino, sorto presumibilmente tra il IX e il X secolo e giacente sul dorso di una collina da cui domina l’antica via Popilia. La sua fortuna ha inizio però nel 1059, anno in cui viene concessa a titolo ereditario dal duca Roberto il Guiscardo al più giovane fratello, Ruggero, venuto a seguirne le orme e fiancheggiarne l’azione militare nell’opera di conquista dell’Italia meridionale e della Sicilia. La conquista della Calabria è già in atto dal 1054 e si concluderà nel 1060 con la resa di Reggio Calabria; nel 1092, la corte di Ruggero sarà spettatrice di un evento straordinario, e precisamente assisterà alla consegna delle chiavi della città di Noto, atto che sancirà la definitiva assunzione della Sicilia da parte di Ruggero alla propria contea.
La Città raggiunge perciò il suo massimo splendore con il Gran Conte, ultimo della numerosa prole del normanno Tancredi d’Altavilla. È durante questo periodo, detto della “Contea”, che vengono poste le basi perché il vecchio castrum (borgo fortificato bizantino) sia promosso a Civitas (Malaterra). Le sue mura vengono fortificate, la città abbellita ed elevata al rango di importante avamposto con l’istituzione di un centro politico e amministrativo che, per il peso sempre maggiore assunto nella politica espansionistica dei Normanni in Italia Meridionale, darà alla restante regione la designazione di provincia Melitana (Malaterra).
Ruggero ne fa così uno dei poli più cospicui della regione, affidandole un ruolo ben preciso nell’organizzazione amministrativa, economica ed ecclesiastica del territorio; ed è nella sua corte che egli esplica una vasta attività di potenziamento della propria strategia militare e politica e intessé una fitta trama di rapporti internazioni con capi di stato e pontefici. A Mileto festeggia nel Natale del 1061, magno musicorum concentu, le nozze con la normanna Giuditta d’Evreux, sorellastra del potente abate Robert de Grandmesnil; vi celebrerà ancora le seconde nozze con la longobarda Eremburga e, quindi, passerà nel 1089 a terze nozze con Adelasia del Vasto, principessa della famiglia degli Alemarici, marchesi del Monferrato. Lo sviluppo e l’importanza sempre crescente della cittadina sono legati non solo alla funzione strategica che l’energico condottiero le assegna, ma anche a quella ecclesiastica e religiosa, che inserita ben presto in quel piano programmatico di rilatinizzamento della regione, strappata ai suoi legittimi possessori, definito dal Guiscardo e persuaso di concerto dai due fratelli. Ruggero e, con lui, Mileto, favoriscono infatti il disegno voluto dalla Curia di Roma. In segno di riconoscimento delle prestazioni offerte al Conte, il papa Gregorio VII fa istituire nel 1081 proprio in Mileto la prima sede episcopale latina, ottenuta con l’unificazione delle due ex diocesi di Vibona e Taureana. Ma già nel 1063 Mileto ha Visto fondare nel suo suolo uno degli avamposti di quest’opera occidentalizzatrice e rilatinizzatrice; l’abbazia benedettina della SS. Trinità. Essa fin dall’atto della fondazione viene sganciata dalla potestà vescovile e resa dipendente direttamente da Roma. La chiesa del monastero, consacrata nel 1080, è una delle più grandi e splendide dell’epoca. Quindi Ruggero s’interessa a far costruire la cattedrale, le cui forme non sono inferiori per splendore alla chiesa abbaziale della Trinità.
Entrambe le istituzioni si inquadrano in monumentali complessi architettonici, edificati con larghezza di mezzi e secondo i sistemi e le disposizioni in uso nella grande esperienza del romanico vissuta da tutto il mondo occidentale; e Mileto così viene ad aggiungere, in questo sperduto angolo dell’Italia meridionale, le sue grandiose fabbriche cultuali a quel bianco mantello di chiese di cui si va ricoprendo, come ci informa il cronachista Rodolfo il Glabro, l’Europa di questi anni. Oltre ai due organismi sacri, sono da annoverare altri due edifici normanni voluti dal conte Ruggero, le cui architetture contribuiscono ad incrementare lo sviluppo edilistico della cittadina: il Palazzo comitale, residenza di Ruggero e della corte normanna e la cappella di S. Martino, nella quale sarà battezzato il futuro re Ruggero II. Fin da quando il Gran Conte sceglie Mileto come propria sede, la città si trasforma in un centro dove gli scambi politici, culturali ed economici sono notevoli. È all'incirac nel 1087 l’istituzione della Zecca che conia pezzi in bronzo (Trifollaro, Doppiofollaro, Follaro e Mezzofollaro) e, secondo tradizione, (non confermata da documenti) alcune in argento (Denaro, Mezzo denaro e Frazione di denaro).
Essa sancisce definitivamente la supremazia di Mileto sulla restante Calabria normanna. La fastosa corte normanna diviene punto d’incontro di culture diverse e di scambi letterari, giuridici e commerciali che continuano anche durante il periodo della reggenza di Adelaide. È meta di uomini famosi, come Riccardo Cuor di Leone, qui di passaggio durante il suo viaggio in Terrasanta; come Papa Urbano II, che viene ricevuto a corte nel 1097; come Pasquale II che viene nel 1102 a condolersi con la corte normanna per la morte del Gran Conte e, nell’occasione, rinnova pure la consacrazione della chiesa abbaziale della Trinità; come numerosi capi di Stato, emissari e legati delle città arabo-sicule, cardinali e legati pontifici. Ruggero muore, dopo aver concepito e realizzato il vasto disegno della conquista della Sicilia proprio stando in Mileto, città nella quale si rifugia quando vuole stare in tranquillitate et in pace (Malaterra) e che non abbandona nemmeno quando è all’apice della gloria e della potenza.
La sua morte avviene il 22 giugno del 1101, compianto dal papa e dai sovrani del tempo. Il suo corpo, composto in un sarcofago marmoreo romano incorniciato da un’arca romanica di porfido, è collocato nella navata destra della sua chiesa-mausoleo, da lui concepita come il Pantheon della propria famiglia, accanto a quello della sua seconda moglie, Eremburga, anch’essa composta in altro sarcofago di età romana. Dopo la morte del Gran Conte, Adelaide assume la reggenza della Contea per conto prima del figlio Simone e poi di Ruggero, futuro re di Calabria, Puglia e Sicilia. La nascita di Ruggero II non è, purtroppo un dato storicamente accertabile, ma è presumibile che vi sia nato o nel dicembre del 1097 o nel febbraio del 1098; vi è certamente battezzato da San Brunone di Colonia, fondatore dei certosini, giunto in Mileto per tale circostanza, presente pure, in qualità di testimone, il nobile normanno Lanuino, anch’egli poi beatificato. Durante il periodo di reggenza della regina Adelaide, il centro del potere si sposta per trasferirsi prima a Messina e quindi, nel 1112, a Palermo. Cessa così, per passare a un più vasto e importante centro d’interessi politici, il breve periodo di splendore di Mileto, e tramonta pure con esso il ben più ampio sogno di potenza e di gloria che la Calabria si era illusa di poter raggiungere, realizzando qui in anticipo quanto solo poco più tardi diverrà realtàin Sicilia sotto Ruggero II.




Vincenzo VARONE. "Mileto. 1985" 
(In: "Nuove Dimensioni", 2 novembre 1985). 

Qualcuno l’ha definita “la città dei preti e dei poeti”, qualche altro “la piccola Torino del Sud”. Stiamo parlando di Mileto, “capitale”, per alcuni “in pericolo” del cattolicesimo di una fetta di Calabria, città dal passato indiscusso, un tempo regina indiscussa nel campo dell’arte e della cultura.
Scrisse B. Berenson nel lontano 1995: “Passando per Mileto, mi rammento che questa città per molti anni fu politicamente importante quanto Londra o Parigi, e che le sue chiese, i suoi palazzi e i suoi tesori uguagliarono la migliore arte prodotta allora. Tutto ciò è sparito nei terremoti, che hanno divorato tutto ciò che esisteva. Spesso mi domando quali meravigliosi tesori sotterranei porteranno alla luce gli scavi se mai saranno eseguiti. Colonne di porfido,capitelli intagliati o incisi come canestri, marmi colorati d’ogni specie, mosaici…”. (1)
Ma qual è il volto della Mileto attuale? A sentire gli abituali frequentatori del centralissimo Corso Umberto I, considerato il salotto buono della città, il volto di Mileto è, purtroppo, quello di una città in declino,che da alcuni anni si è chiusa nel suo torpore e nel suo gretto provincialismo e che non riesce pertanto a darsi un’immagine positiva e vincente. “Qui regna sovrana – dicono in molti – l’apatia, tanto che i migliori stanchi di operare in questo ambiente che offre pochissimo, hanno preferito sistemarsi altrove..
I più stanchi e delusi sono comunque i giovani. 
La maggior parte di loro afferma di voler decisamente cambiare aria per uscire dal consueto grigiore di tutti i giorni. In realtà i più sono affranti perché non riescono a trovare un posto di lavoro. 
Si sentono quindi traditi, abbandonati al loro destino, privi di un futuro. 
Amano – come tanti ragazzi della loro generazione- il ribelle Vasco Rossi, il romantico Claudio Baglioni, i Duran Duran e Roberto Vecchioni,   adorano lo sport e detestano la politica ritenuta la fonte dei mali che travagliano la società moderna e le piccole realtà del meridione d’Italia, vittime del nepotismo, del clientelismo, che consente solo ai ruffiani di guadagnarsi un posto al sole.
Piuttosto amareggiati si dicono anche i commercianti. 
- “Siamo in molti – affermano in coro – e conseguentemente riusciamo a malapena ad andare avanti. 
Poi vi è anche da aggiungere che siamo letteralmente dissanguati dalle tasse e che stranamente il miletese preferisce andare ad acquistare negli altri centri del comprensorio perché è fermamente convinto di risparmiare senza rendersi che in realtà prende solo abbagli senza riuscire a risparmiare un bel nulla. 
Tutto ciò – osservano ancora i commercianti, - produce notevoli danni all’intera categoria e all’intera economia locale. 
Noi commercianti – concludono – riteniamo pertanto che se si continua di questo passo, prima o poi, molti esercizi locali saranno costretti a chiudere”.
Soffermiamoci adesso sulla classe politica locale, spesse volte accusata di essersi solo preoccupata di favorire gli “amici” e di rendersi utile ai potenti di Catanzaro e di Roma, di assicurarsi prebende e l’appoggio per le successive elezioni, affinchè non cambi nulla, nonché di totale inattività. 
Oggi agli occhi del cronista appare profondamente lacerata a causa delle solite guerre interne con protagonisti, tanto per cambiare, la Dc e il Psi. 
Qualcuno sostiene addirittura che in virtù di questo clima presto il Consiglio comunale dovrà fare le valige.
Non manca, comunque chi sostiene che si tratta solo di piccole diatribe ingigantite dalle solite opposizioni che vogliono trovare il pelo nell’uovo e che, pertanto, l’attuale governo Dc-Psi-Pdi non corre nessun pericolo. 
Voci le prime. 
oci le seconde. 
La verità come al solito forse sta in mezzo o da nessuna parte. 
Chi lo sa?
Una cosa comunque è scontata: A Mileto – se davvero si hanno a cuori le sorti della comunità e non la sistemazione del figlio, del nipote, dell’amico e la cura del proprio orticello o in alternativa quello dei parenti più prossimi – il modo di fare politica deve assolutamente cambiare. 
Ci si deve finalmente rendere conto che essa, come diceva Platone, costituisce quel ramo del sapere che concerne specificatamente il bene degli uomini, il comune. 
Quindi oltre ad essere giusto e onesto, il politico deve conoscere, rispettare e garantire i valori umani e morali presenti in questo ben comune. 
La politica, tanto per essere più chiari, deve essere intesa come un servizio da offrire alla collettività, senza la smania del “palcoscenico” a tutti i costi e il desiderio di annientare l’avversario. 
Si tratta solo di belle parole, destinate al macero, forse starà dicendo tra sé e sé qualcuno di voi. 
Noi francamente ci crediamo anche perchè riteniamo che in questa maniera soltanto si potranno affrontare con positività e risolutezza i tanti e gravi problemi che travagliano Mileto e le sue frazioni. 
Il resto è solo un maledetto imbroglio.
___________
Note a cura di GP
(1) Ci si riferisce a B. Berenson, "The passionate Sightseer", 1955. Ma... le parole di Berenson non sono assolutamente quelle. Mary Berenson, viaggiando con il marito, il famoso storico e critico d'arte Bernard Berenson, ha - come tutte le mogli ? - uno sguardo magari un tantino più concreto e pragmatico. 
Infatti dice di Mileto accenni molto meno romantici di quelli - totalmente avulsi da ogni realtà - scritti dal marito. 
Sognatore. 
A cui gliel'avranno "condita bene". 
Mileto intendo; non la moglie, intendo.