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venerdì 7 gennaio 2011

Brunelleschi. Filippo Brunelleschi. (Vasari, Vite).










Molti sono creati dalla natura piccoli di persona e di fattezze, che hanno
l'animo pieno di tanta grandezza et il cuore di sì smisurata terribilità, che se
non cominciano cose difficili e quasi impossibili, e quelle non rendono finite
con maraviglia di chi le vede, mai non dànno requie alla vita loro. E tante
cose, quante l'occasione mette nelle mani di questi, per vili e basse che elle
si siano, le fanno essi divenire in pregio et altezza. Laonde mai non si
doverebbe torcere il muso, quando s'incontra in persone che in aspetto non hanno
quella prima grazia o venustà, che dovrebbe dare la natura nel venire al mondo a
chi opera in qualche virtù, perché non è dubbio che sotto le zolle della terra
si ascondono le vene dell'oro. E molte volte nasce in questi che sono di
sparutissime forme, tanta generosità d'animo e tanta sincerità di cuore che,
sendo mescolata la nobiltà con esse, non può sperarsi da loro se non grandissime
maraviglie; perciò che e' si sforzano di abbellire la bruttezza del corpo con la
virtù dell'ingegno, come apertamente si vide in Filippo di Ser Brunellesco,
sparuto de la persona non meno che Messer Forese da Rabatta e Giotto; ma di ingegno tanto elevato che ben si
può dire che e' ci fu donato dal cielo per dar nuova forma alla architettura,
già per centinaia d'anni smarrita; nella quale gl'uomini di quel tempo in mala
parte molti tesori avevano spesi, facendo fabriche senza ordine, con mal modo,
con tristo disegno, con stranissime invenzioni, con disgraziatissima grazia e
con peggior ornamento. E volle il cielo, essendo stata la terra tanti anni senza
uno animo egregio et uno spirito divino, che Filippo lasciassi al mondo di sé la
maggiore, la più alta fabrica e la più bella di tutte l'altre fatte nel tempo
de' moderni et ancora in quello degli antichi, mostrando che il valore negli
artefici toscani, ancora che perduto fusse, non perciò era morto. Adornollo
altresì di ottime virtù, fra le quali ebbe quella dell'amicizia, sì che non fu
mai alcuno più benigno né più amorevole di lui. Nel giudicio era netto di
passione; e dove e' vedeva il valore degli altrui meriti, deponeva l'util suo e
l'interesso degli amici. Conobbe se stesso, et il grado della sua virtù comunicò
a molti, et il prossimo nelle necessità sempre sovvenne; dichiarossi nimico
capitale de' vizii et amatore di coloro che si essercitavono nelle virtù. Non
spese mai il tempo invano, che o per sé o per l'opere d'altri, nelle altrui
necessità non s'affaticasse e caminando gli amici visitasse e sempre sovvenisse.


Dicesi che in Fiorenza fu uno uomo di bonissima fama e di molti lodevoli
costumi e fattivo nelle faccende sue, il cui nome era Ser Brunelesco di Lippo Lapi, il quale aveva auto l'avolo suo
chiamato Cambio, che fu litterata persona, e il quale nacque di un fisico in
que' tempi molto famoso, nominato Maestro Ventura Bacherini. Togliendo dunque
Ser Brunelesco per donna una giovane costumatissima, della nobil famiglia degli
Spini, per parte della dote ebbe in pagamento una casa, dove egli e i suoi
figliuoli abitarono fin alla morte, la quale è posta dirimpetto a San Michele
Berteldi, per fianco, in un biscanto passato la piazza degli Agli. Ora, mentre
che egli si esercitava così e vivevasi lietamente, gli nacque l'anno 1377 un
figliuolo al quale pose nome Filippo, per il padre suo già morto, della quale
nascita fece quella allegrezza che maggior poteva. Laonde con ogni accuratezza
gl'insegnò nella sua puerizia i primi principii delle lettere, nelle quali si
mostrava tanto ingegnoso e di spirito elevato, che teneva spesso sospeso il
cervello, quasi che in quelle non curasse venir molto perfetto. Anzi pareva che
egli andasse col pensiero a cose di maggior utilità, per il che ser Brunelesco,
che desiderava che egli facesse il mestier suo del notario o quel del tritavolo,
ne prese dispiacere grandissimo. Pure, veggendolo continuamente esser dietro a
cose ingegnose d'arte e di mano, gli fece imparare l'abbaco e scrivere; e dipoi
lo pose all'arte dell'orefice, acciò imparasse a disegnare con uno amico suo. E
fu questo con molta satisfazione di Filippo, il quale, cominciato a imparare e
mettere in opera le cose di quella arte, non passò molti anni che egli legava le
pietre fini meglio che artefice vecchio di quel mestiero. Esercitò il niello et
il lavorare grosserie, come alcune figure d'argento che son dua mezzi profeti
posti nella testa dell'altare di S. Iacopo di Pistoia tenute bellissime, fatte
da lui all'Opera di quella città; et opere di bassi rilievi, dove mostrò
intendersi tanto di quel mestiero, che era forza che 'l suo ingegno passasse i
termini di quella arte. Laonde, avendo preso pratica con certe persone studiose,
cominciò a entrar colla fantasia nelle cose de' tempi e de' moti, de' pesi e
delle ruote, come si posson far girare e da che si muovono; e così lavorò di sua
mano alcuni oriuoli bonissimi e bellissimi. Non contento a questo, nell'animo se
li destò una voglia della scultura grandissima; e tutto venne poi che, essendo
Donatello giovane tenuto valente in quella, et
in espettazione grande, cominciò Filippo a praticare seco del continuo et
insieme per le virtù l'un dell'altro si posono tanto amore, che l'uno non pareva
che sapesse vivere senza l'altro. Laonde Filippo, che era capacissimo di più
cose, dava opera a molte professioni, né molto si esercitò in quelle che egli fu
tenuto fra le persone intendenti bonissimo architetto, come mostrò in molte cose
che servirono per acconcimi di case; come al canto de' Ciai verso Mercato
Vecchio, la casa di Apollonio Lapi suo parente che in quella (mentre egli la
faceva murare) si adoprò grandamente. E il simile fece fuor di Fiorenza nella
torre e nella casa della Petraia a Castello. Nel palazzo dove abitava la
Signoria ordinò e spartì dove era l'ufizio delli ufiziali di monte, tutte quelle
stanze e vi fece e porte e finestre, nella maniera cavata da lo antico, allora
non usatasi molto per essere l'architettura rozzissima in Toscana.

Avendosi poi in Fiorenza a fare per i frati di S. Spirito una statua di S.
Maria Madalena in penitenzia di legname di tiglio per portar in una cappella,
Filippo, che aveva fatto molte cosette piccole di scoltura, desideroso mostrare
che ancora nelle cose grandi era per riuscire, prese a far detta figura; la qual
finita e messa in opera fu tenuta cosa molto bella; ma nell'incendio poi di quel
tempio, l'anno 1471, abruciò insieme con molte altre cose notabili. Attese molto
alla prospettiva, allora molto in male uso per molte falsità che vi si facevano;
nella quale perse molto tempo, perfino che egli trovò da sé un modo che ella
potesse venir giusta e perfetta, che fu il levarla con la pianta e proffilo e
per via della intersegazione, cosa veramente ingegnosissima et utile all'arte
del disegno. Di questa prese tanta vaghezza, che di sua mano ritrasse la piazza
di S. Giovanni, con tutti quegli spartimenti della incrostatura murati di marmi
neri e bianchi, che diminuivano con una grazia singulare, e similmente fece la
casa della Misericordia, con le botteghe de' cialdonai e la volta de' Pecori e
dall'altra banda la colonna di S. Zanobi. La qual opera essendoli lodata dalli
artefici e da chi aveva giudizio in quell'arte, gli diede tanto animo che non
sté molto che egli mise mano a una altra; e ritrasse il palazzo, la piazza e la
loggia de' Signori, insieme col tetto de' Pisani e tutto quel che intorno si
vede murato. Le quali opere furon cagione di destare l'animo agli altri
artefici, che vi atteseno dipoi con grande studio. Egli particularmente la
insegnò a Masaccio, pittore allor giovane, molto suo
amico, il quale gli fece onore in quello che gli mostrò, come appare negli
edifizii dell'opere sue; né restò ancora di mostrare a quelli che lavoravono le
tarsie - che è un'arte di commettere legni di colori - e tanto gli
stimolò, ch'e' fu cagione di buono uso e [di] molte cose utili che si fece di
quel magisterio et allora e poi [di] molte cose eccellenti che hanno recato e
fama et utile a Fiorenza per molti anni. Tornando poi da studio Messer Paulo dal
Pozzo Toscanelli et una sera trovandosi in uno orto a cena con certi suoi amici,
invitò Filippo; il quale, uditolo ragionare de l'arti matematiche, prese tal
familiarità con seco, che egli imparò la geometria da lui. E se bene Filippo non
aveva lettere, gli rendeva sì ragione di tutte le cose, con il naturale della
pratica e sperienza, che molte volte lo confondeva. E così seguitando, dava
opera alle cose della Scrittura cristiana, non restando di intervenire alle
dispute et alle prediche delle persone dotte, delle quali faceva tanto capitale
per la mirabil memoria sua, che Messer Paulo predetto, celebrandolo usava dire
che nel sentir arguir Filippo gli pareva un nuovo Santo Paulo. Diede ancora
molta opera in questo tempo alle cose di Dante, le quali furon da lui bene
intese circa i siti e le misure, e spesso, ne]le comparazioni allegandolo, se ne
serviva ne' suo' ragionamenti. Né mai col pensiero faceva altro che machinare et
immaginarsi cose ingegnose e difficili. Né poté trovar mai ingegno che più lo
satisfacesse, che Donato, con il quale domesticamente confabulando, pigliavano
piacere l'uno dell'altro, e le difficultà del mestiero conferivano insieme. Ora,
avendo Donato in que' giorni finito un Crucifisso di legno, il quale fu posto in
S. Croce di Fiorenza sotto la storia del fanciullo che risuscitò S. Francesco
dipinto da Taddeo Gaddi, volle Donato pigliarne parere con Filippo; ma se ne
pentì perché Filippo gli rispose ch'egli aveva messo un contadino in croce, onde
ne nacque il detto di: «Togli del legno, e fanne uno tu» come largamente si
ragiona nella vita di Donato. Per il che Filippo, il quale, ancor che fusse
provocato a ira, mai si adirava per cosa che li fusse detta, stette cheto molti
mesi, tanto che condusse di legno un Crocifisso della medesima grandezza, di tal
bontà e sì con arte, disegno e diligenza lavorato, che nel mandar Donato a casa
inanzi a lui, quasi ad inganno (perché non sapeva che Filippo avesse fatto tale
opera), un grembiule che egli aveva pieno di uova e di cose per desinar insieme,
gli cascò mentre lo guardava uscito di sé per la maraviglia e per l'ingegnosa et
artifiziosa maniera che aveva usato Filippo nelle gambe, nel torso e nelle
braccia di detta figura, disposta et unita talmente insieme, che Donato, oltra
il chiamarsi vinto, lo predicava per miracolo. La qual opera è oggi posta in
Santa Maria Novella, fra la cappella degli Strozzi e de' Bardi da Vernia, lodata
ancora dai moderni infinitamente. Laonde, vistosi la virtù di questi maestri
veramente eccellenti, fu lor fatto allogazione dall'Arte de' Beccai e dall'Arte
de' Linaiuoli, di due figure di marmo, da farsi nelle loro nicchie che sono
intorno a Or San Michele, le quali Filippo lasciò fare a Donato da solo, avendo
preso altre cure, e Donato le condusse a perfezzione. Dopo queste cose, l'anno
1401 fu deliberato, vedendo la scultura essere salita in tanta altezza, di
rifare le due porte di bronzo del tempio e batistero di S. Giovanni: perché da
la morte d'Andrea Pisano in poi, non avevono avuti maestri
che l'avessino sapute condurre. Onde fatto intendere a quelli scultori che erano
allora in Toscana l'animo loro, fu mandato per essi e dato loro provisione et un
anno di tempo a fare una storia per ciascuno; fra i quali furono richiesti
Filippo e Donato, di dovere ciascuno di essi da per sé fare una storia, a
concorrenza di Lorenzo Ghiberti, Iacopo della Fonte, Simone da
Colle, Francesco di Valdambrina e Niccolò d'Arezzo. Le quali storie finite
l'anno medesimo e venute a mostra in paragone, furon tutte bellissime et intra
sé differenti; chi era ben disegnata e mal lavorata, come quella di Donato, e
chi aveva bonissimo disegno e lavorata diligentemente, ma non spartito bene la
storia col diminuire le figure, come aveva fatto Iacopo della Quercia; e chi fatto invenzione
povera e figure, nel modo che aveva la sua condotto Francesco di Valdambrina; e
le peggio di tutte erano quelle di Niccolò d'Arezzo e di Simone da Colle, e la
migliore quella di Lorenzo di Cione Ghiberti. La quale aveva in sé disegno,
diligenza, invenzione, arte e le figure molto ben lavorate; né gli era però
molto inferiore la storia di Filippo, nella quale aveva figurato un Abraam che
sacrifica Isaac; et in quella un servo, che mentre aspetta Abraam, e che l'asino
pasce, si cava una spina di un piede, che merita lode assai. Venute dunque le
storie a mostra, non si satisfacendo Filippo e Donato se non di quella di
Lorenzo, lo giudicarono più al proposito di quell'opera che non erano essi e
gl'altri che avevano fatto le altre storie. E così a' Consoli con buone ragioni
persuasero che a Lorenzo l'opera allogassero, mostrando che il publico et il
privato ne sarebbe servito meglio; e fu veramente questo una bontà vera d'amici
et una virtù senza invidia, et uno giudizio sano nel conoscere se stessi, onde
più lode meritorono, che se l'opera avessino condotta a perfezzione: felici
spiriti che mentre giovavano l'uno all'altro, godevano nel lodare le fatiche
altrui; quanto infelici sono ora i nostri, che mentre ch'e' nuocono, non
sfogati, crepano d'invidia nel mordere altrui. Fu da' Consoli pregato Filippo
che dovesse fare l'opera insieme con Lorenzo, ma egli non volle, avendo animo di
volere essere più tosto primo in una sola arte, che pari o secondo in
quell'opera. Per il che la storia, che aveva lavorata di bronzo, donò a Cosimo
de' Medici; la qual egli col tempo fece mettere in sagrestia vecchia di San
Lorenzo, nel dossal dell'altare, e quivi si truova al presente, e quella di
Donato fu messa nell'Arte del Cambio. Fatta l'allogazione a Lorenzo Ghiberti, furono insieme Filippo e
Donato, e risolverono insieme partirsi di Fiorenza et a Roma star qualche anno,
per attender Filippo all'architettura e Donato alla scultura. Il che fece
Filippo, per voler esser superiore et a Lorenzo et a Donato, tanto quanto fanno
l'architettura più necessaria all'utilità degl'uomini, che la scultura e la
pittura. E venduto un poderetto che egli aveva a Settignano, di Fiorenza
partiti, a Roma si condussero: nella quale, vedendo la grandezza degli edifizii
e la perfezzione de' corpi de' tempii, stava astratto che pareva fuori di sé. E
così dato ordine a misurare le cornici e levar le piante di quegli edifizii,
egli e Donato continuamente seguitando, non perdonarono né a tempo né a spesa,
Né lasciarono luogo che eglino et in Roma e fuori in campagna, non vedessino e
non misurassino tutto quello che potevano avere che fusse buono. E perché era
Filippo sciolto da le cure familiari, datosi in preda agli studii, non si curava
di suo mangiare o dormire, solo l'intento suo era l'architettura, che già era
spenta, dico gli ordini antichi buoni, e non la todesca e barbara, la quale
molto si usava nel suo tempo. Et aveva in sé duoi concetti grandissimi: l'uno
era il tornare a luce la buona architettura, credendo egli ritrovandola, non
lasciare manco memoria di sé, che fatto si aveva Cimabue e Giotto; l'altro di trovar modo, se e' si
potesse, a voltare la cupola di Santa Maria del Fiore di Fiorenza: le difficoltà
della quale avevano fatto sì che, dopo la morte di Arnolfo Lapi, non ci era stato mai nessuno a
cui fusse bastato l'animo, senza grandissima spesa d'armadure di legname,
poterla volgere. Non conferì però mai questa sua invenzione a Donato, né ad
anima viva; né restò che in Roma tutte le difficultà che sono nella Ritonda egli
non considerasse, sì come si poteva voltare. Tutte le volte nell'antico aveva
notato e disegnato, e sopra ciò del continuo studiava. E se per avventura eglino
avessino trovato sotterrati pezzi di capitelli, colonne, cornici e basamenti di
edifizii, eglino mettevano opere e gli facevano cavare, per toccare il fondo.
Per il che si era sparsa una voce per Roma, quando eglino passavano per le
strade, che andavano vestiti a caso, gli chiamavano quelli del tesoro, credendo
i popoli ch'e' fussino persone che attendessino alla geomanzia per ritrovare
tesori; e di ciò fu cagione l'avere eglino trovato un giorno una brocca antica
di terra, piena di medaglie. Vennero manco a Filippo i denari, e si andava
riparando con il legare gioie a orefici suoi amici che erano di prezzo; e così
si rimase solo in Roma, perché Donato a Fiorenza se ne tornò, et egli con
maggiore studio e fatica che prima, dietro alle rovine di quelle fabriche di
continuo si esercitava. Né restò che non fusse disegnata da lui ogni sorte di
fabbrica, tempii tondi e quadri, a otto facce, basiliche, aquidotti, bagni,
archi, colisei, anfiteatri et ogni tempio di mattoni, da' quali cavò le
cignature et incatenature, e così il girarli nelle volte; tolse tutte le
collegazioni e di pietre e di impernature e di morse; et investigando a tutte le
pietre grosse una buca nel mezzo per ciascuna in sotto squadra, trovò esser quel
ferro, che è da noi chiamato la ulivella, con che si tira su le pietre; et egli
lo rinovò e messelo in uso di poi. Fu adunque da lui messo da parte, ordine per
ordine, dorico, ionico e corinzio: e fu tale questo studio, che rimase il suo
ingegno capacissimo di potere veder nella immaginazione Roma come ella stava
quando non era rovinata. Fece l'aria di quella città un poco di novità l'anno
1407 a Filippo; onde egli, consigliato da' suoi amici a mutar aria, se ne tornò
a Fiorenza. Nella quale, per l'assenza sua, si era patito in molte muraglie, per
le quali diede egli a la sua venuta molti disegni e molti consigli. Fu fatto il
medesimo anno una ragunata d'architettori e d'ingegneri del paese, sopra il modo
del voltar la cupola, dagli Operai di Santa Maria del Fiore e da' Consoli
dell'Arte della Lana, intra' quali intervenne Filippo, e dette consiglio che era
necessario cavare l'edifizio fuori del tetto e non fare secondo il disegno
d'Arnolfo, ma fare un fregio di braccia XV d'altezza et in mezzo a ogni faccia
fare un occhio grande, perché oltra che leverebbe il peso fuor delle spalle
delle tribune, verrebbe la cupola a voltarsi più facilmente. E così se ne fece
modelli e si messe in esecuzione.

Filippo, dopo alquanti mesi riavuto, essendo una mattina in su la piazza di
S. Maria del Fiore con Donato et altri artefici, si ragionava delle antichità
delle cose della scultura, e raccontando Donato che quando e' tornava da Roma
aveva fatto la strada da Orvieto per veder quella facciata del Duomo di marmo,
tanto celebrata, lavorata di mano di diversi maestri, tenuta cosa notabile in
que' tempi; e che nel passar poi da Cortona entrò in Pieve, e vide un pilo
antico bellissimo dove era una storia di marmo, cosa allora rara non essendosi
disotterrata quella abbondanza che si è fatta ne' tempi nostri, e così seguendo
Donato il modo che aveva usato quel maestro a condurre quell'opera, e la fine
che vi era dentro, insieme con la perfezzione e bontà del magisterio, accese sì
Filippo di una ardente volontà di vederlo, che così come egli era, in mantello,
in cappuccio et in zoccoli, senza dir dove andasse, si partì da loro a piedi e
si lasciò portare a Cortona dalla volontà et amore ch'e' portava all'arte. E
veduto e piaciutogli il pilo, lo ritrasse con la penna in disegno; e con quello
tornò a Fiorenza, senza che Donato o altra persona si accorgesse che fusse
partito, pensando che e' dovesse disegnare o fantasticare qualcosa.

Così tornato in Fiorenza li mostrò il disegno del pilo, da lui con pazienza
ritratto; per il che Donato si maravigliò assai, vedendo quanto amore Filippo
portava all'arte. Stette poi molti mesi in Fiorenza, dove egli faceva
segretamente modelli et ingegni, tutti per l'opera della cupola, stando tuttavia
con gli artefici in su le baie; ché allora fece egli quella burla del Grasso e
di Matteo, et andando bene spesso per suo diporto ad aiutare a Lorenzo Ghiberti a rinettar qualcosa in su le
porte. Ma toccoli una mattina la fantasia, sentendo che si ragionava del far
provisione di ingegneri che voltassino la cupola, si ritornò a Roma, pensando
con più riputazione avere a esser ricerco di fuora che non arebbe fatto stando
in Fiorenza. Laonde, trovandosi in Roma e venuto in considerazione l'opera e
l'ingegno suo acutissimo, per aver mostro ne' ragionamenti suoi quella sicurtà e
quello animo che non avevasi trovato negli altri maestri, i quali stavono
smarriti insieme con i muratori, perdute le forze, e non pensando poter mai
trovar modo da voltarla, né legni da fare una travata che fusse sì forte che
regesse l'armadura et il peso di sì grande edifizio, deliberati vederne il fine,
scrissono a Filippo a Roma, con pregarlo che venisse a Fiorenza. Et egli, che
non aveva altra voglia, molto cortesemente tornò. E ragunatosi a sua venuta
l'ufizio delli Operai di S. Maria del Fiore et i Consoli dell'Arte della Lana,
dissono a Filippo tutte le difficultà, da la maggiore a la minore, che facevano
i maestri, i quali erano in sua presenza nella udienza insieme con loro, per il
che Filippo disse queste parole: «Signori Operai, e' non è dubbio che le cose
grandi hanno sempre nel condursi difficultà, e se niuna n'ebbe mai, questa
vostra l'ha maggiore che voi per avventura non avisate. Perciò che io non so che
neanco gl'antichi voltassero mai una volta sì terribile come sarà questa, et io,
che ho molte volte pensato all'armadure di dentro e di fuori, e come si sia, per
potervi lavorare sicuramente, non mi sono mai saputo risolvere; mi sbigottisce
non meno la larghezza, che l'altezza dell'edifizio; perciò che se ella si
potesse girar tonda, si potrebbe tenere il modo che tennero i Romani nel voltare
il Panteon di Roma, cioè la Ritonda, ma qui bisogna seguitare l'otto facce et
entrare in catene et in morse di pietre, che sarà molto difficile. Ma
ricordandomi che questo è tempio sacrato a Dio et alla Vergine, mi confido che,
faccendosi in memoria sua, non mancherà di infondere il sapere dove non sia et
agiugnere le forze e la sapienza e l'ingegno, a chi sarà autore di tal cosa. Ma
che posso io in questo caso giovarvi, non essendo mia l'opera? Bene vi dico che
se ella toccasse a me, risolutissimamente mi basterebbe l'animo di trovare il
modo che ella si volterebbe, senza tante difficultà. Ma io non ci ho pensato su
ancor niente, e volte che io vi dica il modo? Ma quando pure le Signorie Vostre
delibereranno che ella si volti, sarete forzati non solo a fare esperimento di
me che non penso bastare a consigliare sì gran cosa, ma a spendere et ordinare
che fra uno anno di tempo, a un dì determinato, venghino in Fiorenza
architettori, non solo toscani et italiani, ma todeschi e franzesi e d'ogni
nazione, e proporre loro questo lavoro, acciò che disputato e risoluto fra tanti
maestri, si cominci e si dia a colui che più dirittamente darà nel segno, o
averà miglior modo e giudizio per fare tale opera. Né vi saperei dare io altro
consiglio, né migliore ordine di questo».

Piacque ai Consoli et agli Operai l'ordine et il consiglio di Filippo, ma
arebbono voluto che in questo mentre egli avesse fatto un modello, e che ci
avesse pensato su. Ma egli mostrava di non curarsene, anzi, preso licenzia da
loro, disse esser sollecitato con lettere a tornare a Roma. Avvedutosi dunque i
Consoli che i prieghi loro e degli Operai non erano bastanti a fermarlo, lo
feciono pregare da molti amici suoi, e non si piegando, una mattina che fu a dì
26 di maggio 1417, gli fecero gli Operai uno stanziamento di una mancia di
danari, i quali si truovano a uscita a Filippo ne' libri dell'Opera, e tutto era
per agevolarlo. Ma egli, saldo nel suo proposito, partitosi pure di Fiorenza, se
ne tornò a Roma, dove sopra tal lavoro di continuo studiò, ordinando e
preparandosi per il fine di tale opera, pensando, come era certamente, che altro
che egli non potesse condurre tale opera. Et il consiglio dato, del condurre
nuovi architettori, non l'aveva Filippo messo inanzi per altro, se non perché
eglino fussino testimoni del grandissimo ingegno suo; più che perché e' pensasse
che eglino avessino ad aver ordine di voltar quella tribuna e di pigliare tal
carico che era troppo difficile. E così si consumò molto tempo, inanzi che
fussino venuti quegli architetti de' lor paesi, che eglino avevano di lontano
fatti chiamare, con ordine dato a' mercanti fiorentini che dimoravano in
Francia, nella Magna, in Inghilterra et in Ispagna; i quali avevano commissione
di spendere ogni somma di danari, per mandare ed ottenere da que' principi, i
più esperimentati e valenti ingegni che fussero in quelle regioni. Venuto l'anno
1420, furono finalmente ragunati in Fiorenza tutti questi maestri oltramontani,
e così quelli della Toscana e tutti gli ingegnosi artefici di disegno
fiorentini, e così Filippo tornò da Roma. Ragunaronsi dunque tutti nella Opera
di Santa Maria del Fiore, presenti i Consoli e gli Operai, insieme con una
scelta di cittadini i più ingegnosi, acciò che, udito sopra questo caso l'animo
di ciascuno, si risolvesse il modo di voltare questa tribuna; chiamati dunque
nella udienza, udirono a uno a uno l'animo di tutti, e l'ordine che ciascuno
architetto sopra di ciò aveva pensato. E fu cosa bella il sentir le strane e
diverse openioni in tale materia; perciò che chi diceva di far pilastri murati
da 'l piano della terra, per volgervi su gli archi, e tenere le travate per
reggere il peso; altri che egli era bene voltarla di spugne, acciò fusse più
leggieri il peso: e molti si accordavano a fare un pilastro in mezzo, e condurla
a padiglione, come quella di S. Giovanni di Fiorenza. E non mancò chi dicesse
che sarebbe stato bene empierla di terra e mescolare quattrini fra essa, acciò
che volta, dessino licenzia che chi voleva di quel terreno potessi andare per
esso; e così in un subito il popolo lo portasse via senza spesa. Solo Filippo
disse che si poteva voltarla senza tanti legni e senza pilastri o terra, con
assai minore spesa di tanti archi e facilissimamente senza armadura.

Parve a' Consoli, che stavano ad aspettare quel bel modo, et agli Operai et a
tutti que' cittadini, che Filippo avesse detto una cosa da sciocchi, e se ne
feciono beffe ridendosi di lui; e si volsono, e li dissono ch'e' ragionasse
d'altro che quello era un modo da pazzi, come era egli. Perché, parendo a
Filippo di essere offeso, disse: «Signori, considerate che non è possibile
volgerla in altra maniera che in questa; e ancora che voi vi ridiate di me,
conoscerete (se non volete esser ostinati) non doversi né potersi far in altro
modo. Et è necessario, volendola condurre nel modo ch'io ho pensato, che ella si
giri col sesto di quarto acuto, e facciasi doppia, l'una volta di dentro e
l'altra di fuori, in modo che fra l'una e l'altra si cammini. Et in su le
cantonate degli angoli delle otto facce con le morse di pietra, s'incateni la
fabbrica per la grossezza similmente, con catene di legnami di quercia si giri
per le facce di quella. Et è necessario pensare a' lumi, alle scale et ai
condotti, dove l'acque nel piovere possino uscire. E nessuno di voi ha pensato
che bisogna avvertire che si possa fare i ponti di dentro per fare i musaici et
una infinità di cose difficili, ma io, che la veggo volta, conosco che non ci è
altro modo né altra via da potere volgerla che questa ch'io ragiono». E
riscaldato nel dire, quanto e' cercava facilitare il concetto suo, acciò che
eglino lo intendessino e credessino, tanto veniva proponendo più dubbii che gli
faceva meno credere e tenerlo una bestia et una cicala. Laonde, licenziatolo
parecchie volte, et alla fine non volendo partire, fu portato di peso dai
donzelli loro fuori dell'udienza, tenendolo del tutto pazzo. Il quale scorno fu
cagione che Filippo ebbe a dire poi che non ardiva passare per luogo alcuno
della città, temendo non fusse detto: «Vedi colà quel pazzo». Restati i Consoli
nell'udienza confusi, e dai modi de' primi maestri, difficili, e da l'ultimo di
Filippo, a loro sciocco, parendo loro come e' confondesse quell'opera con due
cose: l'una era il farla doppia, che sarebbe stato pur grandissimo e sconcio
peso; l'altra il farla senza armadura. Da l'altra parte Filippo, che tanti anni
aveva speso nelli studii per avere questa opera, non sapeva che si fare e fu
tentato partirsi di Fiorenza più volte. Pure volendo vincere gli bisognava
armarsi di pazienza, avendo egli tanto di vedere, che conosceva i cervelli di
quella città non stare molto fermi in un proposito. Averebbe potuto mostrare
Filippo un modello piccolo che aveva fatto; ma non volle mostrarlo, avendo
conosciuto la poca intelligenza de' Consoli, l'invidia degli artefici e la poca
stabilità de' cittadini che favorivano chi l'uno e chi l'altro, secondo che più
piaceva a ciascuno; et io non me ne maraviglio, facendo in quella città
professione ognuno di sapere in questo quanto i maestri esercitati fanno, come
che pochi siano quelli che veramente intendono: e ciò sia detto con pace di
coloro che sanno. Quello, dunque, che Filippo non aveva potuto fare nel
magistrato, cominciò a trattar in disparte, favellando or' a questo Consolo ora
a quello Operaio, e similmente a molti cittadini, mostrando parte del suo
disegno, gli ridusse che si deliberarono a fare allogazione di questa opera o a
lui o a uno di que' forestieri. Per la qual cosa, inanimiti i Consoli e gli
Operai e que' cittadini, si ragunarono tutti insieme, e gli architetti
disputarono di questa materia; ma furon, con ragioni assai, tutti abbattuti e
vinti da Filippo; dove si dice che nacque la disputa dell'uovo in questa forma:
eglino arebbono voluto che Filippo avesse detto l'animo suo minutamente e mostro
il suo modello, come avevano mostro essi il loro; il che non volle fare, ma
propose questo a' maestri e forestieri e terrazzani, che chi fermasse in sur un
marmo piano un uovo ritto, quello facesse la cupola, che quivi si vedrebbe
l'ingegno loro. Tolto dunque un uovo, tutti qu' maestri si provarono per farlo
star ritto, ma nessuno trovò il modo. Onde, essendo detto a Filippo ch' e' lo
fermasse, egli con grazia lo prese e datoli un colpo del culo in sul piano del
marmo, lo fece star ritto. Rumoreggiando gl'artefici che similmente arebbono
saputo fare essi, rispose loro Filippo ridendo che gli arebbono ancora saputo
voltare la cupola, vedendo il modello o il disegno. E così fu risoluto ch'egli
avesse carico di condurre questa opera, e dettoli che ne informasse meglio i
Consoli e gli Operai.

Andatosene dunque a casa, in sur un foglio scrisse l'animo suo più
apertamente che poteva per darlo al magistrato in questa forma: «Considerato le
difficultà di questa fabbrica, magnifici Signori Operai, trovo che non si può
per nessun modo volgerla tonda perfetta, atteso che sarebbe tanto grande il
piano di sopra, dove va la lanterna, che mettendovi peso rovinerebbe presto.
Però mi pare che quegli architetti che non hanno l'occhio all'eternità della
fabrica, non abbino amore alle memorie, né sappiano per quel che elle si fanno.
E però mi risolvo girar di dentro questa volta a spicchi come stanno le facce e
darle la misura et il sesto del quarto acuto: perciò che questo è un sesto che
girato sempre pigne allo in su, e caricatolo con la lanterna, l'uno con l'altro
la farà durabile. E vuole esser grossa, nella mossa da piè braccia tre e tre
quarti, et andare piramidalmente strignendosi di fuora per fino dove ella si
serra e dove ha a essere la lanterna. E la volta vuole essere congiunta alla
grossezza di braccia uno et un quarto; poi farassi dal lato di fuora un'altra
volta, che da piè sia grossa braccia due e mezzo, per conservare quella di
dentro da l'acqua. La quale anco piramidalmente diminuisca a proporzione, in
modo che si congiunga al principio della lanterna, come l'altra, tanto che sia
in cima la sua grossezza duoi terzi. Sia per ogni angolo uno sprone, che saranno
otto in tutto; et in ogni faccia due, cioè nel mezzo di quella, che vengono a
essere sedici; e dalla parte di dentro e di fuori nel mezzo di detti angoli, in
ciascheduna faccia, siano due sproni, ciascuno grosso da piè braccia quattro. E
lunghe vadino insieme le dette due volte, piramidalmente murate, insino alla
sommità dell'occhio chiuso dalla lanterna, per eguale proporzione. Facciansi poi
ventiquattro sproni con le dette volte murati intorno, e sei archi di macigni
forti e lunghi, bene sprangati di ferri, i quali sieno stagnati, e sopra detti
macigni, catene di ferro, che cinghino la detta volta con loro sproni. Hassi a
murare di sodo, senza vano, nel principio l'altezza di braccia cinque et un
quarto, e di poi seguitar gli sproni, e si dividino le volte. Il primo e secondo
cerchio da piè, sia rinforzato per tutto, con macigni lunghi per il traverso, sì
che l'una volta e l'altra della cupola si posi in sui detti macigni. E nella
altezza d'ogni braccia IX delle dette volte, siano volticciuole tra l'uno sprone
e l'altro con catene di legno di quercia grosse, che leghino i detti sproni che
reggono la volta di dentro: e siano coperte poi dette catene di quercia, con
piastre di ferro per l'amor delle salite. Gli sproni murati tutti di macigni e
di pietra forte, e similmente le facce della cupola tutte di pietra forte,
legate con gli sproni fino all'altezza di braccia ventiquattro, e da indi in su
si muri di mattoni, o vero di spugna, secondo che si delibererà per chi l'averà
a fare, più leggieri che egli potrà. Facciasi di fuori un andito sopra gl'occhi,
che sia di sotto ballatoio, con parapetti straforati d'altezza di braccia due,
all'avenante di quelli delle tribunette di sotto; o veramente due anditi l'un
sopra l'altro in sur una cornice bene ornata, e l'andito di sopra sia scoperto.
L'acque della cupola terminino in su una ratta di marmo larga un terzo, e getti
l'acqua dove di pietra forte sarà murato sotto la ratta; facciansi otto coste di
marmo agli angoli nella superficie della cupola di fuori, grossi come si
richiede et alti un braccio sopra la cupola, scorniciato a tetto, largo braccia
due che vi sia del colmo e della gronda da ogni parte; muovansi piramidali dalla
mossa loro, per infino alla fine. Murinsi le cupole nel modo di sopra, senza
armadure, per fino a braccia trenta, e da indi in su in quel modo che sarà
consigliato, per que' maestri che l'averano a murare; perché la pratica insegna
quel che si ha a seguire».

Finito che ebbe Filippo di scrivere quanto di sopra, andò la mattina al
magistrato, e dato loro questo foglio, fu considerato da loro il tutto; et
ancora che eglino non ne fussino capaci, vedendo la prontezza dell'animo di
Filippo e che nessuno degli altri architetti non andava con miglior gambe, per
mostrare egli una sicurtà manifesta nel suo dire col replicare sempre il
medesimo in sì fatto modo, che pareva certamente che egli ne avessi volte dieci,
tiratisi da parte i Consoli, consultorono di dargliene; ma che arebbono voluto
vedere un poco di sperienza, come si poteva volger questa volta senza armadura,
perché tutte l'altre cose approvavono. Al quale disiderio fu favorevole la
fortuna, perché avendo già voluto Bartolomeo Barbadori far fare una cappella in
S. Filicita e parlatone con Filippo, egli v'aveva messo mano e fatto voltar
senza armadura quella capella ch'è nello entrare in chiesa a man ritta, dove è
la pila dell'acqua santa, pur di sua mano; e similmente in que' dì ne fece
voltare un'altra in S. Iacopo sopr'Arno per Stiatta Ridolfi, allato alla
cappella dell'altar maggiore. Le quali furon cagione che gli fu dato più credito
che alle parole. E così, assicurati i Consoli e gli Operai per lo scritto e per
l'opera che avevano veduta, gli allogorono la cupola, facendolo capo maestro
principale per partito di fave. Ma non gliene obligarono se non braccia dodici
d'altezza, dicendoli che volevano vedere come riusciva l'opera; e che riuscendo
come egli diceva loro, non mancherebbono fargli allogagione del resto. Parve
cosa strana a Filippo il vedere tanta durezza e diffidenza ne' Consoli et
Operai; e se non fusse stato che sapeva che egli era solo per condurla, non ci
arebbe messo mano; pur, come disideroso di conseguire quella gloria, la prese e
di condurla a fine perfettamente si obligò. Fu fatto copiare il suo foglio in su
un libro dove il proveditore teneva i debitori et i creditori de' legnami e de'
marmi, con l'obligo su detto; facendoli la provisione medesima per partito di
quel]e paghe che avevano fino allora date agli altri capi maestri. Saputasi la
allogazione fatta a Filippo per gli artefici e per i cittadini, a chi pareva
bene et a chi male, come sempre fu il parere del popolo e degli spensierati e
degli invidiosi. Mentre che si faceva le provisioni per cominciare a murare, si
destò su una setta fra artigiani e cittadini, e fatto testa a' Consoli et
agl'Operai, dissono che si era corsa la cosa e che un lavoro simile a questo non
doveva esser fatto per consiglio di un solo, e che se eglino fussin privi
d'uomini eccellenti, come eglino ne avevono abbondanza, saria da perdonare loro;
ma che non passava con onore della città, perché venendo qualche disgrazia, come
nelle fabriche suole alcuna volta avvenire, potevano essere biasimati, come
persone che troppo gran carico avessino dato a un solo, senza considerare il
danno e la vergogna che al publico ne potrebbe risultare: e che però, per
affrenare il furore di Filippo era bene aggiugnergli un compagno.

Era Lorenzo Ghiberti venuto in molto credito, per
aver già fatto esperienza del suo ingegno nelle porte di Santo Giovanni, e che
e' fusse amato da certi che molto potevano nel governo, si dimostrò assai
chiaramente perché, nel vedere tanto crescere la gloria di Filippo, sotto spezie
di amore e di affezione verso quella fabbrica, operarono di maniera appresso de'
Consoli e degli Operai che fu unito compagno di Filippo in questa opera. In
quanta disperazione et amaritudine si trovassi Filippo, sentendo quel che
avevano fatto gli Operai, si conosce da questo, che fu per fuggirsi da Fiorenza;
e se non fussi stato Donato e Luca della Robbia che lo confortavano, era per
uscire fuor di sé. Veramente empia e crudel rabbia è quella di coloro che,
accecati dall'invidia, pongono a pericolo gli onori e le belle opere, per la
gara della ambizione. Da loro certo non restò che Filippo non ispezzasse i
modelli, abruciasse i disegni et in men di mezza ora precipitasse tutta quella
fatica che aveva condotta in tanti anni. Gl'Operai, scusatisi prima con Filippo,
lo confortarono a andare inanzi, che lo inventore et autore di tal fabrica era
egli, e non altri; ma tuttavolta fecero a Lorenzo il medesimo salario che a
Filippo. Fu seguitato l'opera con poca voglia di lui, conoscendo avere a durare
le fatiche che ci faceva, e poi avere a dividere l'onore e la fama a mezzo con
Lorenzo. Pure messosi in animo che troverrebbe modo che non durerebbe troppo in
questa opera, andava seguitando insieme con Lorenzo nel medesimo modo che stava
lo scritto dato agli operai. Destossi in questo mentre nello animo di Filippo un
pensiero di volere fare un modello, che ancora non se ne era fatto nessuno; e
così messo mano, lo fece lavorare a un Bartolomeo legnaiuolo, che stava dallo
Studio. Et in quello, come il proprio, misurato appunto in quella grandezza,
fece tutte le cose difficili, come scale alluminate e scure e tutte le sorti de'
lumi, porte e catene e speroni; e vi fece un pezzo d'ordine del ballatoio. Il
che avendo inteso, Lorenzo cercò di vederlo, ma perché Filippo gliene negò,
venutone in collora, diede ordine di fare un modello egli ancora, accio che e'
paresse che il salario che tirava non fusse vano e che ci fusse per qual cosa.
De' quali modelli, quel di Filippo fu pagato lire cinquanta e soldi quindici;
come si trova in uno stanziamento al libro di Migliore di Tommaso a dì tre
d'ottobre nel 1419; et a uscita di Lorenzo Ghiberti lire trecento, per fatica e
spesa fatta nel suo modello: causato ciò dalla amicizia e favore che egli aveva,
più che da utilità o bisogno che ne avesse la fabbrica. Durò questo tormento in
su gli occhi di Filippo per fino al 1426, chiamando coloro Lorenzo parimente che
Filippo, inventori; lo qual disturbo era tanto potente nello animo di Filippo,
che egli viveva con grandissima passione. Fatto adunque varie e nuove
immaginazioni, deliberò al tutto de levarselo da torno, conoscendo quanto e'
valesse poco in quell'opera. Aveva Filippo fatto voltare già intorno la cupola
fra l'una volta e l'altra dodici braccia e quivi avevano a mettersi su le catene
di pietra e di legno: il che per essere cosa difficile, ne volle parlare con
Lorenzo per tentare se egli avesse considerato questa difficultà. E trovollo
tanto digiuno circa lo avere pensato a tal cosa, che e' rispose che la rimetteva
in lui come inventore. Piacque a Filippo la risposta di Lorenzo, parendoli che
questa fusse la via di farlo allontanare dall'opera e da scoprire che non era di
quella intelligenza che lo tenevano gli amici suoi et il favore che lo aveva
messo in quel luogo. Dopo, essendo già fermi tutti i muratori dell'opera,
aspettavano di dovere cominciare sopra le dodici braccia e far le volte et
incatenarle essendosi cominciato a stringere la cupola da sommo, per lo che fare
erano forzati fare i ponti, acciò che i manovali e' muratori potessino lavorare
senza pericolo, atteso che l'altezza era tale che solamente guardando allo ingiù
faceva paura e sbigotimento a ogni sicuro animo. Stavasi dunque dai muratori e
dagli altri maestri ad aspettare il modo della catena e de' ponti: né
resolvendosi niente per Lorenzo né per Filippo, nacque una mormorazione fra i
muratori e gli altri maestri, non vedendo sollecitare come prima; e perché essi,
che povere persone erano, vivevano sopra le lor braccia, e dubitavano che né
all'uno né all'altro bastasse l'animo di andare più su con quella opera, il
meglio che sapevano e potevano, andavano trattenendosi per la fabrica,
ristoppando e ripulendo tutto quel che era murato fino allora. Una mattina infra
le altre, Filippo non capitò al lavoro, e fasciatosi il capo entrò nel letto, e
continuamente gridando si fece scaldare taglieri e panni con una sollecitudine
grande, fingendo avere mal di fianco. Inteso questo, i maestri che stavano
aspettando l'ordine di quel che avevano a lavorare dimandarono Lorenzo quel che
avevano a seguire: rispose che l'ordine era di Filippo e che bisognava aspettare
lui. Fu chi gli disse: «Oh non sai tu l'animo suo?» «Sì», disse Lorenzo «ma non
farei niente senza esso.» E questo lo disse in escusazion sua, che non avendo
visto il modello di Filippo e non gli avendo mai dimandato che ordine e' volesse
tenere, per non parer ignorante, stava sopra di sé nel parlare di questa cosa e
rispondeva tutte parole dubbie, massimamente sapendo essere in questa opera
contra la voluntà di Filippo. Al quale durato già più di dua giorni il male, et
andato a vederlo il proveditore dell'Opera et assai capomaestri muratori, di
continuo li domandavano che dicesse quello che avevono a fare. Et egli: «Voi
avete Lorenzo, faccia un poco egli». Né altro si poteva cavare. Laonde,
sentendosi questo, nacque parlamenti e giudizi di biasimo grandi sopra questa
opera: chi diceva che Filippo si era messo nel letto per il dolore che non gli
bastava l'animo di voltarla; e ch'e' si pentiva d'essere entrato in ballo. Et i
suoi amici lo difendevano, dicendo esser, se pure era il dispiacere, la villania
dell'avergli dato Lorenzo per compagno; ma che il suo era mal di fianco, causato
dal molto faticarsi per l'opera.

Così dunque rumoreggiandosi, era fermo il lavoro, e quasi tutte le opere de'
muratori e scarpellini si stavano; e mormorando contro a Lorenzo dicevano:
«Basta ch'e' gli è buono a tirare il salario, ma a dare ordine ch'e' si lavori,
no. 0 se Filippo non ci fusse, o se egli avessi mal lungo, come farebbe egli?
Che colpa è la sua, se egli sta male?». Gli Operai vistosi in vergogna per
questa pratica, deliberorono d'andare a trovar Filippo; et arrivati,
confortatolo prima del male, gli dicono in quanto disordine si trovava la
fabbrica et in quanto travaglio gli avesse messo il mal suo. Per il che Filippo
con parole appassionate, e dalla finzione del male, e dell'amore dell'opera: «0
non ci è egli» disse, «Lorenzo? Che non fa egli? Io mi maraviglio pur di voi».
Allora gli risposono gli Operai: «E' non vuol far niente senza di te». Rispose
loro Filippo: «Lo farei ben io senza lui». La qual risposta argutissima e doppia
bastò loro; e partiti, conobbono che egli aveva male di voler far solo.
Mandarono dunque amici suoi a cavarlo del letto, con intenzione di levar Lorenzo
dell'opera; e così venuto Filippo in su la fabbrica, vedendo lo sforzo del
favore in Lorenzo, e che egli arebbe il salario senza far fatica alcuna, pensò a
un altro modo per scornarlo e per publicarlo interamente per poco intendente in
quel mestiero; e fece questo ragionamento agli Operai, presente Lorenzo:
«Signori Operai, il tempo che ci è prestato di vivere, se egli stesse a posta
nostra come il poter morire, non è dubbio alcuno che molte cose che si
cominciano, resterebbono finite, dove elleno rimangono imperfette; il mio
accidente, del male che ho passato, poteva tormi la vita e fermare questa opera;
però, acciò che se mai più io ammalassi o Lorenzo, che Dio ne lo guardi, possa
l'uno o l'altro seguitare la sua parte, ho pensato che così come le Signorie
Vostre ci hanno diviso il salario, ci dividino ancora l'opera, acciò che
spronati dal mostrare ognuno quel che sa, possa sicuramente acquistar onore et
utile appresso a questa republica. Sono adunque due cose le difficili, che al
presente si hanno a mettere in opera: l'una è i ponti, perché i muratori possino
murare, che hanno a servire dentro e di fuori della fabrica, dove è necessario
tener su uomini, pietre e calcina, e che vi si possa tener su la burbera da
tirar pesi, e simili altri strumenti; e l'altra è la catena, che si ha a mettere
sopra le dodici braccia, che venga legando le otto facce della cupola et
incatenando la fabrica, che tutto il peso che di sopra si pone, stringa e serri,
di maniera che non sforzi o allarghi il peso, anzi egualmente tutto lo edifizio
resti sopra di sé. Pigli Lorenzo, adunque, una di queste parte, quale egli più
facilmente creda esequire, che io l'altra senza dificultà mi proverò di
condurre, acciò non si perda più tempo». Ciò udito fu forzato Lorenzo non
ricusare per l'onore suo uno di questi lavori, et ancora che mal volentieri lo
facesse, si risolvé a pigliar la catena, come cosa più facile, fidandosi ne'
consigli de' muratori et in ricordarsi che nella volta di S. Giovanni di
Fiorenza era una catena di pietra, dalla quale poteva trarre parte, se non tutto
l'ordine. E così l'uno messo mano a' ponti, l'altro alla catena, l'uno e l'altro
finì. Erano i ponti di Filippo fatti con tanto ingegno et industria, che fu
tenuto veramente in questo il contrario di quello che per lo adietro molti si
erano immaginati, perché così sicuramente vi lavoravano i maestri e tiravono
pesi e vi stavano sicuri, come se nella piana terra fussino; e ne rimase i
modelli di detti ponti nell'opera. Fece Lorenzo, in una dell'otto facce, la
catena con grandissima difficultà; e finita fu dagli Operai fatta vedere a
Filippo, il quale non disse loro niente, ma con certi amici suoi ne ragionò,
dicendo che bisognava altra legatura che quella, e metterla per altro verso che
non avevano fatto, e che al peso che vi andava sopra non era sufficiente, perché
non stringeva tanto che fusse a bastanza, e che la provisione che si dava a
Lorenzo era, insieme con la catena che egli aveva fatta murare, gittata via. Fu
inteso l'umore di Filippo e li fu commesso che e' mostrassi come si arebbe a
fare che tal catena adoperasse. Onde, avendo egli già fatto disegni e modelli,
subito gli mostrò, e veduti dagli Operai e dagli altri maestri, fu conosciuto in
che errore erano cascati per favorire Lorenzo; e volendo mortificare questo
errore, e mostrare che conoscevano il buono, feciono Filippo governatore e capo
a vita di tutta la fabbrica, e che non si facesse di cosa alcuna in quella opera
se non il voler suo; e per mostrare di riconoscerlo li donorono cento fiorini,
stanziati per i Consoli et Operai sotto dì 13 d'agosto 1423 per mano di Lorenzo
Pauli notaio dell'Opera, a uscita di Gherardo di Messer Filippo Corsini, e li
feciono provisione per partito, di fiorini cento l'anno per sua provisione a
vita. Così, dato ordine a far camminare la fabbrica, la seguitava con tanta
obedienza e con tanta accuratezza, che non si sarebbe murata una pietra che non
l'avesse voluta vedere. Dall'altra parte Lorenzo, trovandosi vinto e quasi
svergognato, fu da' suoi amici favorito et aiutato talmente che tirò il salario,
mostrando che non poteva essere casso, per infino a tre anni di poi. Faceva
Filippo di continovo, per ogni minima cosa, disegni e modelli di castelli da
murare, et edifizii da tirar pesi. Ma non per questo restavano alcune persone
malotiche, amici di Lorenzo, di farlo disperare, con tutto il dì farli modelli
contro, per concorrenza; intanto che ne fece uno maestro Antonio da Verzelli et
altri maestri favoriti e messi inanzi ora da questo cittadino et ora da
quell'altro, mostrando la volubilità loro, il poco sapere et il manco intendere,
avendo in man le cose perfette e mettendo inanzi l'imperfette e disutili. Erano
già le catene finite intorno intorno all'otto facce, et i muratori inanimiti
lavoravano gagliardamente; ma sollecitati da Filippo più che 'I solito, per
alcuni rabbuffi avuti nel murare, e per le cose che accadevano giornalmente, se
lo erono recato a noia. Onde, mossi da questo e da invidia, si strinseno insieme
i capi faccendo setta, e dissono che era faticoso lavoro e di pericolo, e che
non volevon volgerla senza gran pagamento (ancora che più del solito loro fusse
stato cresciuto) pensano per cotal via di vendicarsi con Filippo e fare a sé
utile.

Dispiacque agli Operai questa cosa, et a Filippo similmente: e pensatovi su,
prese partito un sabato sera di licenziarli tutti. Coloro, vistosi licenziare, e
non sapendo che fine avesse ad avere questa cosa, stavano di mala voglia, quando
il lunedì seguente, messe in opera Filippo dieci lombardi, e con lo star quivi
presente, dicendo: «Fa qui così e fa qua», gli istruì in un giorno tanto, che ci
lavorarono molte settimane. Dall'altra parte i muratori, veggendosi licenziati e
tolto il lavoro e fattoli quello scorno, non avendo lavori tanto utili quanto
quello, messono mezzani a Filippo, che ritornarebbono volentieri,
raccomandandosi quanto e' potevano. Così li tenne molti dì in su la corda del
non gli voler pigliare, poi gli rimesse con minor salario, che eglino non
avevono in prima; e così, dove pensarono avanzare, persono, e con il vendicarsi
contro a Filippo, feciono danno e villania a se stessi.

Erano già fermi i romori e venuto tuttavia considerando, nel veder volger
tanto agevolmente quella fabbrica, l'ingegno di Filippo, e si teneva già, per
quelli che non avevano passione, lui aver mostrato quell'animo che forse nessuno
architetto antico o moderno nell'opere loro aveva mostro; e questo nacque perché
egli cavò fuori il suo modello; nel quale furono vedute per ognuno le
grandissime considerazioni che egli aveva imagina-tosi, nelle scale, nei lumi
dentro e fuori, che non si potesse percuotere nei bui per le paure e quanti
diversi appoggiatoi di ferri, che per salire dove era la ertezza erano posti,
con considerazione ordinati, oltra che egli aveva perfin pensato ai ferri, per
fare i ponti di dentro, se mai si avesse a lavorarvi o musaico o pitture; e
similmente per aver messo ne' luoghi men pericolosi le distinzioni degli
smaltitoi dell'acque, dove elleno andavano coperte e dove scoperte, e,
seguitando con ordine, buche e diversi apertoi, acciò che i venti si rompessino,
et i vapori, insieme con i tremuoti, non potessino far nocumento, mostrò quanto
lo studio nel suo stare a Roma tanti anni gli avesse giovato. Appresso,
considerando quello che egli aveva fatto nelle augnature, incastrature e
commettiture e legazioni di pietre, faceva tremare e temere a pensare che un
solo ingegno fusse capace di tanto, quanto era diventato quel di Filippo. Il
quale di continovo crebbe talmente, che nessuna cosa fu, quantunque difficile et
aspra, la quale egli non rendesse facile e piana; e lo mostrò nel tirare i pesi,
per via di contrapesi e ruote che un sol bue tirava quanto arebbono appena
tirato sei paia.

Era già cresciuta la fabbrica tanto alto, che era uno sconcio grandissimo,
salito che uno vi era, inanzi si venisse in terra; e molto tempo perdevano i
maestri nello andare a desinare e bere, e gran disagio per il caldo del giorno
pativano. Fu adunque trovato da Filippo ordine che si aprissero osterie nella
cupola con le cucine, e vi si vendesse il vino, e così nessuno si partiva del
lavoro se non la sera. Il che fu a loro commodità, et all'opera utilità
grandissima. Era sì cresciuto l'animo a Filippo, vedendo l'opera camminar forte,
e riuscire con felicità, che di continuo si affaticava; et egli stesso andava
alle fornaci dove si spianavano i mattoni, e voleva vedere la terra, et
impastarla, e cotti che erano, gli voleva scerre di sua mano con somma
diligenza. E nelle pietre a gli scarpellini guardava se vi era peli dentro, se
eran dure, e dava loro i modelli delle ugnature e commettiture di legname e di
cera, così fatti di rape; e similmente faceva de' ferramenti ai fabbri. E trovò
il modo de' gangheri col capo e degli arpioni, e facilitò molto l'architettura,
la quale certamente per lui si ridusse a quella perfezzione che forse ella non
fu mai appresso i Toscani.

Era l'anno 1423 Firenze in quella felicità et allegrezza che poteva essere,
quando Filippo fu tratto per il quartiere di San Giovanni, per maggio e giugno,
de' Signori, essendo tratto per il quartiere di Santa Croce gonfaloniere di
giustizia Lapo Niccolini. E se si truova registrato nel priorista Filippo di Ser
Brunellesco Lippi, niuno se ne dee maravigliare, perché fu così chiamato da Lippo suo avolo, e non de' Lapi come si doveva,
la qual cosa si vede nel detto priorista che fu usata in infiniti altri, come
ben sa chi l'ha veduto o sa l'uso di que' tempi. Esercitò Filippo quell'uffizio
e così altri magistrati ch'ebbe nella nostra città, ne' quali con un giudizio
gravissimo sempre si governò. Restava a Filippo, vedendo già cominciare a
chiudere le due volte verso l'occhio dove aveva a cominciare la lanterna (se
bene egli aveva fatto a Roma et in Fiorenza più modelli di terra e di legno,
dell'uno e dell'altro, che non s'erono veduti) a risolversi finalmente quale e'
volesse mettere in opera. Per il che, deliberatosi a terminare il ballatoio, ne
fece diversi disegni, che nell'opera rimasono dopo la morte sua; i quali dalla
trascuratagine di que' ministri sono oggi smarriti. Et a' tempi nostri, perché
si finisse, si fece un pezzo dell'una dell'otto facce: ma perché disuniva da
quell'ordine, per consiglio di Michelagnolo Bonarroti, fu dismesso e non
seguitato. Fece anco di sua mano Filippo un modello della lanterna, a otto
facce', misurato alla proporzione della cupola, che nel vero, per invenzione e
varietà et ornato, riuscì molto bello; vi fece la scala da salire alla palla,
che era cosa divina, ma perché aveva turato Filippo, con un poco di legno
commesso, di sotto dove s'entra, nessuno, se non egli, sapeva la salita. Et
ancora che è fusse lodato et avesse già abbattuto l'invidia e l'arroganza di
molti, non poté però tenere, nella veduta di questo modello, che tutti i maestri
che erano in Fiorenza non si mettessero a farne in diversi modi; e fino a una
donna di casa Gaddi ardì concorrere in giudizio con quello che aveva fatto
Filippo. Egli nientedimeno tuttavia si rideva della altrui prosunzione, e fugli
detto da molti amici suoi che e' non dovesse mostrare il modello suo a nessuno
artefice, acciò che eglino da quello non imparassero. Et esso rispondeva loro
che non era se non un solo il vero modello, e gli altri erano vani. Alcuni altri
maestri avevano nel loro modello posto delle parti di quel di Filippo, ai quali,
nel vederlo, Filippo diceva: «Questo altro modello che costui farà, sarà il mio
proprio». Era da tutti infinitamente lodato, ma solo non ci vedendo la salita
per ire alla palla, apponevano che fusse difettoso. Conclusero nondimeno
gl'0-perai di fargli allogazione di detta opera con patto però che mostrasse
loro la salita; per il che Filippo, levato nel modello quel poco di legno che
era da basso, mostrò in un pilastro la salita che al presente si vede in forma
di una cerbotana vota; e da una banda un canale con staffe di bronzo, dove l'un
piede e poi l'altro ponendo, s'ascende in alto. E perché non ebbe tempo di vita,
per la vecchiezza, di potere tal lanterna veder finita, lasciò per testamento
che tal come stava il modello murata fusse, e come aveva posto in iscritto;
altrimenti protestava che la fabbrica ruinerebbe essendo volta in quarto acuto,
che aveva bisogno che il peso la caricasse, per farla più forte. Il quale
edifizio non poté egli innanzi la morte sua vedere finito, ma sì bene tiratone
su parecchie braccia. Fece bene lavorare e condurre quasi tutti i marmi che vi
andavano, de' quali, nel vederli condotti, i popoli stupivano che fusse
possibile che egli volesse che tanto peso andasse sopra quella volta. Et era
opinione di molti ingegnosi che ella non fusse per reggere, e pareva loro una
gran ventura che egli l'avesse condotta in sin quivi, e che egli era un tentare
Dio a caricarla sì forte. Filippo sempre se ne rise, e preparate tutte le
machine e tutti gli ordigni che avevano a servire a murarla, non perse mai tempo
con la mente, di antivedere, preparare e provedere a tutte le minuterie, in fino
che non si scantonassino i marmi lavorati nel tirarli su; tanto che e' si
murarono tutti gli archi de' tabernacoli co' castelli di legname, e del resto,
come si disse, v'erano scritture e modelli. La quale opera quanto sia bella,
ella medesima ne fa fede, per essere d'altezza dal piano di terra a quello della
lanterna, braccia 154, e tutto il tempio della lanterna braccia 36, la palla di
rame braccia 4, la croce braccia otto, in tutto braccia 202. E si può dir certo
che gli antichi non andorono mai tanto alto con le lor fabbriche, né si messono
a un risico tanto grande che eglino volessino combattere col cielo; come par
veramente che ella combatta: veggendosi ella estollere in tant'altezza, che i
monti intorno a Fiorenza paiono simili a lei. E, nel vero, pare che il cielo ne
abbia invidia, poi che di continuo le saette tutto il giorno la percuotono.

Fece Filippo, mentre che questa opera si lavorava, molte altre fabbriche le
quali per ordine qui disotto narreremo.

Fece di sua mano il modello del capitolo in Santa Croce di Fiorenza, per la
famiglia de' Pazzi, cosa varia e molto bella; e 'l modello della casa de' Busini
per abitazione di due famiglie; e similmente il modello della casa e della
loggia degli'Innocenti, la volta della quale senza armadura fu condotta: modo
che ancora oggi si osserva per ognuno. Dicesi che Filippo fu condotto a Milano
per fare al duca Filippo Maria il modello d'una fortezza, e che a Francesco
della Luna, amicissimo suo, lasciò la cura di questa fabbrica degli Innocenti.
Il quale Francesco fece il ricignimento d'uno architrave che corre a basso, di
sopra, il quale secondo l'architettura è falso: onde tornato Filippo e
sgridatolo, perché tal cosa avesse fatto, rispose averlo cavato dal tempio di
San Giovanni che è antico. Disse Filippo: «Un error solo è in quello edifizio, e
tu l'hai messo in opera». Stette il modello di questo edifizio, di mano di
Filippo, molti anni nell'Arte di Por Santa Maria, tenutone molto conto per un
restante della fabbrica che si aveva a finire: oggi è smarritosi. Fece il
modello della Badia de' canonici Regolari di Fiesole, a Cosimo de' Medici, la
quale è molto ornata architettura, commoda et allegra et insomma veramente
magnifica. La chiesa, le cui volte sono a botte, è sfogata, e la sagrestia ha i
suoi commodi, sì come ha tutto il resto del monasterio. E quello che importa è
da considerare che dovendo egli nella scesa di quel monte mettere quello
edifizio in piano, si servì con molto giudizio del basso, facendovi cantine,
lavatoi, forni, stalle, cucine, stanze per legne et altre tante commodità che
non è possibile veder meglio; e così mise in piano la pianta dell'edifizio. Onde
potette a un pari fare poi le logge, il reffettorio, l'infermeria, il noviziato,
il dormentorio, la libreria e l'altre stanze principali d'un monasterio. Il che
tutto fece a sue spese il Magnifico Cosimo de' Medici, sì per la pietà che
sempre in tutte le cose ebbe verso la religione cristiana, e sì per l'affezzione
che portava a don Timoteo da Verona, eccellentissimo predicator di quell'ordine,
la cui conversazione per meglio poter godere, fece anco molte stanze per sé
proprio in quel monasterio, e vi abitava a suo commodo. Spese Cosimo in questo
edifizio, come si vede in una inscrizzione, centomila scudi.

Disegnò similmente il modello della fortezza di Vico Pisano: et a Pisa
disegnò la cittadella vecchia. E per lui fu fortificato il ponte a mare, et egli
similmente diede il disegno alla cittadella nuova del chiudere il ponte con le
due torri. Fece similmente il modello della fortezza del porto di Pesero. E
ritornato a Milano, disegnò molte cose per il Duca e per il Duomo di detta città
a' maestri di quello. Era in questo tempo principiata la chiesa di S. Lorenzo di
Fiorenza per ordine de' popolani, i quali avevano il priore fatto capo maestro
di quella fabbrica, persona che faceva professione d'intendersi e si andava
dilettando dell'architettura per passatempo. E già avevano cominciata la
fabbrica di pilastri di mattoni, quando Giovanni di Bicci de' Medici, il quale
aveva promesso a' popolani et al priore di far fare a sue spese la sagrestia et
una cappella, diede desinare una mattina a Filippo, e doppo molti ragionamenti,
li dimandò del principio di S. Lorenzo e quel che gli pareva. Fu costretto
Filippo da' prieghi di Giovanni a dire il parer suo; e per dirli il vero lo
biasimò in molte cose, come ordinato da persona che aveva forse più lettere che
sperienza di fabbriche di quella sorte. Laonde Giovanni dimandò a Filippo se si
poteva far cosa migliore, e di più bellezza; a cui Filippo disse: «Senza dubbio,
e mi maraviglio di voi, che essendo capo non diate bando a parecchi migliaia di
scudi, e facciate un corpo di chiesa con le parti convenienti et al luogo et a
tanti nobili sepoltuarii, che vedendovi cominciare, seguiteranno le lor
cappelle, con tutto quel che potranno; e massimamente che altro ricordo di noi
non resta, salvo le muraglie che rendono testimonio di chi n'è stato autore,
centinaia e migliaia d'anni». Inanimito Giovanni dalle parole di Filippo,
deliberò fare la sagrestia e la cappella maggiore, insieme con tutto il corpo
della chiesa, se bene non volsono concorrere altri che sette casati, appunto
perché gli altri non avevano il modo. E furono questi: Rondinelli, Ginori, dalla
Stufa, Neroni, Ciai, Marignolli, Martelli e Marco di Luca; e queste cappelle si
avevono a fare nella croce. La sagrestia fu la prima cosa a tirarsi inanzi e la
chiesa poi di mano in mano. E per la lunghezza della chiesa, si venne a
concedere poi di mano in mano le altre cappelle a' cittadini pur popolani. Non
fu finita di coprire la sagrestia, che Giovanni de' Medici passò a l'altra vita,
e rimase Cosimo suo figliuolo. Il quale avendo maggior animo che il padre,
dilettandosi delle memorie, fece seguitar questa la quale fu la prima cosa che
egli facesse murare, e gli recò tanta delettazione, che egli, da quivi inanzi,
sempre fino alla morte fece murare. Sollecitava Cosimo questa opera con più
caldezza, e mentre si imbastiva una cosa, faceva finire l'altra. Et avendo preso
per ispasso questa opera, ci stava quasi del continuo. E causò la sua
sollecitudine, che Filippo fornì la sagrestia, e Donato fece gli stucchi, e così
a quelle porticciuole l'ornamento di pietra e le porte di bronzo. E fece far la
sepoltura di Giovanni suo padre, sotto una gran tavola di marmo retta da quattro
balaustri in mezzo della sagrestia, dove si parano i preti: e per quelli di casa
sua nel medesimo luogo fece separata la sepoltura delle femmine da quella de'
maschi. Et in una delle due stanzette, che mettono in mezzo l'altare della detta
sagrestia, fece in un canto un pozzo et il luogo per un lavamani. Et insomma in
questa fabbrica si vede ogni cosa fatta con molto giudizio. Avevano Giovanni e
quegli altri ordinato fare iI coro nel mezzo, sotto la tribuna: Cosimo lo rimutò
col voler di Filippo, che fece tanto maggiore la cappella grande, che prima era
ordinata una nicchia più piccola, che e' vi si potette fare il coro come sta al
presente; e finita, rimase a fare la tribuna del mezzo, et il resto della
chiesa. La qual tribuna et il resto non si -voltò se non doppo la morte di
Filippo. Questa chiesa è di lunghezza braccia 144 e vi si veggono molti errori,
ma fra gl'altri quello delle colonne messe nel piano, senza mettervi sotto un
dado, che fusse tanto alto quanto era il piano delle base de' pilastri posati in
su le scale; cosa, che al vedere il pilastro più corto che la colonna, fa parere
zoppa tutta quell'opera. E di tutto furono cagione i consigli di chi rimase
doppo lui, che avevono invidia al suo nome, e che in vita gli avevano fatto i
modelli contro, de' quali nientedimeno erano stati, con sonetti fatti da
Filippo, svergognati; e doppo la morte, con questo se ne vendicorono non solo in
questa opera, ma in tutte quelle che rimasono da lavorarsi per loro. Lasciò il
modello, e parte della calonaca de' preti di esso San Lorenzo finita, nella
quale fece il chiostro lungo braccia 144.

Mentre che questa fabbrica si lavorava, Cosimo de' Medici voleva far fare il
suo palazzo, e così ne disse l'animo suo a Filippo; che posto ogni altra cura da
canto, gli fece un bellissimo e gran modello per detto palazzo, il quale situar
voleva dirimpetto a S. Lorenzo su la piazza intorno intorno isolato. Dove
l'artificio di Filippo s'era talmente operato, che, parendo a Cosimo troppo
suntuosa e gran fabbrica, più per fuggire l'invidia che la spesa, lasciò di
metterla in opera. E mentre che il modello lavorava, soleva dire Filippo che
ringraziava la sorte di tale occasione, avendo a fare una casa, di che aveva
avuto desiderio molti anni, et essersi abbattuto a uno che la voleva e poteva
fare. Ma intendendo poi la resoluzione di Cosimo, che non voleva tal cosa
mettere in opera, con isdegno in mille pezzi ruppe iI disegno. Ma bene si pentì
Cosimo di non avere seguito il disegno di Filippo, poi che egli ebbe fatto
quell'altro; il qual Cosimo soleva dire che non aveva mai favellato ad uomo di
maggior intelligenza et animo di Filippo.

Fece ancora il modello del bizzarrissimo tempio degl'Angeli per la nobile
famiglia degli Scolari; il quale rimase imperfetto e nella maniera che oggi si
vede, per avere i Fiorentini spesi i danari, che per ciò erano in sul Monte, in
alcuni bisogni della città, o come alcuni dicono, nella guerra che già ebbero
co' Lucchesi. Nel quale spesero ancora i danari che similmente erano stati
lasciati per far la Sapienza, da Niccolò da Uzzano, come in altro luogo si è a
lungo raccontato. E nel vero, se questo tempio degli Angeli si finiva secondo il
modello del Brunellesco, egli era delle più rare cose d'Italia: perciò che
quello che se ne vede non si può lodar a bastanza. Le carte della pianta e del
finimento del quale tempio a otto facce, di mano di Filippo, è nel nostro libro,
con altri disegni del medesimo. Ordinò anco Filippo a Messer Luca Pitti fuor
della porta a San Niccolò di Fiorenza in un luogo detto Ruciano, un ricco e
magnifico palazzo; ma non già a gran pezza simile a quello che per lo medesimo
cominciò in Firenze e condusse al secondo finestrato, con tanta grandezza e
magnificenza, che d'opera toscana non si è anco veduto il più raro né il più
magnifico. Sono le porte di questo doppie, la luce braccia sedici, e la
larghezza otto; le prime e le seconde finestre simili in tutto alle porte
medesime. Le volte sono doppie, e tutto l'edifizio in tanto artifizioso che non
si può imaginar né più bella né più magnifica architettura. Fu esecutore di
questo palazzo Luca Fancelli architetto fiorentino, che fece per Filippo molte
fabbriche, e per Leon Battista Alberti la cappella maggiore
della Nunziata di Firenze, a Lodovico Gonzaga; il quale lo condusse a Mantova,
dove egli vi fece assai opere, e quivi tolse donna e vi visse e morì, lasciando
agli eredi che ancora dal suo nome si chiamano i Luchi. Questo palazzo comperò,
non sono molti anni, l'illustrissima signora Leonora di Tolledo, duchessa di
Fiorenza, per consiglio dell'illustrissimo signor duca Cosimo, suo consorte. E
vi si allargò tanto intorno, che vi ha fatto un giardino grandissimo, parte in
piano e parte in monte e parte in costa; e l'ha ripieno con bellissimo ordine di
tutte le sorti arbori domestici e salvatichi, e fattovi amenissimi boschetti
d'infinite sorti verzure che verdeggiano d'ogni tempo, per tacere l'acque, le
fonti, i condotti, i vivai, le frasconaie e le spalliere, et altre infinite cose
veramente da magnanimo principe; le quali tacerò, perché non è possibile che chi
non le vede le possa immaginar mai di quella grandezza e bellezza che sono. E di
vero al duca Cosimo non poteva venire alle mani alcuna cosa più degna della
potenza e grandezza dell'animo suo di questo palazzo; il quale pare che
veramente fusse edificato da Messer Luca Pitti per sua eccellenza illustrissima
col disegno del Brunellesco. Lo lasciò Messer Luca imperfetto per i travagli che
egli ebbe per conto dello stato; e gli eredi, perché non avevano modo a finirlo,
acciò non andasse in rovina, furono contenti di compiacerne la signora duchessa;
la quale, mentre visse, vi andò sempre spendendo, ma non però in modo che
potesse sperare di così tosto finirlo. Ben è vero che se ella viveva, era
d'animo, secondo che già intesi, di spendervi in uno anno solo quarantamila
ducati per vederlo, se non finito, a bonissimo termine. E perché il modello di
Filippo non si è trovato, n'ha fatto fare sua eccellenza un altro a Bartolomeo
Ammannati, scultore et architetto eccellente, e secondo quello si va lavorando;
e già è fatto una gran parte del cortile d'opera rustica, simile al difuori. E
nel vero, chi considera la grandezza di quest'opera, stupisce come potesse
capire nell'ingegno di Filippo così grande edifizio magnifico veramente, non
solo nella facciata di fuori, ma ancora nello spartimento di tutte le stanze.
Lascio stare la veduta ch'è bellissima, et il quasi teatro, che fanno
l'amenissime colline che sono intorno al palazzo verso le mura: perché, com'ho
detto, sarebbe troppo lungo voler dirne a pieno; né potrebbe mai niuno che nol
vedesse imaginarsi quanto sia, a qualsivoglia altro regio edifizio, superiore.

Dicesi ancora che gl'ingegni del Paradiso di S. Filice in piazza, nella detta
città, furono trovati da Filippo, per fare la rappresentazione o vero festa
della Nunziata, in quel modo che anticamente a Firenze in quel luogo si
costumava di fare. La qual cosa invero era maravigliosa, e dimostrava l'ingegno
e l'industria di chi ne fu inventore: perciò che si vedeva in alto un cielo
pieno di figure vive moversi, et una infinità di lumi, quasi in un baleno
scoprirsi e ricoprirsi. Ma non voglio che mi paia fatica raccontare come
gl'ingegni di quella machina stavano per a punto: atteso che ogni cosa è andata
male e sono gl'uomini spenti che ne sapevano ragionare per esperienza: senza
speranza che s'abbiano a rifare, abitando oggi quel luogo non più monaci di
Camaldoli, come facevano, ma le monache di S. Pier martire; e massimamente
ancora essendo stato guasto quello del Carmine, perché tirava giù i cavagli che
reggono il tetto. Aveva dunque Filippo per questo effetto, fra due legni di que'
che reggevano il tetto della chiesa, accomodata una mezza palla tonda a uso di
scodella vota, o vero di bacino da barbiere, rimboccata all'ingiù; la quale
mezza palla era di tavole sottili e leggeri, confitte a una stella di ferro che
girava il sesto di detta mezza palla, e strignevano verso il centro, che era
bilicato in mezzo, dove era un grande anello di ferro intorno al quale girava la
stella de' ferri che reggevano la mezza palla di tavole. E tutta questa machina
era retta da un legno d'abeto gagliardo e bene armato di ferri, il quale era a
traverso ai cavalli del tetto. Et in questo legno era confitto l'anello, che
teneva sospesa e bilicata la mezza palla, la quale da terra pareva veramente un
cielo. E perché alla aveva da piè nell'orlo di dentro certe base di legno, tanto
grandi e non più che uno vi poteva tenere i piedi, et all'altezza d'un braccio,
pur di dentro, un altro ferro, si metteva in su ciascuna delle dette basi un
fanciullo di circa dodici anni e col ferro alto un braccio e mezzo si cigneva in
guisa che non arebbe potuto, quando anco avesse voluto, cascare.

Questi putti, che in tutto erano dodici, essendo accomodati come si è detto,
sopra le base e vestiti da Angeli con ali dorate e capegli di mattasse d'oro, si
pigliavano, quando era tempo, per mano l'un l'altro; e dimenando le braccia,
pareva che ballassino, e massimamente girando sempre e movendosi la mezza palla
dentro la quale, sopra il capo degl'Angioli, erano tre giri o ver ghirlande di
lumi accomodati con certe piccole lucernine, che non potevano versare; i quali
lumi da terra parevano stelle: e le mensole, essendo coperte di bambagia,
parevano nuvole. Del sopra detto anello usciva un ferro grossissimo, il quale
aveva a canto un altro anello, dove stava apiccato un canapetto sottile che,
come si dirà, veniva in terra. E perché il detto ferro grosso aveva otto rami
che giravano in arco quanto bastava a riempire il vano della mezza palla vota e
il fine di ciascun ramo un piano grande quanto un tagliere; posava sopra ogni
piano un putto di nove anni in circa, ben legato con un ferro saldato nelle
altezza del ramo, ma però in modo lento, che poteva voltarsi per ogni verso.
Questi otto angioli retti del detto ferro mediante un arganetto che si allentava
a poco a poco, calavano dal vano della mezza palla fino sotto al piano de' legni
piani che reggono il tetto, otto braccia, di maniera che erano essi veduti e non
toglievano la veduta degl'angioli, ch'erano intorno al didentro della mezza
palla. Dentro a questo mazzo degl'otto Angeli (che così era propriamente
chiamato) era una mandorla di rame, vota dentro, nella quale erano in molti
buchi certe lucernine messe in sur un ferro a guisa di cannoni, le quali, quando
una molla che si abbassava era tocca, tutte si nascondevano nel voto della
mandorla di rame; e come non si aggravava la detta molla, tutti i lumi, per
alcuni buchi di quella, si vedevano accesi.

Questa mandorla, la quale era apiccata a quel canapetto, come il mazzo era
arivato al luogo suo, allentato il picciol canapo da un altro arganetto, si
moveva pian piano e veniva sul palco dove si recitava la festa, sopra il qual
palco, dove la mandorla aveva da posarsi a punto, era un luogo alto a uso di
residenza, con quattro gradi; nel mezzo del quale era una buca, dove il ferro
apuntato di quella mandorla veniva a diritto. Et essendo sotto la detta
residenza un uomo, arivata la mandorla al luogo suo, metteva in quella, senza
esser veduto, una chiavarda, et ella restava in piedi e ferma. Dentro la
mandorla era, a uso d'angelo, un giovinetto di quindici anni in circa cinto nel
mezzo da un ferro e nella mandorla da piè chiavardato in modo che non poteva
cascare, e perché potesse ingenochiarsi, era il detto ferro di tre pezzi, onde
ingenochiandosi entrava l'un nell'altro agevolmente. E così quando era il mazzo
venuto giù e la mandorla postata in sulla residenza, chi metteva la chiavarda
alla mandorla schiavava anco il ferro che reggeva l'angelo, onde egli uscito
caminava per lo palco e giunto dove era la Vergine la salutava et annunziava.
Poi tornato nella mandorla e raccesi i lumi che al suo uscirne s'erano spenti,
era di nuovo chiavardato il ferro che lo reggeva, da colui che sotto non era
veduto; e poi allentato quello che la teneva, ell'era ritirata su, mentre
cantando gl'angeli del mazzo e quelli del cielo che giravano, facevano che
quello pareva propriamente un paradiso e massimamente, che oltre al detto coro
d'angeli et al mazzo, era a canto al guscio della palla un Dio Padre circondato
d'angeli simili a quelli detti di sopra e con ferri accomodati. Di maniera che
il cielo, il mazzo, il Dio Padre, la mandorla con infiniti lumi e dolcissime
musiche rappresentavano il Paradiso veramente. A che si aggiugneva, che per
potere quel cielo aprire e serrare, aveva fatto fare Filippo due gran porte, di
braccia cinque l'una per ogni verso, le quali per piano avevano in certi canali
curri di ferro, o vero di rame, et i canali erano unti talmente, che quando si
tirava con un arganetto un sottile canapo che era da ogni banda, s'apriva o
riserrava, secondo che altri voleva, ristrignendosi le due parti delle porte
insieme, o allargandosi per piano mediante i canali. E queste così fatte porte
facevano duoi effetti: l'uno, che quando erano tirate per esser gravi facevano
rumore a guisa di tuono; l'altro, perché servivano, stando chiuse, come palco
per aconciare gl'Angeli et accomodar l'altre cose che dentro facevano di
bisogno. Questi dunque così fatti ingegni e molti altri, furono trovati da
Filippo; se bene alcuni altri affermano che egli erano stati trovati molto
prima. Comunche sia, è stato ben ragionarne, poiché in tutto se n'è dismesso
l'uso.

Ma tornando a esso Filippo, era talmente cresciuta la fama et il nome suo,
che di lontano era mandato per lui da chi aveva bisogno di far fabriche per
avere disegni e modelli di mano di tanto uomo; e si adoperavano perciò amicizie
e mezzi grandissimi. Onde infra gl'altri disiderando il Marchese di Mantoa
d'averlo, ne scrisse alla Signoria di Firenze con grande instanza, e così da
quella gli fu mandato là, dove diede disegni di fare argini in sul Po l'anno
1445; et alcune altre cose, secondo la volontà di quel Principe, che lo
accarezzò infinitamente, usando dire che Fiorenza era tanto degna d'avere
Filippo per suo cittadino, quanto egli d'aver sì nobile e bella città per
patria. Similmente in Pisa il conte Francesco Sforza e Niccolò da Pisa, restando
vinti da lui in certe fortificazioni, in sua presenza lo comendarono, dicendo
che se ogni stato avesse un uomo simile a Filippo, che si potrebbe tener sicuro
senza arme. In Fiorenza diede similmente Filippo il disegno della casa di
Barbadori, allato alla torre de' Rossi in borgo S. Iacopo, che non fu messa in
opera; e così anco fece il disegno della casa de' Giuntini in sulla piazza
d'Ogni Santi, sopra Arno. Dopo, disegnando i capitani di Parte Guelfa di Firenze
di fare uno edifizio et in quello una sala et una udienza per quello magistrato,
ne diedero cura a Francesco della Luna, il quale, cominciato l'opera, l'aveva
già alzata da terra dieci braccia e fattovi molti errori, quando ne fu dato cura
a Filippo, il quale ridusse il detto palazzo a quella forma e magnificenza che
si vede. Nel che fare ebbe a competere con il detto Francesco che era da molti
favorito sì come sempre fece mentre che visse, or con questo, et or [con]
quello, che facendogli guerra lo travagliarono sempre, e bene spesso cercavano
di farsi onore con i disegni di lui. Il quale infine si ridusse a non mostrare
alcuna cosa et a non fidarsi di nessuno. La sala di questo palazzo oggi non
serve più ai detti capitani di Parte perché avendo il diluvio dell'anno 1557
fatto gran danno alle scritture del Monte, il signor duca Cosimo, per maggior
sicurezza delle dette scritture che sono di grandissima importanza, ha ridotta
quella et il magistrato insieme, nella detta sala. E acciò che la scala vecchia
di questo palazzo serva al detto magistrato de' capitani, il quale separatosi
dalla detta sala, che serve al Monte, si è in un'altra parte di quel palazzo
ritirato, fu fatta da Giorgio Vasari, di commessione di sua
eccellenza, la commodissima scala che oggi va in su la detta sala del Monte. Si
è fatto similmente, col disegno del medesimo, un palco a quadri, e fattolo
posare, secondo l'ordine di Filippo, sopra alcuni pilastri acanalati di macigno.


Era una quaresima, in S. Spirito di Fiorenza, stato predicato da maestro
Francesco Zoppo, allora molto grato a quel popolo e raccomandato molto il
convento, lo studio de' giovani e particularmente la chiesa arsa in que' dì;
onde i capi di quel quartiere, Lorenzo Ridolfi, Bartolomeo Corbinelli, Neri di
Gino Capponi e Goro di Stagio Dati et altri infiniti cittadini ottennero da la
Signoria di ordinar che si rifacesse la chiesa di S. Spirito, e ne feciono
provveditore Stoldo Frescobaldi. Il quale per lo interesso che egli aveva nella
chiesa vecchia, ché la capella e l'altare maggiore era di casa loro, vi durò
grandissima fatica. Anzi da principio, inanzi che si fussino riscossi i danari,
secondo che erano tassati i sepultuarii e chi ci aveva cappelle, egli di suo
spese molte migliaia di scudi, de' quali fu rimborsato. Fatto dunque consiglio
sopra di ciò, fu mandato per Filippo, il quale facesse un modello con tutte
quelle utili et onorevoli parti che si potesse e convenissero a un tempio
cristiano; laonde egli si sforzò che la pianta di quello edifizio si rivoltasse
capo piedi, perché desiderava sommamente che la piazza arrivasse lungo Arno,
acciò che tutti quelli che di Genova e de la Riviera, e di Lunigiana, del Pisano
e del Luchese passassero di quivi, vedessino la magnificenza di quella fabbrica;
ma perché certi, per non rovinare le case loro, non vollono, il disiderio di
Filippo non ebbe effetto.

Egli dunque fece il modello della chiesa et insieme quello dell'abitazione
de' frati in quel modo che sta oggi. La lunghezza della chiesa fu braccia 161 e
la larghezza braccia 54, e tanto ben ordinata, che non si può fare opera, per
ordine di colonne e per altri ornamenti, né più ricca, né più vaga, né più
ariosa di quella. E nel vero, se non fusse stato dalla maladizione di coloro,
che sempre per parere d'intendere più che gl'altri, guastano i principii belli
delle cose, sarebbe questo oggi il più perfetto tempio di cristianità, così come
per quanto egli è, è il più vago e meglio spartito di qualunque altro, se bene
non è secondo il modello stato seguito; come si vede in certi principii di fuori
che non hanno seguitato l'ordine del didentro, come pare che il modello volesse
che le porte et il ricignimento delle finestre facesse. Sonni alcuni errori, che
gli tacerò, attribuiti a lui, i quali si crede che egli se l'avesse seguitato di
fabbricare non gli arebbe comportati, poiché ogni sua cosa con tanto giudizio,
discrezione, ingegno et arte aveva ridotta a perfezzione. Questa opera lo rendé
medesimamente per uno ingegno veramente divino.

Fu Filippo facessimo nel suo ragionamento e molto arguto nelle risposte, come
fu quando egli volle mordere Lorenzo Ghiberti, che aveva còmpero un podere a
Monte Morello, chiamato Lepriano, nel quale spendeva due volte più che non ne
cavava entrata, che venutoli a fastidio lo vendé. Domandato Filippo qual fusse
la miglior cosa che facesse Lorenzo, pensando forse per la nimicizia che egli
dovesse tassarlo, rispose: «Vendere Lepriano». Finalmente divenuto già molto
vecchio, cioè di anni 69, l'anno 1446, addì 16 d'aprile, se n'andò a miglior
vita, dopo essersi affaticato molto in far quelle opere che gli fecero meritare
in terra nome onorato e conseguire in cielo luogo di quiete. Dolse infinitamente
alla patria sua, che lo conobbe e lo stimò molto più morto, che non fece vivo; e
fu sepellito con onoratissime esequie et onore in S. Maria del Fiore, ancora che
la sepoltura sua fusse in S. Marco, sotto il pergamo verso la porta, dove è
un'arme con due foglie di fico e certe onde verdi in campo d'oro per essere
discesi i suoi del Ferarese, cioè da Ficaruolo, castello in sul Po, come
dimostrano le foglie che denotano il luogo, e l'onde che significano il fiume.
Piansero costui infiniti suoi amici artefici, e massimamente i più poveri, quali
di continuo beneficò. Così dunque cristianamente vivendo, lasciò al mondo odore
della bontà sua e delle egregie sue virtù. Parmi che se gli possa attribuire che
dagli antichi Greci e da' Romani in qua, non sia stato il più raro né il più
eccellente di lui; e tanto più merita lode, quanto ne' tempi suoi era la maniera
todesca in venerazione per tutta Italia, e dagli artefici vecchi esercitata,
come in infiniti edifici si vede. Egli ritrovò le cornici antiche, e l'ordine
toscano, corinzio, dorico et ionico alle primiere forme restituì. Ebbe un
discepolo dal Borgo a Buggiano, detto il Buggiano, il quale fece l'acquaio della
sagrestia di S. Reparata con certi fanciulli che gettano acqua, e fece di marmo
la testa del suo maestro ritratta di naturale, che fu posta dopo la sua morte in
S. Maria del Fiore alla porta a man destra, entrando in chiesa; dove ancora è il
sottoscritto epitaffio, messovi dal publico per onorarlo dopo la morte, così
come egli vivo aveva onorato la patria sua.



D.S.

Quantum Philippus, architectus arte daedalea valuerit, cum huius celeberrimi
templi mira testudo, tum plures aliae divino ingenio ab eo adinventae machinae
documento esse possunt. Quapropter ob eximias sui animi dotes singularesque
virtutes eius B. M. corpus. xv. Calendas Maias anno MCCCCXLVI, hac humo
supposita grata patria sepeliri iussit.



Altri nientedimanco per onorarlo ancora maggiormente, gli hanno aggiunto
questi altri due:



Philippo Brunellesco antiquae architecturae instauratori. S. P. Q. F. civi
suo benemerenti.



Giovan Battista Strozzi fece quest'altro:



Tal sopra sasso, sasso

di giro in giro eternamente io strussi:

chc così passo passo

alto girando al ciel mi ricondussi.



Furono ancora suoi discepoli Domenico dal Lago di Lugano, Geremia da Cremona,
che lavorò di bronzo benissimo, insieme con uno Schiavone, che fece assai cose
in Vinezia; Simone, che doppo aver fatto in Or San Michele per l'Arte degli
Speziali quella Madonna, morì a Vicovaro, facendo un gran lavoro al Conte di
Tagliacozzo; Antonio e Niccolò fiorentini, che feciono in Ferrara, di metallo,
un cavallo di bronzo per il duca Borso, l'anno 1461; et altri molti, de' quali
troppo lungo sarebbe fare particolar menzione. Fu Filippo male avventurato in
alcune cose, perché, oltre che ebbe sempre con chi combattere, alcune delle sue
fabbriche non ebbono al tempo suo, e non hanno poi avuto il loro fine. E fra
l'altre fu gran danno che i monaci degl'Angeli non potessero, come si è detto,
finire quel tempio cominciato da lui, poiché dopo avere eglino speso in quello
che si vede più di tremila scudi, avuti parte dall'Arte de' Mercatanti e parte
dal Monte in sul quale erano i danari, fu dissipato il capitale, e la fabrica
rimase e si sta imperfetta. Laonde, come si disse nella vita di Niccolò da
Uzzano, chi per cotal via disidera lasciare di ciò memorie, faccia da sé mentre
che vive, e non si fidi di nessuno. E quello che si dice di questo, si potrebbe
dire di molti altri edifizii ordinati da Filippo Brunelleschi.



FINE DELLA VITA DI FILIPPO
BRUNELLESCHI








































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