Beneficio ecclesiastico – vol. I
Autore: Gaetano Greco
Ancora agli inizi del Novecento il Codex Iuris Canonici del 1917 definiva il beneficio ecclesiastico con queste parole: «un ente giuridico costituito od eretto in perpetuo dall’autorità ecclesiastica, composto da un ufficio sacro e dal diritto di percepire i redditi della dote, spettanti all’ufficio» (canone 1049). Le sue origini storiche sono riconducibili soprattutto alla nascita delle prebende canonicali, all’affitto o la concessione in livello enfiteutico di chiese, con tutti i loro diritti, oneri e beni, e alla fondazione di chiese proprie da parte di feudatari, famiglie, consorterie, villaggi, corporazioni, città ed altri. Su questa base, formatasi nel corso dei secoli con percorsi differenti nelle diverse aree regionali, nel basso Medioevo e in Età Moderna s’innestò il fenomeno delle fondazioni e dei lasciti testamentari per la celebrazione di Messe in suffragio delle anime del Purgatorio. In Italia, questo fenomeno ha conosciuto due picchi: l’uno fra il XIV ed il XV secolo e l’altro fra il XVII secolo e i primi decenni del XVIII. Queste fondazioni permettevano di costituire uffici ecclesiastici stabili anche all’interno di chiese preesistenti, alla stessa stregua delle prebende canonicali o delle chiese proprie: chiamati “cappellanie” o persino “altari”, non si differenziavano molto dalle “ufficiature” istituite con le stesse garanzie. D’altra parte, con l’appellativo di beneficio ecclesiastico si intendono estensivamente anche uffici sacri stabili di maggiore rilievo, purché dotati di un patrimonio e attribuiti ad un singolo individuo.
Analizzando il beneficio ecclesiastico nelle sue diverse componenti, troviamo un “ufficio sacro”, cioè una carica o un complesso di attribuzioni e di oneri di culto religioso o di giurisdizione spirituale, in base ai quali si articolavano due diverse tipologie: i benefici “residenziali” e quelli “semplici”. Fra i primi, che obbligavano il loro titolare a risiedere dove si trovava fisicamente l’ufficio, si contavano i vescovadi, le prepositure, i decanati, le dignità e gli altri canonicati delle chiese cattedrali e delle chiese collegiate, le cappellanie “corali”, le pievi, le parrocchie e tutti gli altri uffici con cura d’anime. Secondo la tradizione canonica, ribadita dal Concilio di Trento, per questi benefici vigeva il divieto di “cumulo”, che, però, è stato largamente disatteso persino dopo il Concilio di Trento, grazie ad apposite dispense papali che permettevano in una serie di casi di cumulare questi uffici, per motivi politici (come nei paesi germanici o iberici) o semplicemente logistico-finanziari (come nel caso dei canonici delle piccole città italiane, ai quali era concesso di essere anche parroci cittadini). Non sono mancati neppure pontefici che hanno continuato a godere il precedente vescovado insieme con quello romano: esemplari i casi, nel Settecento, di Benedetto XIII a Benevento e di Benedetto XIV a Bologna. I benefici “semplici” richiedevano al loro titolare soltanto l’adempimento, anche tramite altri sacerdoti, di obblighi di culto sacro, come la celebrazione di un certo numero di messe. In genere questi benefici erano esclusi dal divieto di cumulo, poiché non era considerata indispensabile la presenza continuativa del rettore nelle chiese in cui erano eretti. Col tempo, questa distinzione ha assorbito di fatto la più antica divisione fra “benefici maggiori”, uniti ad un ufficio dotato di potestà ordinaria di governo (vescovadi, decanati, prepositure nullius dioecesis, pievanati), e “benefici minori”, per i quali non era essenziale questa unione. Il «rettore» di questi uffici, che doveva essere un chierico (salvo dispensa papale), aveva il diritto di percepire ed utilizzare la “rendita” del beneficio ecclesiastico per mantenersi, per adempiere agli oneri e per conservare l’edificio sacro. La rendita proveniva dalla “dote” patrimoniale del beneficio ecclesiastico, costituita in genere da beni immobili, ma anche da prestazioni, da diritti reali e da obbligazioni consuetudinarie (come la decima ecclesiastica), oppure da capitali consolidati in titoli di rendita pubblica o privata. Ultimo elemento indispensabile per connotare un beneficio era l’“istituzione canonica”, tanto dell’ufficio, quanto del suo rettore: senza l’intervento di un’autorità ecclesiastica non esistevano uffici sacri perpetui, ma solo “condotte” precarie, destinate a sopravvivere senza la garanzia delle forme e dei privilegi della Chiesa, e, dopo la conclusione del conflitto fra papato ed impero sulle “investiture”, la nomina formale dei rettori doveva essere effettuata da parte di un’autorità ecclesiastica.
La presenza della dote presupponeva l’esistenza di uno o più fondatori del beneficio ecclesiastico. Se il fondatore era una persona ecclesiastica con potestà giurisdizionale, la scelta del nuovo rettore avveniva per “libera collazione”, cioè per libera scelta e con immediata istituzione canonica da parte dello stesso “collatore”, cioè il fondatore e i suoi successori pro-tempore nella potestà ecclesiastica. In questo caso, però, già nel Basso Medio Evo vigeva quella prassi dei “mesi riservati” alla Santa Sede, che si protrasse in Italia fin quasi la fine dell’età moderna: per un certo periodo dell’anno (un terzo, la metà) la collazione era devoluta al pontefice, anche quando si trattava di un ufficio curato. Se, invece, il fondatore (vero o presunto) non aveva il carattere clericale, si riconosceva l’esistenza del giuspatronato, cioè di un diritto vantato dai “patroni” originari e dai loro successori (→ voce). Il momento conclusivo dei percorsi di nomina del rettore era costituito dalla “presa di possesso” del beneficio da parte sua o di un suo procuratore, cioè non solo dell’ufficio sacro, con tutti i suoi oneri di giurisdizione, di amministrazione dei sacramenti, di culto, ma anche dei suoi beni patrimoniali con le relative rendite. Di fatto, anche quest’ultimo momento non era una tappa scontata: talvolta per prendere possesso effettivamente di un beneficio non bastava il diritto, ma era necessario il ricorso alla forza e al potere delle autorità politiche locali, chiamati a garantire il possesso del nuovo rettore nei confronti dei chierici concorrenti o dei laici scontenti (patroni, popolazioni locali ecc.).
Fra il tardo Medio Evo e la prima età moderna si colloca un particolare fenomeno degenerativo delle istituzioni ecclesiastiche locali: la “resignazione” o “risegna” (rinuncia) dei benefici ecclesiastici da parte dei loro legittimi titolari. Nella prassi rinascimentale questa rinuncia agli uffici sacri non avveniva più “nelle mani” dell’ordinario diocesano locale o del capitolo della cattedrale, bensì apud Sedem Apostolicam. Di conseguenza la successiva collazione era sottratta ai legittimi collatori ed ai legittimi patroni e diventava di libera pertinenza del papa: già secondo la Costituzione Licet ecclesiarum di papa Clemente IV (1265) proprio al pontefice – il dominus beneficiorum – apparteneva la collazione di tutte le chiese, dignità, personati e benefici vacanti per morte presso la Santa Sede, oppure rinunciati nelle mani del pontefice. Durante il XV secolo si cercarono di moderare gli effetti di questo abuso; tuttavia, a partire da papa Leone X il mercato dei benefici si dilatò assumendo connotazioni simoniache: sempre più spesso le resignazionioni presso la Curia Romana furono accompagnate da una serie di patti e condizioni in favore del rinunciatario, come il godimento di una porzione o della totalità delle rendite, oppure il diritto di rientrare in possesso del beneficio in caso di premorienza o di rinuncia del suo successore. Oltre alla possibilità di scambi e permute fra un beneficio e l’altro, era anche permesso di conservare la “dignità”: come quel carattere episcopale che consentiva agli insigniti di svolgere le funzioni tipiche di un vescovo suffraganeo (consacrazioni di chiese, cresime, ordinazioni sacerdotali etc.) al servizio di vescovi titolari assenteisti, incapaci dell’ufficio oppure oberati da un eccessivo carico di lavoro. La diffusione incontrollata delle resignazioni in Curia Romana e l’uso di tutte queste clausole provocarono forte malcontento nelle Chiese locali, dalle quali a più riprese fu richiesto di stroncare o almeno frenare questo sistema. Alla fine, in occasione del Concilio di Trento furono condannate e abrogate le clausole della reimmissione in possesso, ma le altre rimasero per tutta l’età moderna (Sess. XXV, Decr. de reformatione c. 7).
Oltre ai danni arrecati dalle ingerenze della Curia Romana nella provvisione dei benefici, alle soglie dell’età moderna altre due problematiche sconvolgevano la gestione degli uffici sacri locali: il saccheggio dei beni mobili e immobili alla morte o rinuncia dei rettori e la volontà politica che gli uffici e le risorse della Chiesa fossero attribuiti a chierici vicini, o almeno non ostili, ai governanti. Nell’Italia centro-settentrionale non mancarono principi e repubbliche che tentarono di controllare l’accesso ai benefici ecclesiastici, condizionandone direttamente e formalmente le nomine da parte dei pontefici, sia riservandosi le scelte per le prebende più ricche, sia impedendo l’accesso ai forestieri e agli esponenti di consorterie ostili (diritto di placitazione). Così avvenne, già fra tardo Medio Evo e prima Età Moderna, a Milano nel 1450, nel Piemonte-Savoia nel 1451 e a Genova nel 1453 grazie a concessioni di papa Niccolò V e nel 1487 (per opera di Innocenzo VIII), e ancora a Firenze nel 1475 e a Siena nel 1492. Sulla stessa linea si collocano le pretese dei sovrani, che, sull’esempio della Chiesa gallicana, mirarono a impadronirsi a proprio uso degli spogli degli ecclesiastici defunti e dei frutti dei benefici vacanti (le “regalie”). Un sistema di controllo più efficiente sugli uffici ecclesiastici fu realizzato grazie a quell’Economato dei Benefici Vacanti, che aveva mosso i suoi primi passi nella Lombardia visconteo-sforzesca, trovando poi imitatori anche in altri stati italiani, come nel Piemonte sabaudo. Per qualità d’intervento e per durata nel tempo, l’esempio più riuscito può essere considerato l’Auditorato dei Benefici vacanti, istituito in Toscana nel 1539 dal duca Cosimo I de’ Medici: a questo ministero governativo competeva la cura dell’amministrazione delle “temporalità” degli uffici vacanti e la concessione delle licenze di possesso ai nuovi rettori, sulla base di un’accurata e aggiornata indagine sull’assetto beneficiale di ciascuna diocesi.
Grazie alla protezione giurisdizionale accordata dai poteri politici locali, il sistema beneficiale, pur presente in tutta la penisola, conobbe un grande successo soprattutto nell’Italia Centro-Settentrionale, dove continuò a crescere e radicarsi nelle Chiese locali per tutta l’età moderna con la fondazione soprattutto di cappellanie e ufficiature perpetue, che affollavano le cattedrali come le chiese parrocchiali cittadine e rurali, le collegiate come gli oratori. Il carattere particolaristico e individuale di questi enti e la gestione personale dei loro patrimoni corrispondevano alle esigenze di tesaurizzazione e di trasmissione ereditaria di una società tesa a difendere i beni sottoposti a un regime giuridico privatistico, in cui le ragioni civili delle strategie familiari prevalevano sui bisogni sociali (del culto, della carità etc.) e sulle pretese della Curia romana. Ciò non avvenne in egual misura nell’Italia meridionale e insulare, dove la debolezza dei poteri politici stranieri e la minore differenziazione sociale facilitò per lungo tempo le ingerenze da parte della Curia romana e, per reazione, l’affermazione di un modello di chiesa collegiale, più coerente con realtà a basso livello di mobilità individuale. Anzi, il sistema beneficiale resse anche i colpi del riformismo illuminista: la stretta connessione esistente fra i benefici e i diritti di giuspatronato privato impedì fino alla Rivoluzione Francese l’evizione di quel sistema, che presentava i caratteri marcati della proprietà privata. I sovrani illuminati procedettero all’annessione dei benefici semplici di patronato laicale pubblico ai benefici curati, ma si fermarono di fronte alla grande massa dei giuspatronati privati. Soltanto alla metà dell’Ottocento, la secolarizzazione della società e l’eversione dell’asse ecclesiastico con la redenzione dei giuspatronati laicali (→ giuspatronati) fece implodere il sistema beneficiale. Svanito l’apporto delle fondazioni private e dei loro diritti, cresciuta la pressione della gerarchia ecclesiastica sui soggetti collettivi detentori di patronati (comunità, parrocchiani etc.), sulla personalità della dote patrimoniale cominciò a prevalere il carattere dell’ufficio sacro, finché con il più recente Codice di diritto canonico è stato soppresso il concetto stesso di beneficio ecclesiastico.
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