"Lì tutto è immutabile, tutto ha un'eternità sublime e niente di nuovo può esistere: non c'è più spazio per lasciare un segno, neppure l'innocente fragilità di un filo d'erba può essere accolta. (...) Davanti c'era il suo tempo". (S. Zecchi, Estasi, p. 14).
STEFANO ZECCHI |
ESTASI |
Milano
1993
ES ||
Titolo del Libro: Estasi
Autore : Stefano Zecchi
Editore: ES Editrice
Collana: Biblioteca dell'eros, Nr. 39
Data di Pubblicazione: 1993
Genere: letteratura italiana: testi
Dimensioni mm: 222 x 128 x 17
ISBN-10: 8885357482
ISBN-13: 9788885357488
(img di copertina: Antonio Canova, Adone e Venere, 1794.
Fotografia di Mimmo Iodice, tratta dal catalogo della mostra "Antonio Canova",
Marsilio, Venezia, 1992).
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1993
ES ||
Titolo del Libro: Estasi
Autore : Stefano Zecchi
Editore: ES Editrice
Collana: Biblioteca dell'eros, Nr. 39
Data di Pubblicazione: 1993
Genere: letteratura italiana: testi
Dimensioni mm: 222 x 128 x 17
ISBN-10: 8885357482
ISBN-13: 9788885357488
(img di copertina: Antonio Canova, Adone e Venere, 1794.
Fotografia di Mimmo Iodice, tratta dal catalogo della mostra "Antonio Canova",
Marsilio, Venezia, 1992).
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Antonio Canova, Adone e Venere, marmo, 1794.
(da: http://mageneve.blogspot.it/2012/02/dimanche-aux-musees.html - si ringrazia)
Pierluigi Panza, Un amore a Venezia: e il filosofo scopre l'estasi.
"Docente di estetica a Milano, ora romanziere esordiente con il libro " Estasi " (Edizioni Se) : incontro con Stefano Zecchi.
Accademico e saggista di professione, opinionista televisivo e ora romanziere. Gli steccati della comunicazione, per Stefano Zecchi, sono vuote camicie di forza, perche' i diversi linguaggi "sono rami di uno stesso tronco ed esprimono un comune desiderio di amore che si incontra nel comunicare".
Accademico e saggista di professione, opinionista televisivo e ora romanziere. Gli steccati della comunicazione, per Stefano Zecchi, sono vuote camicie di forza, perche' i diversi linguaggi "sono rami di uno stesso tronco ed esprimono un comune desiderio di amore che si incontra nel comunicare".
Nato a Venezia, docente di Estetica a Milano, Zecchi approda al romanzo (Estasi, ed. Se) dopo aver sfidato senza preoccupazioni i rischi della televisione (...) e di una rapida carriera universitaria che lo ha visto prima assistente di Enzo Paci e Dino Formaggio, padri dell'estetica italiana, poi in cattedra a soli 34 anni.
Romanzo filosofico o saggio scritto sotto forma di romanzo perche' le griglie della saggistica filosofica non consentono di esprimere un "pensiero forte"?
"Non ho pensato a un radicale rovesciamento del filosofico nel narrativo, quanto alla necessita' di ripensare la forma romanzo impantanata nelle secche della fiction, della tarda narrativa sperimentale o realista o in quelle della introspezione psicologica. Il tema dell' Eros, tuttavia, ha reso necessario il ricorso a un linguaggio piu' espressivo che analitico".
Perche' dopo un saggio sulla bellezza un romanzo sull' amore? "Eros e Bellezza sono i grandi rimossi della contemporaneita'. L'Eros e' stato ridotto al consumo pornografico, a oggetto della psicoanalisi, a studio sulla funzionalita' del buon rapporto di coppia quando non a tema strumentale per dibattiti sulla tolleranza e la diversita'. Ad esso, invece, e' legata l' idea di costruzione della civilta': è alla base della metamorfosi e della rigenerazione degli individui ed è all'origine dei rapporti e delle passioni che relazionano la nostra coscienza al mondo della vita".
Il romanzo e' ambientato in una Venezia di raffinato estetismo, narra del rapporto tra Fausto e due donne, ma più che sull' intreccio è modulato sulle riflessioni filosofiche dei protagonisti.
Perchè pochi avvenimenti?
"Non mi interessava ne' la storia ne' la ricerca linguistica fine a se stessa. Ho cercato invece di costruire delle grandi figure simboliche intorno a tre temi: la casa come elemento di rapporto tra individuo ed esperienza passata, Venezia come città erotica e l'Eros come principio di rigenerazione. Le figure femminili positiva (Madil) e negativa (Olga) rappresentano degli universali simbolici. La scrittura, poi, è un' espressione alta della nostra civilta' che non è soltanto semplice strumento d'intrattenimento".
Recentemente lei ha parlato degli intellettuali come di "lacche' con vocazione alla lottizzazione" e in "Estasi" definisce "beccamorti del Novecento" i teorici del pensiero debole. Come passare al "vero impegno" intellettuale invocato da Fausto?
"Il rapporto tra cultura e politica va ricostruito. Deve però essere l'idea e l'espressione artistica individuale a raggiungere una tale rilevanza da assumere valenza politica, non l'ideologia. "Non sono d' accordo con coloro che affermano che ciascuno deve fare il proprio mestiere senza intervenire nei problemi comuni. C'è necessita' di energie, di coscienze critiche e di forti progetti filosofici". "In questo circo equestre che e' il mondo - afferma il personaggio Fausto in "Estasi" - preferisco scegliermi la parte dell'acrobata piuttosto che quella del clown".
Non teme che qualcuno interpreti il suo continuo salto degli steccati non come prova di coraggio ma come trasformismo?
"Io resto un professore, ma sono affascinato anche da altre esperienze. La televisione e i giornali sono strumenti espressivi che vanno coltivati e non demonizzati. Non ne sono succube, come altri, e mi hanno permesso di portare avanti una battaglia di idee".
Panza Pierluigi
(Corriere della Sera, 20 gennaio 1993, Terza pagina, p. 33).
Antonio Canova, Adone e Venere, marmo, 1794.
(da: http://www.photoree.com/photos/permalink/10418277-16409072@N08 - si ringrazia)
"Nell’estasi il tempo si ferma, rientriamo in noi stessi e incontriamo un nuovo io che, sconosciuto, ci attende". (Zecchi, cit., Introd.)
Maria Mulas (fot.), ritratto di Stefano Zecchi.
"Come nostalgia o sogno antico sentiamo, allora, il desiderio di rinascere nella vita, di rinascere nel corpo per attendere un destino di felicità.
Estasi, semplice storia d’amore e romanzo filosofico, racconta la crisi e l’esperienza della rinascita di Fausto.
In una Venezia che trasmette sensualità e bellezza dalla sua decadenza, Fausto incontra una misteriosa, giovane donna, Madìl, immagine sublime dell’eros, che lo accompagnerà in un viaggio spirituale e sentimentale verso la riappropriazione del proprio corpo e la comprensione di un altro significato dell’amore custodito dalla vita.
In una Venezia che trasmette sensualità e bellezza dalla sua decadenza, Fausto incontra una misteriosa, giovane donna, Madìl, immagine sublime dell’eros, che lo accompagnerà in un viaggio spirituale e sentimentale verso la riappropriazione del proprio corpo e la comprensione di un altro significato dell’amore custodito dalla vita.
Forma assoluta della femminilità, che nella danza riunisce il cielo alla terra, Madìl sembra poter assumere anche sembianze più naturali e apparire per qualche istante, quasi reincarnandosi, in un personaggio senza nome, come per consegnare la sua verità a ogni donna che ha fede nel valore della propria femminilità.
Il cuore della storia è animato da tre grandi protagonisti ideali, tre figure simboliche a cui è riconosciuto tutto il significato essenziale nella formazione della persona: la casa, simbolo della tradizione a cui si appartiene; la città, simbolo dell’origine dell’esperienza individuale; l’eros, simbolo della trasformazione e continuità della vita.
Il cuore della storia è animato da tre grandi protagonisti ideali, tre figure simboliche a cui è riconosciuto tutto il significato essenziale nella formazione della persona: la casa, simbolo della tradizione a cui si appartiene; la città, simbolo dell’origine dell’esperienza individuale; l’eros, simbolo della trasformazione e continuità della vita.
Come una devota allusione, sembra rimanere sullo sfondo del romanzo di Zecchi l’infinita attualità drammatica del Faust goethiano."
(Zecchi, cit., dal risvolto di copertina)
"Mi piace illudermi di stare in mezzo ad una bellezza che viene da lontano e continua a parlarci, se sappiamo ascoltarla. Questo è l'unico valore che dò al mio lavoro." (Zecchi, cit., p. 39).
"...come un animale selvatico che, braccato dai cacciatori, è spinto impotente allo scoperto (...) oltrepassava di nuovo, dopo tanti anni, lo sguardo (...) tra quelle case, tra quei marmi scavati dall'acqua (...) fianco a fianco alla bellezza, ne respira il significato, vive nella sua ebbrezza. (...) ebbe paura di quella perfezione e di quell'ordine decretato dal tempo, dove ogni cosa è splendore. Lì tutto è immutabile, tutto ha un'eternità sublime e niente di nuovo può esistere: non c'è più spazio per lasciare un segno, neppure l'innocente fragilità di un filo d'erba può essere accolta. (...) Davanti c'era il suo tempo". (Zecchi, cit., p. 14).
"...come un animale selvatico che, braccato dai cacciatori, è spinto impotente allo scoperto (...) oltrepassava di nuovo, dopo tanti anni, lo sguardo (...) tra quelle case, tra quei marmi scavati dall'acqua (...) fianco a fianco alla bellezza, ne respira il significato, vive nella sua ebbrezza. (...) ebbe paura di quella perfezione e di quell'ordine decretato dal tempo, dove ogni cosa è splendore. Lì tutto è immutabile, tutto ha un'eternità sublime e niente di nuovo può esistere: non c'è più spazio per lasciare un segno, neppure l'innocente fragilità di un filo d'erba può essere accolta. (...) Davanti c'era il suo tempo". (Zecchi, cit., p. 14).
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ZILLI. Nina Zilli - Bacio D'A(d)dio
Music video by Nina Zilli performing Bacio D'A(d)dio. (C) 2010 Universal Music Italia
Caricato da NinaZilliVEVO in data 22/nov/2010
Music video by Nina Zilli performing Bacio D'A(d)dio. (C) 2010 Universal Music Italia Srl - si ringrazia)
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Francesco Lamendola, Estasi e Morte nel linguaggio dell'Arte.
(Articolo pubblicato sul numero 3 di maggio-giugno 1988, anno XXVI, di"Alla Bottega. Rivista bimestrale di cultura ed arte", pp. 57-59, e corredato dalle riproduzioni di due opere d'arte: "Estasi" di Woldemar Melnik, scultore estone del 1900, e "Niobide morente" , copia romana in marmo da originale greco del 450 a. C. circa, Roma, Museo Nazionale).
"Che estasi e morte siano due dimensioni complementari di un'unica realtà, le due facce di una stessa medaglia, l'antica saggezza dei greci lo aveva ben compreso, mettendo Eros e Thànatos in costante relazione reciproca, sia nella poesia che nelle arti figurative. Achille che uccide Pentesilea, la regina delle Amazzoni, con un colpo di lancia, e che quasi nello stesso momento si commuove e s'innamora davanti al bel corpo morente (1), sintetizza questa fondamentale intuizione del pensiero classico. Intuizione che non è mai andata smarrita e che ritroviamo costantemente nella storia dell'arte occidentale lungo il corso dei secoli, anche dopo il tramonto definitivo della civiltà antica. Figure di morenti, dal punto di vista compositivo, sono le sculture dell'estasi di Santa Teresa del Bernini (2), o della Beata Ludovica Albertoni (3) dello stesso autore: quasi a ricordarci che l'estasi come fatto mistico è un rapimento fuori di sé, materiale oltre che spirituale, e dunque una piccola morte.E che altro è l'orgasmo, la vetta più intensa del piacere fisico, se non una "piccola morte" e un'estasi al tempo stesso? Estasi come abbandono temporaneo della coscienza, morte come abbandono definitivo e irrimediabile; estasi come nostalgia dell'infinito, come sgravio da una condizione - l'esser desto della coscienza , appunto - sentita come un peso intollerabile, come un ostacolo alla dimensione più autentica e profonda dell'io. Estasi come ritrovamento e riconciliazione con l'Assoluto, come superamento delle fatali antinomie della vita, come ricomposizione della frattura insanabile tra mente e spirito. Estasi, quindi, lo ripetiamo, come manifestarsi di una esperienza di morte e rinascita interiore - esattamente come nelle pratiche sciamaniche ormai ben note agli studiosi di antropologia e storia delle religioni. (4)
Tale analogia tra estasi e morte costituisce una costante così ben definita nella storia dell'arte, che possiamo scorgerne i riverberi perfino nel confronto tra opere antiche e moderne. In questa sede ci limiteremo ad un esame comparativo tra la celebre Niobide morente del Museo NazionaleRomano (5) e la scultura di Woldemar Melnik
Estasi (6), significativo esempio di simbolismo espressionista in Estonia del primo '900. È sufficiente un confronto anche superficiale tra le due opere per rendersi conto di quanto la seconda debba alla prima (che, a sua volta, è la copia romana in marmo da un originale greco del 450 a. C. circa). (7)
Intanto nell'impianto figurativo generale e nell' intuizione centrale che l'estasi, come la morte, è un passaggio a una condizione nuova e diversa, tale da alterare e trasfigurare l'ente in una luce totalmente altra. Poi nei particolari descrittivi della figura: la posizione del capo rovesciato all'indietro, delle gambe divaricate, perfino nel panneggio della veste ormai scivolata sulla sola gamba destra. L'ignoto scultore greco del v secolo ha rappresentato nella Niobide dalle forme armoniose, si badi, non una morta ma una morente: dalla bocca semiaperta pare che fugga l'ultimo soffio vitale. Gli occhi sono rivolti al cielo in uno sguardo di estrema invocazione o forse di addio, carichi di rimpianto; le braccia, torte dietro le spalle, cercano di afferrare il dardo di Artemide che le si è infitto nella schiena, quasi a volerselo strappare in un supremo sforzo di ribellione alla morte, sforzo ormai inutile e condannato ad esaurirsi quasi subito.
Questa giovane donna morente, dalle floride forme - paradossalmente -esuberanti di vita, è dunque un monumento al rimpianto dell'estremo commiato, quasi un grido di protesta contro l' ingiustizia divina di una giovane vita stroncata come un fiore reciso da una falce inesorabile. In senso lato, è un atto di accusa alla caducità di tutto ciò che è umano, la ribellione contro l'assurdità di una conditio esistenziale che dapprima ci lusinga con fallaci promesse, e poi ci spoglia di ogni futuro, di ogni domani, precipitandoci nel buio che è fuori della forma.
Lo scultore estone Woldemar Melnik ha ripreso questo anelito alla vita che fugge e lo ha trasformato in un anelito alla fuga dalla vita.
I termini della problematica sono rovesciati, ma - ecco il colpo di genio - per una misteriosa dialettica degli opposti, il mezzo espressivo rimane pressoché identico. La sua giovane donna, che ricalca la Niobide morente fin nei particolari, leva gli occhi al cielo non già nel rimpianto della vita che fugge, ma bensì nella nostalgia dell'infinito, di quell'infinito che è dissoluzione della forma ed esaurimento del dato esistenziale secondo i parametri della vita ordinaria. È, insomma, nostalgia della morte, vissuta come anticipazione momentanea di un abbandono totale del fardello del vivere (come ne La prima notte di quiete, per parafrasare il titolo di un bel film di Valerio Zurlini del 1972). L'unica differenza formale tra le due opere, difatti, risiede - al di là, beninteso, delle grandi diversità di clima stilistico - nella rappresentazione delle braccia. Quelle della figlia di Niobe, ancora disperatamente attaccata alla vita, cercano - come si è visto - una impossibile salvezza nella liberazione dal dolore, simile in questo al Laocoonte che si contorce fra lespire dei draghi. La mistica e, al tempo stesso, pagana donna di Melnik,invece, si abbandona fiduciosamente al nulla - al Tutto - che la sta per riempire, e stringe al seno le mani in un gesto di raccoglimento estatico incui ella sembra la sacerdotessa di un rito insondabile. Il rito per mezzo del quale ella fa dono di sé e della sua vita alla dimensione altra, e dunque si perde, si annulla: ma perdendosi si ritrova in un piano d'esistenza più alto e luminoso.
Schopenhauer, davanti alla statua del Laocoonte, si domandava perché questi non possa gridare. Anche noi, constatando che un vero grido non esce dalle labbra delle nostre due statue, possiamo porci la medesima domanda. E di nuovo, rispondere a tale interrogativo significa tornare in quel luogo misterioso dello spirito, ove due opposti itinerari si incrociano esi fondono. La figlia di Niobe non emette alcun grido perché dalla sua bocca semiaperta la vita sta uscendo, e il grido semmai è concentrato negli occhi dolorosi e imploranti; ma più ancora perché il rimpianto della vita ch'essa esprime, stando in bilico ormai sul limitare estremo di essa, non può essere grido ma già solo esile lamento, soffio fuggente.Viceversa la donna in estasi di Melnik non grida e non può gridare perché il suo rapimento è offerta sacrificale di sé medesima, autoannullamento coscientemente perseguito e gioiosamente voluto. Anche qui solo un soffio che esala, dunque; un lamento, forse; ma un lamento di trasporto ineffabile, di pace suprema - di oblio senza tempo…"
Francesco Lamendola
(Articolo pubblicato sul numero 3 di maggio-giugno 1988, anno XXVI, di"Alla Bottega. Rivista bimestrale di cultura ed arte", pp. 57-59, e corredato dalle riproduzioni di due opere d'arte: "Estasi" di Woldemar Melnik, scultore estone del 1900, e "Niobide morente" , copia romana in marmo da originale greco del 450 a. C. circa, Roma, Museo Nazionale).
"Che estasi e morte siano due dimensioni complementari di un'unica realtà, le due facce di una stessa medaglia, l'antica saggezza dei greci lo aveva ben compreso, mettendo Eros e Thànatos in costante relazione reciproca, sia nella poesia che nelle arti figurative. Achille che uccide Pentesilea, la regina delle Amazzoni, con un colpo di lancia, e che quasi nello stesso momento si commuove e s'innamora davanti al bel corpo morente (1), sintetizza questa fondamentale intuizione del pensiero classico. Intuizione che non è mai andata smarrita e che ritroviamo costantemente nella storia dell'arte occidentale lungo il corso dei secoli, anche dopo il tramonto definitivo della civiltà antica. Figure di morenti, dal punto di vista compositivo, sono le sculture dell'estasi di Santa Teresa del Bernini (2), o della Beata Ludovica Albertoni (3) dello stesso autore: quasi a ricordarci che l'estasi come fatto mistico è un rapimento fuori di sé, materiale oltre che spirituale, e dunque una piccola morte.E che altro è l'orgasmo, la vetta più intensa del piacere fisico, se non una "piccola morte" e un'estasi al tempo stesso? Estasi come abbandono temporaneo della coscienza, morte come abbandono definitivo e irrimediabile; estasi come nostalgia dell'infinito, come sgravio da una condizione - l'esser desto della coscienza , appunto - sentita come un peso intollerabile, come un ostacolo alla dimensione più autentica e profonda dell'io. Estasi come ritrovamento e riconciliazione con l'Assoluto, come superamento delle fatali antinomie della vita, come ricomposizione della frattura insanabile tra mente e spirito. Estasi, quindi, lo ripetiamo, come manifestarsi di una esperienza di morte e rinascita interiore - esattamente come nelle pratiche sciamaniche ormai ben note agli studiosi di antropologia e storia delle religioni. (4)
Tale analogia tra estasi e morte costituisce una costante così ben definita nella storia dell'arte, che possiamo scorgerne i riverberi perfino nel confronto tra opere antiche e moderne. In questa sede ci limiteremo ad un esame comparativo tra la celebre Niobide morente del Museo NazionaleRomano (5) e la scultura di Woldemar Melnik
Estasi (6), significativo esempio di simbolismo espressionista in Estonia del primo '900. È sufficiente un confronto anche superficiale tra le due opere per rendersi conto di quanto la seconda debba alla prima (che, a sua volta, è la copia romana in marmo da un originale greco del 450 a. C. circa). (7)
Intanto nell'impianto figurativo generale e nell' intuizione centrale che l'estasi, come la morte, è un passaggio a una condizione nuova e diversa, tale da alterare e trasfigurare l'ente in una luce totalmente altra. Poi nei particolari descrittivi della figura: la posizione del capo rovesciato all'indietro, delle gambe divaricate, perfino nel panneggio della veste ormai scivolata sulla sola gamba destra. L'ignoto scultore greco del v secolo ha rappresentato nella Niobide dalle forme armoniose, si badi, non una morta ma una morente: dalla bocca semiaperta pare che fugga l'ultimo soffio vitale. Gli occhi sono rivolti al cielo in uno sguardo di estrema invocazione o forse di addio, carichi di rimpianto; le braccia, torte dietro le spalle, cercano di afferrare il dardo di Artemide che le si è infitto nella schiena, quasi a volerselo strappare in un supremo sforzo di ribellione alla morte, sforzo ormai inutile e condannato ad esaurirsi quasi subito.
Questa giovane donna morente, dalle floride forme - paradossalmente -esuberanti di vita, è dunque un monumento al rimpianto dell'estremo commiato, quasi un grido di protesta contro l' ingiustizia divina di una giovane vita stroncata come un fiore reciso da una falce inesorabile. In senso lato, è un atto di accusa alla caducità di tutto ciò che è umano, la ribellione contro l'assurdità di una conditio esistenziale che dapprima ci lusinga con fallaci promesse, e poi ci spoglia di ogni futuro, di ogni domani, precipitandoci nel buio che è fuori della forma.
Lo scultore estone Woldemar Melnik ha ripreso questo anelito alla vita che fugge e lo ha trasformato in un anelito alla fuga dalla vita.
I termini della problematica sono rovesciati, ma - ecco il colpo di genio - per una misteriosa dialettica degli opposti, il mezzo espressivo rimane pressoché identico. La sua giovane donna, che ricalca la Niobide morente fin nei particolari, leva gli occhi al cielo non già nel rimpianto della vita che fugge, ma bensì nella nostalgia dell'infinito, di quell'infinito che è dissoluzione della forma ed esaurimento del dato esistenziale secondo i parametri della vita ordinaria. È, insomma, nostalgia della morte, vissuta come anticipazione momentanea di un abbandono totale del fardello del vivere (come ne La prima notte di quiete, per parafrasare il titolo di un bel film di Valerio Zurlini del 1972). L'unica differenza formale tra le due opere, difatti, risiede - al di là, beninteso, delle grandi diversità di clima stilistico - nella rappresentazione delle braccia. Quelle della figlia di Niobe, ancora disperatamente attaccata alla vita, cercano - come si è visto - una impossibile salvezza nella liberazione dal dolore, simile in questo al Laocoonte che si contorce fra lespire dei draghi. La mistica e, al tempo stesso, pagana donna di Melnik,invece, si abbandona fiduciosamente al nulla - al Tutto - che la sta per riempire, e stringe al seno le mani in un gesto di raccoglimento estatico incui ella sembra la sacerdotessa di un rito insondabile. Il rito per mezzo del quale ella fa dono di sé e della sua vita alla dimensione altra, e dunque si perde, si annulla: ma perdendosi si ritrova in un piano d'esistenza più alto e luminoso.
Schopenhauer, davanti alla statua del Laocoonte, si domandava perché questi non possa gridare. Anche noi, constatando che un vero grido non esce dalle labbra delle nostre due statue, possiamo porci la medesima domanda. E di nuovo, rispondere a tale interrogativo significa tornare in quel luogo misterioso dello spirito, ove due opposti itinerari si incrociano esi fondono. La figlia di Niobe non emette alcun grido perché dalla sua bocca semiaperta la vita sta uscendo, e il grido semmai è concentrato negli occhi dolorosi e imploranti; ma più ancora perché il rimpianto della vita ch'essa esprime, stando in bilico ormai sul limitare estremo di essa, non può essere grido ma già solo esile lamento, soffio fuggente.Viceversa la donna in estasi di Melnik non grida e non può gridare perché il suo rapimento è offerta sacrificale di sé medesima, autoannullamento coscientemente perseguito e gioiosamente voluto. Anche qui solo un soffio che esala, dunque; un lamento, forse; ma un lamento di trasporto ineffabile, di pace suprema - di oblio senza tempo…"
Francesco Lamendola
NOTE1) Cfr. ad es. la celebre coppa greca (460 circa a. C.) di Monaco di Baviera. La stessa scena appare sui rilievi di vari sarcofagi.
2)Roma, Chiesa di S. Maria della Vittoria.
3)Roma, Chiesa di S. Francesco a Ripa.
4) L'estasi come morte e rinascita è un elemento caratteristico dello sciamanesimo, spec. nordamericano e centro-asiatico. Cfr. Lo sciamenesimo e le tecniche dell'estasi di Mircea Eliade, anche Vittorio Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Milano, 1977, p. 144.
5) Per la leggenda di Niobe e dei suoi quattordici figli uccisi da Apollo e Artemide, cfr. Dizionario di mitologia, Bologna, 1975. Per la storia della scultura della Niobide, cfr. Karl Schefold, L'arte greca come fenomeno religioso, Milano, 1962, p.III; ed Eugenio la Rocca, Amazzonomachia. Le sculture frontonali del Tempio di Apollo Sosiano, Roma, 1985.
6) Vedi Enciclopedia Italiana, ediz. 1949, voce Estonia.
7) Cfr. la rivista Archeo, agosto 1987 (articolo di Romolo A. Staccioli).
(Da: http://it.scribd.com/doc/3842941/Estasi-e-morte)
2)Roma, Chiesa di S. Maria della Vittoria.
3)Roma, Chiesa di S. Francesco a Ripa.
4) L'estasi come morte e rinascita è un elemento caratteristico dello sciamanesimo, spec. nordamericano e centro-asiatico. Cfr. Lo sciamenesimo e le tecniche dell'estasi di Mircea Eliade, anche Vittorio Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Milano, 1977, p. 144.
5) Per la leggenda di Niobe e dei suoi quattordici figli uccisi da Apollo e Artemide, cfr. Dizionario di mitologia, Bologna, 1975. Per la storia della scultura della Niobide, cfr. Karl Schefold, L'arte greca come fenomeno religioso, Milano, 1962, p.III; ed Eugenio la Rocca, Amazzonomachia. Le sculture frontonali del Tempio di Apollo Sosiano, Roma, 1985.
6) Vedi Enciclopedia Italiana, ediz. 1949, voce Estonia.
7) Cfr. la rivista Archeo, agosto 1987 (articolo di Romolo A. Staccioli).
(Da: http://it.scribd.com/doc/3842941/Estasi-e-morte)
Plotino e le vie per l'estasi filosofica
(di Attilio Quattrocchi)
La filosofia plotiniana rappresenta il punto più alto della metafisica occidentale. Il filosofo di origine egiziana è l’ultimo grande rappresentante della cultura greca ‘classica’ e porta a compimento un percorso speculativo che, ispirandosi direttamente soprattutto a Platone ed Aristotele, in realtà ripropone, consapevolmente, le grandi intuizioni della tradizione sacrale greca, in particolar modo di quella misterica.
Egli dà voce all’istanza di una metafisica ‘realizzativa’ cioè di una speculazione che si ‘concluda’ con una diretta esperienza del mondo spirituale, costituendo di fatto l’ esponente più illustre di una gnosi ‘filosofica’, ben diversa dalla gnosi ‘religiosa’ del suo tempo (cristianesimo, manicheismo e, per alcuni aspetti, lo stesso gnosticismo).
Egli infatti non si affida ad una qualche ‘fede’ ma riconosce nell’attività logica un necessario preliminare per ogni esperienza metafisica autentica la quale è accessibile all’uomo in quanto tale e dunque è indipendente da qualsiasi ‘rivelazione storica’.
In tal modo egli distingue sempre nettamente l’irrazionale dal sovrarazionale, l’esperienza mistica ‘visionaria’ della prassi ‘fideistica’ religiosa da quella ‘consapevole’, ‘lucida’ e ‘veritativa’ della via filosofico-metafisica.
Pur costituendo la sua filosofia ‘il più astratto sistema metafisico occidentale’, Plotino inizia la sua ricerca partendo dalla concreta realtà del mondo.
Questo, alla nostra esperienza empirica, risulta come una sterminata congerie di enti aventi ciascuno una sua specifica identità, una sua particolare ‘individualità’.
Alla luce, però, della ragione è assolutamente evidente la loro connessione ed interazione nell’ambito un’unica realtà.
Oltretutto gli enti singoli non solo interagiscono ma si ‘generano’ gli uni dagli altri e ciascuno per vivere ‘si nutre’ degli altri.
Per questo la molteplicità postula, implica, l’unità che è in effetti una totalità ralazionale.
Per tal motivo questa ‘unità’ venne chiamata, nel mondo antico, ‘universo’, vale a dire ‘ciò che tutto avvolge’, ‘che tutto include’, o, meglio, ‘ciò che è avvolto in modo da formare un tutto’ (dal lat. universu(m), neutro sostantivato dall’aggettivo universus, composto da uni e versus, ‘avvolto’).
Per di più, a ben vedere, anche ogni singolo ‘ente’, pur essendo ‘uno’, è costituito da una ‘interna’ molteplicità di organi, strutture, elementi.
Per questo la mente non solo ci consente ma anzi ci ‘obbliga’, attraverso lo stesso processo conoscitivo, a ricondurre ogni realtà singola ad una Realtà Suprema onnicomprensiva; e questa Realtà la si può chiamare per quanto detto l’Uno, l’Uno-Tutto (in greco: én-tò-pan).
Non ci può essere ‘filosoficamente’ concetto più ‘elevato’, cioè più ‘includente’ di questo.
Da ogni ente particolare possiamo ‘ascendere’ logicamente all’Assoluto universale.
“In virtù dell’Uno – egli dice – tutti gli esseri sono quello che sono: infatti, che cosa sarebbe un essere se non fosse uno?...In ogni cosa c’è un’unità alla quale si deve risalire e tutto si deve ricondurre all’unità che è antecedente, finché di grado in grado si giunge all’Uno assoluto
(di Attilio Quattrocchi)
La filosofia plotiniana rappresenta il punto più alto della metafisica occidentale. Il filosofo di origine egiziana è l’ultimo grande rappresentante della cultura greca ‘classica’ e porta a compimento un percorso speculativo che, ispirandosi direttamente soprattutto a Platone ed Aristotele, in realtà ripropone, consapevolmente, le grandi intuizioni della tradizione sacrale greca, in particolar modo di quella misterica.
Egli dà voce all’istanza di una metafisica ‘realizzativa’ cioè di una speculazione che si ‘concluda’ con una diretta esperienza del mondo spirituale, costituendo di fatto l’ esponente più illustre di una gnosi ‘filosofica’, ben diversa dalla gnosi ‘religiosa’ del suo tempo (cristianesimo, manicheismo e, per alcuni aspetti, lo stesso gnosticismo).
Egli infatti non si affida ad una qualche ‘fede’ ma riconosce nell’attività logica un necessario preliminare per ogni esperienza metafisica autentica la quale è accessibile all’uomo in quanto tale e dunque è indipendente da qualsiasi ‘rivelazione storica’.
In tal modo egli distingue sempre nettamente l’irrazionale dal sovrarazionale, l’esperienza mistica ‘visionaria’ della prassi ‘fideistica’ religiosa da quella ‘consapevole’, ‘lucida’ e ‘veritativa’ della via filosofico-metafisica.
Pur costituendo la sua filosofia ‘il più astratto sistema metafisico occidentale’, Plotino inizia la sua ricerca partendo dalla concreta realtà del mondo.
Questo, alla nostra esperienza empirica, risulta come una sterminata congerie di enti aventi ciascuno una sua specifica identità, una sua particolare ‘individualità’.
Alla luce, però, della ragione è assolutamente evidente la loro connessione ed interazione nell’ambito un’unica realtà.
Oltretutto gli enti singoli non solo interagiscono ma si ‘generano’ gli uni dagli altri e ciascuno per vivere ‘si nutre’ degli altri.
Per questo la molteplicità postula, implica, l’unità che è in effetti una totalità ralazionale.
Per tal motivo questa ‘unità’ venne chiamata, nel mondo antico, ‘universo’, vale a dire ‘ciò che tutto avvolge’, ‘che tutto include’, o, meglio, ‘ciò che è avvolto in modo da formare un tutto’ (dal lat. universu(m), neutro sostantivato dall’aggettivo universus, composto da uni e versus, ‘avvolto’).
Per di più, a ben vedere, anche ogni singolo ‘ente’, pur essendo ‘uno’, è costituito da una ‘interna’ molteplicità di organi, strutture, elementi.
Per questo la mente non solo ci consente ma anzi ci ‘obbliga’, attraverso lo stesso processo conoscitivo, a ricondurre ogni realtà singola ad una Realtà Suprema onnicomprensiva; e questa Realtà la si può chiamare per quanto detto l’Uno, l’Uno-Tutto (in greco: én-tò-pan).
Non ci può essere ‘filosoficamente’ concetto più ‘elevato’, cioè più ‘includente’ di questo.
Da ogni ente particolare possiamo ‘ascendere’ logicamente all’Assoluto universale.
“In virtù dell’Uno – egli dice – tutti gli esseri sono quello che sono: infatti, che cosa sarebbe un essere se non fosse uno?...In ogni cosa c’è un’unità alla quale si deve risalire e tutto si deve ricondurre all’unità che è antecedente, finché di grado in grado si giunge all’Uno assoluto
che non ci riconduce ad altro” (Enneadi, VI, 9, 1).
Tuttavia, sempre all’occhio della ragione, risulta evidente che tale Totalità non è da intendere come ‘uniformità’, è evidente cioè che l’Uno ha (o ‘si manifesta attraverso’) una sua ‘molteplicità strutturale’.
Esiste un ‘piano’, un ‘dominio’, un ‘ambito’ della realtà che è privo di una energia dinamica ‘interna’, cioè è privo di ‘vita’: è il mondo ‘inanimato’, soggetto a pure leggi meccaniche.
Ma esiste anche un ‘dominio’ della realtà in cui agiscono, si nutrono, si muovono, si riproducono ‘enti’ dotati di in principio ‘interno’ di movimento; tale ‘regno’ è quello più elementare dei ‘vegetali’ (dotato, dicevano i greci, dell’anima ‘vegetativa’) e quello, più complesso, degli ‘animali’ che altre all’anima ‘vegetativa’ hanno un principio dinamico-conoscitivo che consente loro di muoversi nell’ambiente oltre che di ‘percepire’ ed interagire più consapevolmente col mondo, cioè un’anima ‘sensitiva’.
Infine nell’uomo è presente ‘qualcosa’ di diverso di più ‘ elevato’, che si può designare come ‘anima intellettiva’, il logos.
Questa ‘molteplicità degli ‘stati dell’Essere’ era già stata messa in evidenza da tutta la filosofia greca e Plotino la fa propria.
Dunque esistono tre ‘piani’ di unica realtà in cui vivono ed interagiscono tre tipi di enti: l’inanimato, l’animato, il cosciente.
Quest’ultimo include tutti gli uomini in quanto consapevoli di sé e del mondo e pertanto hanno come caratteristica peculiare la ‘consapevolezza’ e la capacità di ‘riflessione’ (in latino reflexione(m) significa propriamente ‘ripiegamento’, ‘riavvolgimento’).
E’ tipico e peculiare dell’uomo, infatti, non solo il ‘conoscere’ ma anche la chiara coscienza del proprio conoscere e quella di assumere persino ‘se stesso’ come ‘oggetto di conoscenza’, dimostrando con ciò una sua capacità di ‘trascendenza’ rispetto alla pura dimensione
Tuttavia, sempre all’occhio della ragione, risulta evidente che tale Totalità non è da intendere come ‘uniformità’, è evidente cioè che l’Uno ha (o ‘si manifesta attraverso’) una sua ‘molteplicità strutturale’.
Esiste un ‘piano’, un ‘dominio’, un ‘ambito’ della realtà che è privo di una energia dinamica ‘interna’, cioè è privo di ‘vita’: è il mondo ‘inanimato’, soggetto a pure leggi meccaniche.
Ma esiste anche un ‘dominio’ della realtà in cui agiscono, si nutrono, si muovono, si riproducono ‘enti’ dotati di in principio ‘interno’ di movimento; tale ‘regno’ è quello più elementare dei ‘vegetali’ (dotato, dicevano i greci, dell’anima ‘vegetativa’) e quello, più complesso, degli ‘animali’ che altre all’anima ‘vegetativa’ hanno un principio dinamico-conoscitivo che consente loro di muoversi nell’ambiente oltre che di ‘percepire’ ed interagire più consapevolmente col mondo, cioè un’anima ‘sensitiva’.
Infine nell’uomo è presente ‘qualcosa’ di diverso di più ‘ elevato’, che si può designare come ‘anima intellettiva’, il logos.
Questa ‘molteplicità degli ‘stati dell’Essere’ era già stata messa in evidenza da tutta la filosofia greca e Plotino la fa propria.
Dunque esistono tre ‘piani’ di unica realtà in cui vivono ed interagiscono tre tipi di enti: l’inanimato, l’animato, il cosciente.
Quest’ultimo include tutti gli uomini in quanto consapevoli di sé e del mondo e pertanto hanno come caratteristica peculiare la ‘consapevolezza’ e la capacità di ‘riflessione’ (in latino reflexione(m) significa propriamente ‘ripiegamento’, ‘riavvolgimento’).
E’ tipico e peculiare dell’uomo, infatti, non solo il ‘conoscere’ ma anche la chiara coscienza del proprio conoscere e quella di assumere persino ‘se stesso’ come ‘oggetto di conoscenza’, dimostrando con ciò una sua capacità di ‘trascendenza’ rispetto alla pura dimensione
meccanico/istintiva cui lo lega il ‘suo’ corpo.
E’ proprio tale ‘consapevolezza’ e capacità di ‘riflessione’ a consentire all’uomo la possibilità ‘pratica’, cioè ‘comportamentale’ di controllare le pulsioni istintive e le emozioni irriflessive, consentendo in tal modo l’esistenza di una vita ‘morale’, cioè di una vita in cui la ragione possa dettare le ‘regole’ del comportamento.
Dunque esistono tre diversi piani della realtà che noi possiamo ‘esperire’, anzi tre diversi piani che ‘confluiscono’ nella stessa realtà ‘umana’, giacché l’uomo (che per questo è un ‘microcosmo’) è materia inanimata in relazione alla sua struttura organica, è ‘vita’ quanto a desideri, pulsioni, sentimenti, è ‘spirito’ in quanto coscienza di sé e del mondo.
L’uomo scopre così in sé stesso una natura unitaria ed una struttura trinitaria (per questo la sapienza greca ha sempre visto nel Cosmo i tre gradi universali di quella struttura, tanto da concepire l’ Universo come un Grande Uomo (Macrantropo) e l’uomo stesso come un Universo in piccolo (Microcosmo).
L’Uno si ‘manifesta’ attraverso tutti e tre questi ‘mondi’ e non li può creare dal ‘nulla’ poiché se il nulla ‘esistesse’ non sarebbe più tale.
Ma se al corpo umano corrisponde l’Universo materiale (di cui lo stesso corpo è infinitesima parte), per analogia bisognerà ammettere che alla sua energia vitale corrisponde l’energia di vita universale (l’Anima del Mondo) e allo spirito umano una Coscienza Cosmica.
Conoscendo se stesso, dunque, l’uomo può conoscere la struttura stessa del Mondo e la ‘via’ della conoscenza consisterà nel risalire (dapprima ‘logicamente’ e poi ‘ intuitivamente’) dal Particolare all’Universale.
L’Essenza e l’Origine del Mondo non possono essere così che ‘metafisiche ’, vale a poste oltre la pura percezione fisica.
Con il termine ‘Uno’ Plotino pertanto designa la Realtà Suprema, il Divino inteso come centro d’irradiazione di tutti gli esseri, il primum ineffabile ed indefinibile da cui tutto ha origine e al cui ‘interno’ tutto si manifesta.
L’Uno che è l’Ente per eccellenza non può che ‘irradiare’, ‘emanare’, ‘generare’ la realtà, la quale per ciò stesso non può essere ‘ totalmente altra da Lui’: ogni singola ‘realtà’ anche la più minuta, la più infima, la più ‘insignificante’ è un ‘modo’ di manifestarsi dell’Uno, è, per così dire, una sua ‘parte’.
Tale processo emanativo è indicato da Plotino con termini (forzatamente ‘metaforici ’) come apòrroia (απόρροια, da από = da e ρέω = scorro; dunque ‘deflusso’); oppure prόodos (da πρό = verso, e οδός = via; dunque: uscita, avanzata, generazione) oltre che perίlampsis (περίλαμψις, da περί= intorno e λάμπω = illumino, dunque : ‘irradiazione’, ‘ splendore’, ‘illuminazione’).
L’Uno, dunque, ‘irradiandosi’ produce tre ‘sostanze’ o ‘modi di essere’ o ‘stati dell’essere’: lo Spirito universale, (a cui corrisponde nel microcosmo uomo la ‘coscienza’), l’Anima del mondo (a cui corrisponde nell’uomo l’anima come ‘energia vitale’) e la Materia (a cui corrisponde nell’uomo il corpo).
Plotino dunque ripropone la tradizionale tripartizione dell’uomo in soma, psichè, nous considerando le tre componenti come ‘parti’ di corrispondenti realtà universali; con ciò spiega ‘teoreticamente’ la concreta possibilità per lo spirito umano di ascendere a stati di coscienza sovraindividuali sino all’identificazione mistica con la Sorgente stessa del Tutto, l’Uno, attraverso un processo di ‘riconversione ’ o ‘ritorno’.
Per indicare i gradi della realtà ‘intellegibile’ Plotino utilizza il termine ‘ipostasi’ (υπόστασις, da υπό = sotto e ίστημι = stare, dunque ha il senso di ‘fondamento’, ‘base’, ‘sostanza’, ‘essenza’).
Tre sono le ipostasi l’Uno, lo Spirito e l’Anima, da lui paragonate alla luce, al sole, alla luna (Enn., V, VI, 4).
La Materia non è per Plotino una ipostasi ma l’estrema propaggine dell’Anima (per cui, propriamente, non è l’anima ad essere ‘dentro’ il corpo ma è questo ad essere dentro l’anima, la quale lo ’avvolge’ come una invisibile ‘aura’).
Per quanto detto è evidente che le tre ‘ipostasi’ sono più che tre realtà ontologiche distinte, tre aspetti dell’unica ‘sostanza’ (ousìa).
Nelle successive elaborazioni teologiche cristiane (chiaramente ‘ispirate’ alla tripartizione plotiniana) sarà utilizzato il termine ‘ipostasi’ per indicare la specificità delle tre ‘persone’ divine mentre il termine ousìa rimarrà a designare l’essenza unica delle tre ipostasi.
E’ proprio tale ‘consapevolezza’ e capacità di ‘riflessione’ a consentire all’uomo la possibilità ‘pratica’, cioè ‘comportamentale’ di controllare le pulsioni istintive e le emozioni irriflessive, consentendo in tal modo l’esistenza di una vita ‘morale’, cioè di una vita in cui la ragione possa dettare le ‘regole’ del comportamento.
Dunque esistono tre diversi piani della realtà che noi possiamo ‘esperire’, anzi tre diversi piani che ‘confluiscono’ nella stessa realtà ‘umana’, giacché l’uomo (che per questo è un ‘microcosmo’) è materia inanimata in relazione alla sua struttura organica, è ‘vita’ quanto a desideri, pulsioni, sentimenti, è ‘spirito’ in quanto coscienza di sé e del mondo.
L’uomo scopre così in sé stesso una natura unitaria ed una struttura trinitaria (per questo la sapienza greca ha sempre visto nel Cosmo i tre gradi universali di quella struttura, tanto da concepire l’ Universo come un Grande Uomo (Macrantropo) e l’uomo stesso come un Universo in piccolo (Microcosmo).
L’Uno si ‘manifesta’ attraverso tutti e tre questi ‘mondi’ e non li può creare dal ‘nulla’ poiché se il nulla ‘esistesse’ non sarebbe più tale.
Ma se al corpo umano corrisponde l’Universo materiale (di cui lo stesso corpo è infinitesima parte), per analogia bisognerà ammettere che alla sua energia vitale corrisponde l’energia di vita universale (l’Anima del Mondo) e allo spirito umano una Coscienza Cosmica.
Conoscendo se stesso, dunque, l’uomo può conoscere la struttura stessa del Mondo e la ‘via’ della conoscenza consisterà nel risalire (dapprima ‘logicamente’ e poi ‘ intuitivamente’) dal Particolare all’Universale.
L’Essenza e l’Origine del Mondo non possono essere così che ‘metafisiche ’, vale a poste oltre la pura percezione fisica.
Con il termine ‘Uno’ Plotino pertanto designa la Realtà Suprema, il Divino inteso come centro d’irradiazione di tutti gli esseri, il primum ineffabile ed indefinibile da cui tutto ha origine e al cui ‘interno’ tutto si manifesta.
L’Uno che è l’Ente per eccellenza non può che ‘irradiare’, ‘emanare’, ‘generare’ la realtà, la quale per ciò stesso non può essere ‘ totalmente altra da Lui’: ogni singola ‘realtà’ anche la più minuta, la più infima, la più ‘insignificante’ è un ‘modo’ di manifestarsi dell’Uno, è, per così dire, una sua ‘parte’.
Tale processo emanativo è indicato da Plotino con termini (forzatamente ‘metaforici ’) come apòrroia (απόρροια, da από = da e ρέω = scorro; dunque ‘deflusso’); oppure prόodos (da πρό = verso, e οδός = via; dunque: uscita, avanzata, generazione) oltre che perίlampsis (περίλαμψις, da περί= intorno e λάμπω = illumino, dunque : ‘irradiazione’, ‘ splendore’, ‘illuminazione’).
L’Uno, dunque, ‘irradiandosi’ produce tre ‘sostanze’ o ‘modi di essere’ o ‘stati dell’essere’: lo Spirito universale, (a cui corrisponde nel microcosmo uomo la ‘coscienza’), l’Anima del mondo (a cui corrisponde nell’uomo l’anima come ‘energia vitale’) e la Materia (a cui corrisponde nell’uomo il corpo).
Plotino dunque ripropone la tradizionale tripartizione dell’uomo in soma, psichè, nous considerando le tre componenti come ‘parti’ di corrispondenti realtà universali; con ciò spiega ‘teoreticamente’ la concreta possibilità per lo spirito umano di ascendere a stati di coscienza sovraindividuali sino all’identificazione mistica con la Sorgente stessa del Tutto, l’Uno, attraverso un processo di ‘riconversione ’ o ‘ritorno’.
Per indicare i gradi della realtà ‘intellegibile’ Plotino utilizza il termine ‘ipostasi’ (υπόστασις, da υπό = sotto e ίστημι = stare, dunque ha il senso di ‘fondamento’, ‘base’, ‘sostanza’, ‘essenza’).
Tre sono le ipostasi l’Uno, lo Spirito e l’Anima, da lui paragonate alla luce, al sole, alla luna (Enn., V, VI, 4).
La Materia non è per Plotino una ipostasi ma l’estrema propaggine dell’Anima (per cui, propriamente, non è l’anima ad essere ‘dentro’ il corpo ma è questo ad essere dentro l’anima, la quale lo ’avvolge’ come una invisibile ‘aura’).
Per quanto detto è evidente che le tre ‘ipostasi’ sono più che tre realtà ontologiche distinte, tre aspetti dell’unica ‘sostanza’ (ousìa).
Nelle successive elaborazioni teologiche cristiane (chiaramente ‘ispirate’ alla tripartizione plotiniana) sarà utilizzato il termine ‘ipostasi’ per indicare la specificità delle tre ‘persone’ divine mentre il termine ousìa rimarrà a designare l’essenza unica delle tre ipostasi.
L’UNO E LA SUA NATURA
Nelle Enneadi Plotino sostiene con forza l’impossibilità di ‘definire’ l’Uno. E ciò per un motivo speculativo molto evidente, poiché ‘definire’ qualcosa significa ‘circoscriverla’, differenziarla da altre.
Il ‘definire’ nella logica aristotelica è l’atto con cui di qualcosa indichiamo il ‘genere prossimo’ e la ‘differenza specifica’; così un ‘uomo’ per definizione è un ‘animale’ (genere prossimo) ‘razionale’ (differenza specifica rispetto alle altre specie animali). Dunque, se ‘definire’ significa porre dei ‘fines’, dei ‘confini’, come potrà essere fatto ciò in relazione alla Realtà Assoluta, da che cosa potrà essere ‘ delimitata’ e ‘circoscritta’ se essa stessa è la Totalità?
L’Uno pertanto è ‘indescrivibile’ così come la esperienza umana di Lui sarà ‘ineffabile’.
L’Uno è al di là di ogni ‘concetto’ e della logica discorsiva, può essere ‘oggetto’ solo di una mistica intuizione.
Lo stesso Plotino riconosce, molto coerentemente, che anche la designazione ‘Uno’ è, a rigore, impropria: “…lo stesso termine ‘Uno’ non significa altro che la negazione della molteplicità…si può adoperare questa parola per cominciare la ricerca con un vocabolo che denoti la massima semplicità , ma infine bisogna negare anche questo stesso attributo, il quale non merita più degli altri di definire quella natura che non può essere attinta dall’udito né compresa da colui che la nomina” (Enneadi, V, 5, 6).
Pertanto dell’Uno può dirsi solo “ciò che non è”: ” Essendo infatti la natura dell’Uno generatrice del Tutto, non è nulla di ciò che esso genera: essa non è pertanto ‘qualcosa’, né è qualità, né quantità, né Spirito, né Anima; non è neppure ‘in movimento’, né, d’altronde, ‘in quiete’; non è ‘in uno spazio’; non è ‘in un tempo’; essa è invece l’Ideale solitario, tutto chiuso in se stesso o, meglio, l’Informe che esiste prima di ogni ideale, prima del moto, prima della quiete; poiché tali valori aderiscono all’essere e lo fanno molteplice…” (Enneadi, VI, 9,
Nelle Enneadi Plotino sostiene con forza l’impossibilità di ‘definire’ l’Uno. E ciò per un motivo speculativo molto evidente, poiché ‘definire’ qualcosa significa ‘circoscriverla’, differenziarla da altre.
Il ‘definire’ nella logica aristotelica è l’atto con cui di qualcosa indichiamo il ‘genere prossimo’ e la ‘differenza specifica’; così un ‘uomo’ per definizione è un ‘animale’ (genere prossimo) ‘razionale’ (differenza specifica rispetto alle altre specie animali). Dunque, se ‘definire’ significa porre dei ‘fines’, dei ‘confini’, come potrà essere fatto ciò in relazione alla Realtà Assoluta, da che cosa potrà essere ‘ delimitata’ e ‘circoscritta’ se essa stessa è la Totalità?
L’Uno pertanto è ‘indescrivibile’ così come la esperienza umana di Lui sarà ‘ineffabile’.
L’Uno è al di là di ogni ‘concetto’ e della logica discorsiva, può essere ‘oggetto’ solo di una mistica intuizione.
Lo stesso Plotino riconosce, molto coerentemente, che anche la designazione ‘Uno’ è, a rigore, impropria: “…lo stesso termine ‘Uno’ non significa altro che la negazione della molteplicità…si può adoperare questa parola per cominciare la ricerca con un vocabolo che denoti la massima semplicità , ma infine bisogna negare anche questo stesso attributo, il quale non merita più degli altri di definire quella natura che non può essere attinta dall’udito né compresa da colui che la nomina” (Enneadi, V, 5, 6).
Pertanto dell’Uno può dirsi solo “ciò che non è”: ” Essendo infatti la natura dell’Uno generatrice del Tutto, non è nulla di ciò che esso genera: essa non è pertanto ‘qualcosa’, né è qualità, né quantità, né Spirito, né Anima; non è neppure ‘in movimento’, né, d’altronde, ‘in quiete’; non è ‘in uno spazio’; non è ‘in un tempo’; essa è invece l’Ideale solitario, tutto chiuso in se stesso o, meglio, l’Informe che esiste prima di ogni ideale, prima del moto, prima della quiete; poiché tali valori aderiscono all’essere e lo fanno molteplice…” (Enneadi, VI, 9,
3).
Da tale posizione prenderà le mosse la cosidetta ‘teologia negativa’ o ‘apofatica’ (da apofatikόs – αποφατικός, da απόφασις = negazione, termine che si collega a απόφημι = non-dire) che influenzerà anche talune speculazioni dottrinarie cristiane.
L’idea che l’intera realtà derivi da un unico Principio e che ad esso l’ Uomo possa ‘ritornare’ Plotino la ritrova nel celebre aforisma di Eraclito che egli espressamente cita: “Da tutte le cose l’Uno e dall’Uno tutte le cose”.
Da tale posizione prenderà le mosse la cosidetta ‘teologia negativa’ o ‘apofatica’ (da apofatikόs – αποφατικός, da απόφασις = negazione, termine che si collega a απόφημι = non-dire) che influenzerà anche talune speculazioni dottrinarie cristiane.
L’idea che l’intera realtà derivi da un unico Principio e che ad esso l’ Uomo possa ‘ritornare’ Plotino la ritrova nel celebre aforisma di Eraclito che egli espressamente cita: “Da tutte le cose l’Uno e dall’Uno tutte le cose”.
LE IPOSTASI, LA MATERIA ED I CORPI
L’Uno è, dunque, Suprema Potenza, “sovrabbondanza d’essere” e per questo ‘irradia’ la realtà nelle sue articolazioni; con tale processo, però, Egli “non esce da sé” (e dove potrebbe andare?) ma “produce in sé” ogni cosa.
Facendo ciò non si ‘depotenzia’, non si ‘sminuisce’, perché, anche in tal caso, dovrebbe in qualche modo ‘estinguersi’ in qualcosa che sia altro da sé.
Plotino per esprimere tale processo non può che usare delle metafore, come quella del sole che irradia luce in ogni direzione senza diminuire il suo splendore, oppure come quella del fuoco che irradia calore, della sostanza che emana un profumo, della fonte da cui ininterrottamente sgorga acqua o quella di un albero la cui radice, che è una e rimane fissa in sé, si sviluppa nella pianta articolatamente.
Dall’Uno, prima ipostasi, per emanazione, cioè per un movimento di ‘de-gradazione ’ (gradus in latino significa appunto ‘scalino’) scaturisce il Nous, lo Spirito Universale la cui ‘natura già implica una dualità: quella tra pensante e pensato; dunque ha un grado ‘minore’ di ‘realtà ’, vale a dire di ‘perfezione’.
Da questo procede, l’Anima del mondo che vivifica la Materia da essa stessa prodotta dando origine agli enti dotati di vita.
Per tale motivo tutte le anime degli esseri viventi vanno intese come ‘parti’ e ‘frammenti’ di una cosmica Forza Vitale.
Lo stesso principio ‘monistico’ vale anche per la facoltà più elevata dell’uomo, quella della consapevolezza, della intelligenza per cui le coscienze ‘umane’ sono da intendere ‘ontologicamente’ come ‘articolazioni’ ‘finite’ di un unico Spirito Universale.
La coscienza può ‘risalire’, vale a dire ‘sublimarsi’, ripercorrendo a ritroso la via seguita dal processo emanativo e quindi ‘sollevarsi’ dalla materia/corpo(sede degli istinti) all’anima (sede delle emozioni), da questa allo spirito (sede dei pensieri) e oltre questo pervenire alla meta, cioè all’identificazione estatica con l’Uno sovrarazionale: la henosis (ένωσις, propriamente ‘unificazione’, dal neutro έν = uno).
Tale processo di ‘risalita’ implica una ‘purificazione dell’anima’ che consisterà pertanto in un suo svincolamento dal corporeo e in una sua ascensione alla dimensione della universalità.
Egli ripropone la teoria platonica esposta nel Timeo, nella Repubblica e nel Fedro (con il mito della ‘biga alata’) secondo la quale la stessa anima individuale ha tre diversi livelli ‘qualitativi’ tra loro connessi e quindi tre corrispondenti funzioni.
Esiste una parte più elevata che svolge la funzione intellettiva ed è il loghistikόn, un’altra parte (sostanzialmente opposta alla prima) è quella legata ai bisogni istintivi del corpo e dominata dal principio del piacere sensibile ed è la ‘parte’ concupiscibile: epithymetikόn; infine c’è una ‘parte’ mediana, la parte ‘emotiva’, da Platone definita ‘irascibile ’: thymikόn la quale può ‘allearsi’ sia con quella più elevata che con quella infima.
È noto che su questa tripartizione il fondatore dell’Accademia modellò la città ideale in cui i saggi governano in quanto ispirati dal logos, mentre ad essi sono subordinati sia i guerrieri guidati dall’ira (le emozioni) che i produttori guidati dal desiderio di cose materiali (gli istinti).
Per Plotino, così come per il suo Maestro, ‘saggio’ è colui che coltivando ed esercitando la ragione, come principio sia della vita teoretica che di quella pratica alimenta il principio ‘divino’ che gli è immanente.
Ma la ragione può essere trascesa e mutarsi in pura contemplazione solo se viene utilizzata sino alle sue estreme possibilità dialettiche.
Solo l’esercizio della ragione ne consente successivamente il suo stesso trascendimento.
Pertanto, secondo Plotino, l’esperienza mistica ‘filosofica’ (a differenza di quella ‘fideistico-religiosa’) non è antitetica a quella razionale ma, al contrario, il suo ‘naturale’ sviluppo.
Per questo il filosofo, avendo compreso ‘razionalmente’ che ‘tutto è uno’, cioè che la molteplicità del sensibile e dei fenomeni può e deve essere ricondotta ad un quando relazionale unitario, avverte la necessità di una esperienza diretta di tale unità metafisica e dalla ‘concettualizzazione’ filo-sofica tende a passare alla intuizione ‘sofica’, cioè meta razionale, dell’Uno.
La prassi filosofica s’identifica così perfettamente con quella ‘rituale’ iniziatica.
Essa avrà valore solo se ‘abituerà’ ed ‘allenerà’ l’uomo a ‘svincolare la coscienza dal corpo’ giacché non solo la coscienza dell’uomo ordinario identifica erroneamente la realtà con la sensibilità, ma è anche ‘legata’ e ‘subordinata ’ alle pulsioni che da questa provengono.
Dunque chi cerca la ‘conoscenza’ deve ‘centrare’ la propria coscienza sulla funzione più elevata dello spirito, deve ‘operare’ con essa e avere quindi una vita ‘morale’ allontanando le ‘passioni’ la cui vera natura è quella di ‘vincoli’ corporei.
L’imperativo filosofico/iniziatico è chiaro: bisogna ‘staccare’ la coscienza dai bisogni del corpo, staccarla, ‘isolarla’ dalla stessa percezione del corpo e dai ricordi, fantasie, immagini che da esso provengono per poi ‘fissarla’, ‘concentrarla’ unicamente su se stessa per conoscerne la vera natura.
Divenuta così ‘pura’ ed ‘incontaminata’ l’anima può innalzarsi, anzi, di certo s’innalzerà alla dimensione metafisica per un suo ‘spontaneo’ movimento ‘verso l’Alto’, per un suo ‘naturale’ tendere verso il divino, l’Uno da cui proviene.
L’anima del saggio vuole ‘ritornare a casa’ poiché ne prova una struggente ‘nostalgia’ e non è necessaria alcuna ‘fede’ per iniziare e completare tale processo ascensivo, ‘anagogico’ ma solo un processo ‘delfico’ di autoconoscenza.
Plotino condivide del tutto la ‘tecnica mistico-estatica’ che Platone aveva indicato nel Fedone: “ Quando l’anima, restando in sé sola e per sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immutabile, e, avendo natura affine a quello, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola” (Trad. di G. Reale; 74 d).
Bisogna che l’anima si ‘alleni’, si ‘abitui’ a ‘rimanere in se sola’; è necessario un ‘esercizio’, cioè un’ascesi interiore che separi la dianoia dal nous, cioè la riflessione razionale dalla pura coscienza dell’io-sono.
Bisogna sollevarsi dal piano della sensibilità e del ragionare discorsivo ad esso connesso.
Plotino esprime tali medesime convinzioni in modo molto sintetico e chiaro nel nono trattato della seconda Enneade: “La nostra anima ha una parte che è sempre presso gli intellegibili (è, appunto, il loghistikόn); un’altra che è presso le cose sensibili (l’ epithymetikόn), un’altra che è tra le une e le altre (il thymikόn); l’anima è una natura unica con parecchie potenze (le ‘parti di cui parla Platone con le rispettive funzioni e facoltà: conoscenza, sentimento, istinto) che ora si raccoglie tutta in quella parte che è la migliore di lei e dell’essere (naturalmente quella ‘razionale’), ora la sua parte inferiore precipitando trascina con sé la parte mediana: poiché non è permesso che l’anima sia trascinata tutt’intera (vale a dire che finché l’uomo è ‘vivo’ nessuna delle tre funzioni può essere del tutto eliminata: anche nell’uomo che perviene all’estasi attraverso la separazione della coscienza, dell’anima ‘razionale’ e di quella ‘sensitiva’ dal corpo rimane un suo collegamento, anche se molto ridotto, con quella vegetativa e dunque con il corpo stesso e le sue funzioni vitali, altrimenti si verificherebbe una morte all’istante. L’estasi infatti è una ‘piccola morte’). E questa sventura – continua Plotino – le accade perché essa non è rimasta nella bellissima sede dell’Anima universale”.
L’Uno è, dunque, Suprema Potenza, “sovrabbondanza d’essere” e per questo ‘irradia’ la realtà nelle sue articolazioni; con tale processo, però, Egli “non esce da sé” (e dove potrebbe andare?) ma “produce in sé” ogni cosa.
Facendo ciò non si ‘depotenzia’, non si ‘sminuisce’, perché, anche in tal caso, dovrebbe in qualche modo ‘estinguersi’ in qualcosa che sia altro da sé.
Plotino per esprimere tale processo non può che usare delle metafore, come quella del sole che irradia luce in ogni direzione senza diminuire il suo splendore, oppure come quella del fuoco che irradia calore, della sostanza che emana un profumo, della fonte da cui ininterrottamente sgorga acqua o quella di un albero la cui radice, che è una e rimane fissa in sé, si sviluppa nella pianta articolatamente.
Dall’Uno, prima ipostasi, per emanazione, cioè per un movimento di ‘de-gradazione ’ (gradus in latino significa appunto ‘scalino’) scaturisce il Nous, lo Spirito Universale la cui ‘natura già implica una dualità: quella tra pensante e pensato; dunque ha un grado ‘minore’ di ‘realtà ’, vale a dire di ‘perfezione’.
Da questo procede, l’Anima del mondo che vivifica la Materia da essa stessa prodotta dando origine agli enti dotati di vita.
Per tale motivo tutte le anime degli esseri viventi vanno intese come ‘parti’ e ‘frammenti’ di una cosmica Forza Vitale.
Lo stesso principio ‘monistico’ vale anche per la facoltà più elevata dell’uomo, quella della consapevolezza, della intelligenza per cui le coscienze ‘umane’ sono da intendere ‘ontologicamente’ come ‘articolazioni’ ‘finite’ di un unico Spirito Universale.
La coscienza può ‘risalire’, vale a dire ‘sublimarsi’, ripercorrendo a ritroso la via seguita dal processo emanativo e quindi ‘sollevarsi’ dalla materia/corpo(sede degli istinti) all’anima (sede delle emozioni), da questa allo spirito (sede dei pensieri) e oltre questo pervenire alla meta, cioè all’identificazione estatica con l’Uno sovrarazionale: la henosis (ένωσις, propriamente ‘unificazione’, dal neutro έν = uno).
Tale processo di ‘risalita’ implica una ‘purificazione dell’anima’ che consisterà pertanto in un suo svincolamento dal corporeo e in una sua ascensione alla dimensione della universalità.
Egli ripropone la teoria platonica esposta nel Timeo, nella Repubblica e nel Fedro (con il mito della ‘biga alata’) secondo la quale la stessa anima individuale ha tre diversi livelli ‘qualitativi’ tra loro connessi e quindi tre corrispondenti funzioni.
Esiste una parte più elevata che svolge la funzione intellettiva ed è il loghistikόn, un’altra parte (sostanzialmente opposta alla prima) è quella legata ai bisogni istintivi del corpo e dominata dal principio del piacere sensibile ed è la ‘parte’ concupiscibile: epithymetikόn; infine c’è una ‘parte’ mediana, la parte ‘emotiva’, da Platone definita ‘irascibile ’: thymikόn la quale può ‘allearsi’ sia con quella più elevata che con quella infima.
È noto che su questa tripartizione il fondatore dell’Accademia modellò la città ideale in cui i saggi governano in quanto ispirati dal logos, mentre ad essi sono subordinati sia i guerrieri guidati dall’ira (le emozioni) che i produttori guidati dal desiderio di cose materiali (gli istinti).
Per Plotino, così come per il suo Maestro, ‘saggio’ è colui che coltivando ed esercitando la ragione, come principio sia della vita teoretica che di quella pratica alimenta il principio ‘divino’ che gli è immanente.
Ma la ragione può essere trascesa e mutarsi in pura contemplazione solo se viene utilizzata sino alle sue estreme possibilità dialettiche.
Solo l’esercizio della ragione ne consente successivamente il suo stesso trascendimento.
Pertanto, secondo Plotino, l’esperienza mistica ‘filosofica’ (a differenza di quella ‘fideistico-religiosa’) non è antitetica a quella razionale ma, al contrario, il suo ‘naturale’ sviluppo.
Per questo il filosofo, avendo compreso ‘razionalmente’ che ‘tutto è uno’, cioè che la molteplicità del sensibile e dei fenomeni può e deve essere ricondotta ad un quando relazionale unitario, avverte la necessità di una esperienza diretta di tale unità metafisica e dalla ‘concettualizzazione’ filo-sofica tende a passare alla intuizione ‘sofica’, cioè meta razionale, dell’Uno.
La prassi filosofica s’identifica così perfettamente con quella ‘rituale’ iniziatica.
Essa avrà valore solo se ‘abituerà’ ed ‘allenerà’ l’uomo a ‘svincolare la coscienza dal corpo’ giacché non solo la coscienza dell’uomo ordinario identifica erroneamente la realtà con la sensibilità, ma è anche ‘legata’ e ‘subordinata ’ alle pulsioni che da questa provengono.
Dunque chi cerca la ‘conoscenza’ deve ‘centrare’ la propria coscienza sulla funzione più elevata dello spirito, deve ‘operare’ con essa e avere quindi una vita ‘morale’ allontanando le ‘passioni’ la cui vera natura è quella di ‘vincoli’ corporei.
L’imperativo filosofico/iniziatico è chiaro: bisogna ‘staccare’ la coscienza dai bisogni del corpo, staccarla, ‘isolarla’ dalla stessa percezione del corpo e dai ricordi, fantasie, immagini che da esso provengono per poi ‘fissarla’, ‘concentrarla’ unicamente su se stessa per conoscerne la vera natura.
Divenuta così ‘pura’ ed ‘incontaminata’ l’anima può innalzarsi, anzi, di certo s’innalzerà alla dimensione metafisica per un suo ‘spontaneo’ movimento ‘verso l’Alto’, per un suo ‘naturale’ tendere verso il divino, l’Uno da cui proviene.
L’anima del saggio vuole ‘ritornare a casa’ poiché ne prova una struggente ‘nostalgia’ e non è necessaria alcuna ‘fede’ per iniziare e completare tale processo ascensivo, ‘anagogico’ ma solo un processo ‘delfico’ di autoconoscenza.
Plotino condivide del tutto la ‘tecnica mistico-estatica’ che Platone aveva indicato nel Fedone: “ Quando l’anima, restando in sé sola e per sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immutabile, e, avendo natura affine a quello, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola” (Trad. di G. Reale; 74 d).
Bisogna che l’anima si ‘alleni’, si ‘abitui’ a ‘rimanere in se sola’; è necessario un ‘esercizio’, cioè un’ascesi interiore che separi la dianoia dal nous, cioè la riflessione razionale dalla pura coscienza dell’io-sono.
Bisogna sollevarsi dal piano della sensibilità e del ragionare discorsivo ad esso connesso.
Plotino esprime tali medesime convinzioni in modo molto sintetico e chiaro nel nono trattato della seconda Enneade: “La nostra anima ha una parte che è sempre presso gli intellegibili (è, appunto, il loghistikόn); un’altra che è presso le cose sensibili (l’ epithymetikόn), un’altra che è tra le une e le altre (il thymikόn); l’anima è una natura unica con parecchie potenze (le ‘parti di cui parla Platone con le rispettive funzioni e facoltà: conoscenza, sentimento, istinto) che ora si raccoglie tutta in quella parte che è la migliore di lei e dell’essere (naturalmente quella ‘razionale’), ora la sua parte inferiore precipitando trascina con sé la parte mediana: poiché non è permesso che l’anima sia trascinata tutt’intera (vale a dire che finché l’uomo è ‘vivo’ nessuna delle tre funzioni può essere del tutto eliminata: anche nell’uomo che perviene all’estasi attraverso la separazione della coscienza, dell’anima ‘razionale’ e di quella ‘sensitiva’ dal corpo rimane un suo collegamento, anche se molto ridotto, con quella vegetativa e dunque con il corpo stesso e le sue funzioni vitali, altrimenti si verificherebbe una morte all’istante. L’estasi infatti è una ‘piccola morte’). E questa sventura – continua Plotino – le accade perché essa non è rimasta nella bellissima sede dell’Anima universale”.
Per una misteriosa colpa e per una ignoranza ‘metafisica’ l’anima dell’uomo si è separata dal Tutto, dall’Anima universale e, a causa del prevalere della ‘parte concupiscibile’, è ‘precipitata’ nel nostro mondo, si è ‘incarnata’ sino ad essere :” … profondamente immersa nell’essere individuale” (IV, 8, 4).
Così l’uomo diventa ‘scisso’, ‘prigioniero’ del corpo che lo limita, lo rende ‘individuo’, non più connesso alle fonti universali dell’Essere.
La coscienza ‘identificandosi’ con i bisogni e le pulsioni del corpo si autolimita, si acceca, diviene infelice perché cerca la felicità nel piacere dei sensi.
Per descrivere tale situazione drammatica, tale involuzione, Plotino cita congiuntamente, non a caso, sia Platone che le più antiche dottrine misteriche: “ Allora accade all’anima ciò che è detto di lei, cioè che ‘perdette le ali’ e che ‘cadde nei legami corporei’ (il riferimento è al Fedro di Platone, 246 c) poiché perdette quella innocenza con cui si curava prima di cose più alte e che possedeva presso l’Anima universale; e questo stato anteriore era assolutamente migliore di quello dell’anima che deve risalire verso l’alto. L’anima dopo la sua caduta, è imprigionata e messa in ceppi (chiaro riferimento alla dottrina ‘tradizionale’ del corpo carcere/tomba) ed agisce soltanto per mezzo dei sensi poiché è impedita ad agire, almeno all’inizio, mediante la sola intelligenza. Essa è, come si dice,’nel sepolcro’ e ‘nella caverna’ (è chiaro il riferimento al corrispondente e celebre mito platonico narrato nel VII libro della Repubblica); ma quando si volge al pensare, si libera dalle catene e risale non appena la reminiscenza le abbia offerto l’avvio alla contemplazione dell’Essere: essa infatti conserva sempre un
Così l’uomo diventa ‘scisso’, ‘prigioniero’ del corpo che lo limita, lo rende ‘individuo’, non più connesso alle fonti universali dell’Essere.
La coscienza ‘identificandosi’ con i bisogni e le pulsioni del corpo si autolimita, si acceca, diviene infelice perché cerca la felicità nel piacere dei sensi.
Per descrivere tale situazione drammatica, tale involuzione, Plotino cita congiuntamente, non a caso, sia Platone che le più antiche dottrine misteriche: “ Allora accade all’anima ciò che è detto di lei, cioè che ‘perdette le ali’ e che ‘cadde nei legami corporei’ (il riferimento è al Fedro di Platone, 246 c) poiché perdette quella innocenza con cui si curava prima di cose più alte e che possedeva presso l’Anima universale; e questo stato anteriore era assolutamente migliore di quello dell’anima che deve risalire verso l’alto. L’anima dopo la sua caduta, è imprigionata e messa in ceppi (chiaro riferimento alla dottrina ‘tradizionale’ del corpo carcere/tomba) ed agisce soltanto per mezzo dei sensi poiché è impedita ad agire, almeno all’inizio, mediante la sola intelligenza. Essa è, come si dice,’nel sepolcro’ e ‘nella caverna’ (è chiaro il riferimento al corrispondente e celebre mito platonico narrato nel VII libro della Repubblica); ma quando si volge al pensare, si libera dalle catene e risale non appena la reminiscenza le abbia offerto l’avvio alla contemplazione dell’Essere: essa infatti conserva sempre un
qualcosa che, malgrado tutto, rimane in alto” (Enneadi, IV, 8, 4).
E’ chiara la tesi di Plotino: proprio attraverso l’attività ‘astrattiva ’ del pensiero (cioè attraverso la filosofia), cioè quando l’anima ‘si volge al pensare’, l’uomo inizia a liberarsi dalle catene del sensibile. Ciò accade perché l’uomo che ‘pensa’ si concentra tutto nelle sue immagini interiori, per cercare la Verità dubita dei sensi, s’inoltra nella dimensione invisibile del puro pensiero e pertanto comincia, anche se spesso ‘incoscientemente’, a volgere la consapevolezza verso l’interno, cioè a percorrere la giusta strada alla Conoscenza.
Quindi è l’attività ‘razionale’ del logos che lo mette in condizione di poter ‘ricordare’ la sua natura metafisica, ma ciò può accadere perché, pur ‘precipitata ’ e ‘imprigionata’ nel mondo materiale, l’anima conserva sempre una parte che ‘rimane in alto’, cioè che è in virtuale (noi oggi diremmo: inconscio) contatto con l’Uno.
Il loghistikόn, se viene svincolato dal sensibile, quindi ‘purificato’, scopre la sua ‘occulta’ ma constante connessione con l’Uno.
Questa è esattamente quella ’pratica per l’estasi filosofica’ di cui parlerà Campanella nel Rinascimento italiano.
La Materia per Plotino è l’ultimo esito del processo di emanazione dell’Uno e per questo si può definire come ‘privazione’ (ma non ‘totale’) del Bene; è il ‘ margine d’ombra al limitare della luce’, ma non è propriamente il ‘male’. Il Male ontologicamente non esiste perché ciò che esiste è l’Uno ed Esso è il Sommo Bene.
Così il corpo dell’uomo non è solo ‘materia’ o solo ’male’, né potrebbe mai esserlo perché è ‘abitato’ dall’anima la quale non è solo principio vivificante ma anche di consapevolezza e conoscenza, secondo i suoi diversi ‘gradi’.
Ancor meglio, si potrebbe dire che l’anima ‘avvolge’ e ‘circonda’ il corpo, per cui non è l’anima ‘dentro il corpo’ ma il corpo ‘dentro un’ anima’ poiché questa ‘ontologicamente’ lo precede nel processo emanativo.
L’anima costituisce un ‘corpo sottile’ che ‘guida’ e ‘plasma’ con istinti, emozioni e pensieri il corpo ‘denso’ fatto dei quattro elementi (per questo le malattie dell’anima possono diventare malattie del corpo come aveva già notato Platone).
Plotino, come il suo Maestro sa bene che l’anima è capace di ‘plasmare il corpo’ infatti nel Carmide Platone scrive: «Perché, caro Carmide, questo carme non è capace di guarire la testa separatamente; ma come forse anche tu sai per aver udito dei bravi medici se per esempio ci va uno con male agli occhi, gli dicono che non si può cominciare a sanare gli occhi soli, ma che bisognerebbe curare anche la testa se si vuole guarire gli occhi; e dicono ancora che è un’assurdità pensare di curare la testa per se stessa senza tenere conto dell’intero corpo. Così in base a questo ragionamento, cercano di curare e sanare la parte applicando un regime all’intero corpo. [...] Il nostro Zalmosside [lo ‘sciamano’ Zalmoxis che operò nella Grecia arcaica], che è un dio, vuole che come non si deve cominciare a sanare gli occhi senza tenere conto del capo, né il capo senza il corpo, così neppure si deve cominciare a sanare il corpo senza tenere conto dell’anima, anzi questa sarebbe proprio la ragione per cui tante malattie la fan franca ai medici greci, perché essi trascurano il tutto di cui invece dovrebbero prendersi cura, quel tutto che è malato e dunque non può guarire in una parte. In realtà, soggiungeva, ogni cosa, il male o il bene, non irrompe nel corpo e in tutto l’uomo se non dall’anima, dalla quale tutto proviene, come dalla testa proviene tutto ciò che corre agli occhi; così che si deve cominciare a curare soprattutto quella, se si vuole che la testa e le altre parti del corpo stiano bene»(Carmide, 156 d-157 b).
Ma questo corpo che in vita è permeato dall’anima ha il suo destino ineluttabile: la morte che lo dissolve.
Per questo in palese polemica con i cristiani Plotino sottolinea il fatto che se di una ‘ ’resurrezione’ si deve parlare questa non è quella (come rozzamente può concepirla il volgo) del corpo ma quella dell’anima che sopravvive alla morte e rinasce in un altro mondo: “Il vero risveglio (egrègorsis) è dal corpo (apό sòmatos = letteralmente: lontano dal corpo) e non del corpo (metà sòmatos = letteralmente: in unione ad un corpo)… e la vera ‘resurrezione’ (anástasis – ανάστασις) ha qualcosa di definitivo: non da un corpo solo ma da tutti i corpi” (Enneadi, III, 6, 6).
Chi parla di ‘resurrezione dei corpi’ confonde i piani dell’Essere.
E’ chiara la tesi di Plotino: proprio attraverso l’attività ‘astrattiva ’ del pensiero (cioè attraverso la filosofia), cioè quando l’anima ‘si volge al pensare’, l’uomo inizia a liberarsi dalle catene del sensibile. Ciò accade perché l’uomo che ‘pensa’ si concentra tutto nelle sue immagini interiori, per cercare la Verità dubita dei sensi, s’inoltra nella dimensione invisibile del puro pensiero e pertanto comincia, anche se spesso ‘incoscientemente’, a volgere la consapevolezza verso l’interno, cioè a percorrere la giusta strada alla Conoscenza.
Quindi è l’attività ‘razionale’ del logos che lo mette in condizione di poter ‘ricordare’ la sua natura metafisica, ma ciò può accadere perché, pur ‘precipitata ’ e ‘imprigionata’ nel mondo materiale, l’anima conserva sempre una parte che ‘rimane in alto’, cioè che è in virtuale (noi oggi diremmo: inconscio) contatto con l’Uno.
Il loghistikόn, se viene svincolato dal sensibile, quindi ‘purificato’, scopre la sua ‘occulta’ ma constante connessione con l’Uno.
Questa è esattamente quella ’pratica per l’estasi filosofica’ di cui parlerà Campanella nel Rinascimento italiano.
La Materia per Plotino è l’ultimo esito del processo di emanazione dell’Uno e per questo si può definire come ‘privazione’ (ma non ‘totale’) del Bene; è il ‘ margine d’ombra al limitare della luce’, ma non è propriamente il ‘male’. Il Male ontologicamente non esiste perché ciò che esiste è l’Uno ed Esso è il Sommo Bene.
Così il corpo dell’uomo non è solo ‘materia’ o solo ’male’, né potrebbe mai esserlo perché è ‘abitato’ dall’anima la quale non è solo principio vivificante ma anche di consapevolezza e conoscenza, secondo i suoi diversi ‘gradi’.
Ancor meglio, si potrebbe dire che l’anima ‘avvolge’ e ‘circonda’ il corpo, per cui non è l’anima ‘dentro il corpo’ ma il corpo ‘dentro un’ anima’ poiché questa ‘ontologicamente’ lo precede nel processo emanativo.
L’anima costituisce un ‘corpo sottile’ che ‘guida’ e ‘plasma’ con istinti, emozioni e pensieri il corpo ‘denso’ fatto dei quattro elementi (per questo le malattie dell’anima possono diventare malattie del corpo come aveva già notato Platone).
Plotino, come il suo Maestro sa bene che l’anima è capace di ‘plasmare il corpo’ infatti nel Carmide Platone scrive: «Perché, caro Carmide, questo carme non è capace di guarire la testa separatamente; ma come forse anche tu sai per aver udito dei bravi medici se per esempio ci va uno con male agli occhi, gli dicono che non si può cominciare a sanare gli occhi soli, ma che bisognerebbe curare anche la testa se si vuole guarire gli occhi; e dicono ancora che è un’assurdità pensare di curare la testa per se stessa senza tenere conto dell’intero corpo. Così in base a questo ragionamento, cercano di curare e sanare la parte applicando un regime all’intero corpo. [...] Il nostro Zalmosside [lo ‘sciamano’ Zalmoxis che operò nella Grecia arcaica], che è un dio, vuole che come non si deve cominciare a sanare gli occhi senza tenere conto del capo, né il capo senza il corpo, così neppure si deve cominciare a sanare il corpo senza tenere conto dell’anima, anzi questa sarebbe proprio la ragione per cui tante malattie la fan franca ai medici greci, perché essi trascurano il tutto di cui invece dovrebbero prendersi cura, quel tutto che è malato e dunque non può guarire in una parte. In realtà, soggiungeva, ogni cosa, il male o il bene, non irrompe nel corpo e in tutto l’uomo se non dall’anima, dalla quale tutto proviene, come dalla testa proviene tutto ciò che corre agli occhi; così che si deve cominciare a curare soprattutto quella, se si vuole che la testa e le altre parti del corpo stiano bene»(Carmide, 156 d-157 b).
Ma questo corpo che in vita è permeato dall’anima ha il suo destino ineluttabile: la morte che lo dissolve.
Per questo in palese polemica con i cristiani Plotino sottolinea il fatto che se di una ‘ ’resurrezione’ si deve parlare questa non è quella (come rozzamente può concepirla il volgo) del corpo ma quella dell’anima che sopravvive alla morte e rinasce in un altro mondo: “Il vero risveglio (egrègorsis) è dal corpo (apό sòmatos = letteralmente: lontano dal corpo) e non del corpo (metà sòmatos = letteralmente: in unione ad un corpo)… e la vera ‘resurrezione’ (anástasis – ανάστασις) ha qualcosa di definitivo: non da un corpo solo ma da tutti i corpi” (Enneadi, III, 6, 6).
Chi parla di ‘resurrezione dei corpi’ confonde i piani dell’Essere.
L’ESTASI E LE TRE VIE DEL RITORNO
Per Plotino l’Uno, Dio, non ha ‘bisogno’ dell’uomo essendo totalmente completo e quindi privo di quella ‘tensione’ che nasce dall’Amore che è desiderio di completezza. Al contrario, noi esseri umani, in quanto ‘imperfetti’ aspiriamo alla infinita Perfezione dell’Uno.
L’Amore è una tensione del finito verso l’Infinito.
Chi prova tale bisogno, ‘sente’ il vivere quaggiù come un ‘esilio’, una ‘perdita d’ali’: “La vita vera – egli dice – è solo lassù, poiché la vita dell’oggi, che è vita senza Dio, è solo un’orma di vita … la vita di lassù genera bellezza, genera giustizia, genera virtù”(Enneadi, VI, 9, 9).
Gli dèi dell’Olimpo che il popolo prega sono figure e simboli di quell’universo metafisico, figure e simboli ‘antropomorfi’ che il filosofo può e deve trascendere.
L’anima deve dunque ‘riconvertirsi’, seguire la via all’in su; per indicare tale ‘conversione’, cioè tale radicale cambiamento del movimento di direzione dell’anima, Plotino usa il termine epistrophè (επιστροφή) che letteralmente significa ‘volgersi indietro’, ‘ritorno’(da επί – στρέφω = verso l’alto ritornare, dunque propriamente ‘risalire’). Tale ‘ri-orientamento verso il mondo spirituale’ sarà indicato con lo stesso termine nella versione greca del Vecchio Testamento e nel Nuovo; in quest’ultimo, tuttavia, indicherà anche l’accettazione di un predeterminato e dogmatico contenuto di fede, considerata condizione necessaria per la ‘salvezza’.
La coscienza umana deve quindi progressivamente liberarsi dal suo ‘ordinario’ legame con il corpo e con le passioni che lo ‘abitano’, deve ‘vivere secondo il logos’.
Quando tale processo sarà compiuto l’anima, ‘sublimata’, s’ innalzerà intuitivamente alla percezione del mondo spirituale e potrà ricongiungersi ‘amorosamente’ all’Uno attraverso l’estasi, provando la beatitudine suprema.
Per Plotino la contrapposizione cristiana tra pίstis (fede) e lόgos (ragione) non ha alcun senso. Infatti la comprensione mistica è intuitiva e non può essere per sua stessa natura esplicitata in formule dogmatiche, cioè attraverso concetti e formule verbali.
La Luce di Dio è già dentro l’uomo, è nel principio della sua stessa coscienza, bisogna solo ‘svelarla’.
Plotino condivide con il suo Maestro Platone l’idea che sostanzialmente esistono tre ‘vie’ per ricondurre l’anima all’Uno e che esse corrispondono ai tre ‘ideali’ di vita di ogni essere umano quelli del Bello, del Bene, del Vero.
Questi ‘ideali’ non vanno naturalmente intesi come tre distinte realtà ontologiche ma come tre ‘aspetti’ dell’Uno e dunque hanno solo un valore ‘relazionale’, cioè sono solo ‘modi’ con cui l’uomo percepisce l’Uno e ne viene ‘attratto’, ‘ispirato’. La Realtà suprema di per sé
Per Plotino l’Uno, Dio, non ha ‘bisogno’ dell’uomo essendo totalmente completo e quindi privo di quella ‘tensione’ che nasce dall’Amore che è desiderio di completezza. Al contrario, noi esseri umani, in quanto ‘imperfetti’ aspiriamo alla infinita Perfezione dell’Uno.
L’Amore è una tensione del finito verso l’Infinito.
Chi prova tale bisogno, ‘sente’ il vivere quaggiù come un ‘esilio’, una ‘perdita d’ali’: “La vita vera – egli dice – è solo lassù, poiché la vita dell’oggi, che è vita senza Dio, è solo un’orma di vita … la vita di lassù genera bellezza, genera giustizia, genera virtù”(Enneadi, VI, 9, 9).
Gli dèi dell’Olimpo che il popolo prega sono figure e simboli di quell’universo metafisico, figure e simboli ‘antropomorfi’ che il filosofo può e deve trascendere.
L’anima deve dunque ‘riconvertirsi’, seguire la via all’in su; per indicare tale ‘conversione’, cioè tale radicale cambiamento del movimento di direzione dell’anima, Plotino usa il termine epistrophè (επιστροφή) che letteralmente significa ‘volgersi indietro’, ‘ritorno’(da επί – στρέφω = verso l’alto ritornare, dunque propriamente ‘risalire’). Tale ‘ri-orientamento verso il mondo spirituale’ sarà indicato con lo stesso termine nella versione greca del Vecchio Testamento e nel Nuovo; in quest’ultimo, tuttavia, indicherà anche l’accettazione di un predeterminato e dogmatico contenuto di fede, considerata condizione necessaria per la ‘salvezza’.
La coscienza umana deve quindi progressivamente liberarsi dal suo ‘ordinario’ legame con il corpo e con le passioni che lo ‘abitano’, deve ‘vivere secondo il logos’.
Quando tale processo sarà compiuto l’anima, ‘sublimata’, s’ innalzerà intuitivamente alla percezione del mondo spirituale e potrà ricongiungersi ‘amorosamente’ all’Uno attraverso l’estasi, provando la beatitudine suprema.
Per Plotino la contrapposizione cristiana tra pίstis (fede) e lόgos (ragione) non ha alcun senso. Infatti la comprensione mistica è intuitiva e non può essere per sua stessa natura esplicitata in formule dogmatiche, cioè attraverso concetti e formule verbali.
La Luce di Dio è già dentro l’uomo, è nel principio della sua stessa coscienza, bisogna solo ‘svelarla’.
Plotino condivide con il suo Maestro Platone l’idea che sostanzialmente esistono tre ‘vie’ per ricondurre l’anima all’Uno e che esse corrispondono ai tre ‘ideali’ di vita di ogni essere umano quelli del Bello, del Bene, del Vero.
Questi ‘ideali’ non vanno naturalmente intesi come tre distinte realtà ontologiche ma come tre ‘aspetti’ dell’Uno e dunque hanno solo un valore ‘relazionale’, cioè sono solo ‘modi’ con cui l’uomo percepisce l’Uno e ne viene ‘attratto’, ‘ispirato’. La Realtà suprema di per sé
rimane totalmente ‘unitaria’.
A ciascuno di questi ‘aspetti’ corrisponde una via realizzativa o, meglio, un grado del suo unitario sviluppo.
La via del Bello è quella in cui l’uomo ‘affascinato’ da un aspetto della dimensione sensibile percepisce ‘oscuramente’ la presenza in essa di un qualcosa di più ‘elevato’ che tende ‘anagogicamente’ ad attrarlo verso l’alto.
Il Bello riluce nel mondo come armonia e perfezione di forme ed induce l’Amore in chi lo contempla.
L’uomo stesso attraverso l’Arte può (grazie al suo spirito!) ‘produrre ’ Bellezza.
Colui il quale è sensibile al Bello vive in uno stato d’interiore ‘entusiasmo ’ ma percorre una via il cui termine ultimo ‘nascosto’ è immateriale e sovraformale poiché nessuna bellezza ‘sensibile’ (soggetta alla imperfezione, al decadimento e alla morte) può del tutto appagare il suo inesausto bisogno metafisico.
La via del Bene è quella delle Virtù, cioè di quei costumi di vita che si manifestano come Bellezza ‘morale’, cioè come Bellezza dell’Anima.
È una via più ‘elevata’ di quella del Bello poiché essa è già ‘immateriale’. Lo aveva detto già Platone nel Simposio ammonendo a passare dall’Amore per dei bei corpi all’amore delle belle anime.
Dal piano ‘estetico’, dunque, l’uomo deve innalzarsi al piano ‘etico’ praticando le virtù e svincolandosi, sia pur ancora parzialmente, dal piano della materialità e dai legami passionali alle ‘cose’ materiali.
Si potrebbe così dire che il Bene è in realtà un Bello ‘smaterializzato ’, ‘trasfigurato’ grazie ad un processo ascensivo.
Tale valenza ‘interiore’ del Bene (che Plotino sottolinea) non deve far dimenticare che Platone (in un contesto storico ben diverso) ne aveva esaltato anche la valenza ‘esteriore’ giacché esso è il fondamento ‘ideale’ di ogni polis.
Ma l’uomo ‘buono’, il ‘buon cittadino’ sono tali in quanto si comportano nel rispetto di sé e degli altri, dunque la virtù è legata all’ambito ‘pratico’ e non implica di per sé la Conoscenza metafisica.
Per questo la via più elevata e quella che ‘sussume’ e ‘sublima’ le altre è quella del Vero, la via della Conoscenza, della Filosofia.
A tale ‘livello’ si è del tutto consapevoli dell’origine metafisica del Bello e del Bene poiché si giunge a conoscere per identificazione l’Origine di ogni Bello, di ogni Bene e di ogni Verità.
A tale livello l’uomo è capace di fuggire dalla gabbia del mondo attraverso una condizione particolare dell’anima, l’estasi, e di farsi ‘simile a Dio’.
Svuotandosi dalle ‘cose terrene’ l’anima s’eleva e permette al Principio Primo di ‘manifestarsi’ in lei, di ‘palesare’ la sua ‘presenza’.
A ciascuno di questi ‘aspetti’ corrisponde una via realizzativa o, meglio, un grado del suo unitario sviluppo.
La via del Bello è quella in cui l’uomo ‘affascinato’ da un aspetto della dimensione sensibile percepisce ‘oscuramente’ la presenza in essa di un qualcosa di più ‘elevato’ che tende ‘anagogicamente’ ad attrarlo verso l’alto.
Il Bello riluce nel mondo come armonia e perfezione di forme ed induce l’Amore in chi lo contempla.
L’uomo stesso attraverso l’Arte può (grazie al suo spirito!) ‘produrre ’ Bellezza.
Colui il quale è sensibile al Bello vive in uno stato d’interiore ‘entusiasmo ’ ma percorre una via il cui termine ultimo ‘nascosto’ è immateriale e sovraformale poiché nessuna bellezza ‘sensibile’ (soggetta alla imperfezione, al decadimento e alla morte) può del tutto appagare il suo inesausto bisogno metafisico.
La via del Bene è quella delle Virtù, cioè di quei costumi di vita che si manifestano come Bellezza ‘morale’, cioè come Bellezza dell’Anima.
È una via più ‘elevata’ di quella del Bello poiché essa è già ‘immateriale’. Lo aveva detto già Platone nel Simposio ammonendo a passare dall’Amore per dei bei corpi all’amore delle belle anime.
Dal piano ‘estetico’, dunque, l’uomo deve innalzarsi al piano ‘etico’ praticando le virtù e svincolandosi, sia pur ancora parzialmente, dal piano della materialità e dai legami passionali alle ‘cose’ materiali.
Si potrebbe così dire che il Bene è in realtà un Bello ‘smaterializzato ’, ‘trasfigurato’ grazie ad un processo ascensivo.
Tale valenza ‘interiore’ del Bene (che Plotino sottolinea) non deve far dimenticare che Platone (in un contesto storico ben diverso) ne aveva esaltato anche la valenza ‘esteriore’ giacché esso è il fondamento ‘ideale’ di ogni polis.
Ma l’uomo ‘buono’, il ‘buon cittadino’ sono tali in quanto si comportano nel rispetto di sé e degli altri, dunque la virtù è legata all’ambito ‘pratico’ e non implica di per sé la Conoscenza metafisica.
Per questo la via più elevata e quella che ‘sussume’ e ‘sublima’ le altre è quella del Vero, la via della Conoscenza, della Filosofia.
A tale ‘livello’ si è del tutto consapevoli dell’origine metafisica del Bello e del Bene poiché si giunge a conoscere per identificazione l’Origine di ogni Bello, di ogni Bene e di ogni Verità.
A tale livello l’uomo è capace di fuggire dalla gabbia del mondo attraverso una condizione particolare dell’anima, l’estasi, e di farsi ‘simile a Dio’.
Svuotandosi dalle ‘cose terrene’ l’anima s’eleva e permette al Principio Primo di ‘manifestarsi’ in lei, di ‘palesare’ la sua ‘presenza’.
LA VIA DEL BELLO
La percezione intuitiva della Bellezza suscita nell’Anima la forza d’Amore (ed è questo il motivo per cui nell’iconografia il piccolo Eros alato è posto accanto ad Afrodite) ma per Plotino, come per il suo Maestro fondatore dell’Accademia, l’eros ‘umano’, ‘terrestre ’, persino ‘biologico’, ha una sua occulta radice metafisica.
La stessa Bellezza ha una sua radice metafisica.
Il Bello è tale in quanto è forza invisibile che s’impone alla Materia informe, plasmandola e tanto più riesce in tale opera tanto più essa si manifesta nel suo splendore.
Le cose sono ‘belle’ in quanto ‘partecipano’, ‘imitano’, sono la ‘rivelazione’ di qualcosa di più compiuto, di più ‘perfetto’, di qualcosa insomma che appartiene al mondo invisibile delle ‘idee’.
La Bellezza (la cui ‘visione’provoca nell’uomo i ‘brividi’, cioè la percezione delle energie sottili della sua anima) è la manifestazione della presenza’ dell’ Uno persino nell’oscurità della Materia; in tal senso si può definire come l’estrema ‘traccia ’ di Dio sulla Terra, oppure come l’unica ‘idea’ visibile.
Il Bello ‘innalzandosi’ diviene (ovvero ‘si manifesta come’) il Bene e, ancor più su, il Vero.
Questa ‘trinità’ estetico-etico-teoretica per cui l’Uno è il Bello in sé, il Bene in sé, il Vero in sé, è il ‘paradigma’ che illustra meglio di tutto la visione del mondo di Plotino.
Proprio per questi motivi la Bellezza che è determinata dalla presenza dell’Uno nella materia può essere il primo gradino del processo ‘ascensivo’ dell’anima che quando è ‘incarnata’ è essa stessa ‘immersa’ nella materia.
Finché si è in tale condizione non ci può essere conoscenza; finché l’anima è legata alle passioni del corpo non c’è né ci può essere conoscenza.
C’è conoscenza quando ci si libera dal corpo, dunque solo nell’uscita, nell’estasi.
La filosofia è un esercizio estatico.
Ma già la contemplazione ‘estetica’ ha un’occulta radice ‘estatica’.
Infatti nella materia c’è ancora un residuo della luce divina e la percezione intuitiva di tale ‘presenza’ determina nell’animo dell’uomo un sentimento di ‘nostalgia’ per il mondo di perfezione da cui proviene; sentimento la cui ‘origine’ però rimane ai più misteriosa, inconscia.
A questa via di ‘ritorno’che è la filosofia stessa fa guida proprio l’Eros, forza ‘demonica’, dunque intermedia tra il mondo umano e quello divino.
L’iniziato/filosofo, come ha insegnato Platone nel Simposio deve ‘evocare’, ‘alimentare’, ‘sublimare’ l’Eros.
Esso si ‘nutre’ dell’immagini ‘fisiche’ del Bello ma poi per sua intima forza le trascende ‘volando’ verso la dimensione beatifica del Bello spirituale ed universale, il quale non esclude il bello ‘particolare’ e ‘materiale’ ma totalmente lo include essendone l’Origine.
L’uomo che ‘ama’, ama in realtà la bellezza ‘presente’ in un ente, dunque l’ ’universale’ nel ‘particolare’, lo ‘spirituale’ nel ‘ materiale’, e con ciò riconosce in termini ontologici che ogni ‘singolarità’ è aspetto parziale di una Realtà onnicomprensiva che è ‘suprema’ e ‘totale’
La percezione intuitiva della Bellezza suscita nell’Anima la forza d’Amore (ed è questo il motivo per cui nell’iconografia il piccolo Eros alato è posto accanto ad Afrodite) ma per Plotino, come per il suo Maestro fondatore dell’Accademia, l’eros ‘umano’, ‘terrestre ’, persino ‘biologico’, ha una sua occulta radice metafisica.
La stessa Bellezza ha una sua radice metafisica.
Il Bello è tale in quanto è forza invisibile che s’impone alla Materia informe, plasmandola e tanto più riesce in tale opera tanto più essa si manifesta nel suo splendore.
Le cose sono ‘belle’ in quanto ‘partecipano’, ‘imitano’, sono la ‘rivelazione’ di qualcosa di più compiuto, di più ‘perfetto’, di qualcosa insomma che appartiene al mondo invisibile delle ‘idee’.
La Bellezza (la cui ‘visione’provoca nell’uomo i ‘brividi’, cioè la percezione delle energie sottili della sua anima) è la manifestazione della presenza’ dell’ Uno persino nell’oscurità della Materia; in tal senso si può definire come l’estrema ‘traccia ’ di Dio sulla Terra, oppure come l’unica ‘idea’ visibile.
Il Bello ‘innalzandosi’ diviene (ovvero ‘si manifesta come’) il Bene e, ancor più su, il Vero.
Questa ‘trinità’ estetico-etico-teoretica per cui l’Uno è il Bello in sé, il Bene in sé, il Vero in sé, è il ‘paradigma’ che illustra meglio di tutto la visione del mondo di Plotino.
Proprio per questi motivi la Bellezza che è determinata dalla presenza dell’Uno nella materia può essere il primo gradino del processo ‘ascensivo’ dell’anima che quando è ‘incarnata’ è essa stessa ‘immersa’ nella materia.
Finché si è in tale condizione non ci può essere conoscenza; finché l’anima è legata alle passioni del corpo non c’è né ci può essere conoscenza.
C’è conoscenza quando ci si libera dal corpo, dunque solo nell’uscita, nell’estasi.
La filosofia è un esercizio estatico.
Ma già la contemplazione ‘estetica’ ha un’occulta radice ‘estatica’.
Infatti nella materia c’è ancora un residuo della luce divina e la percezione intuitiva di tale ‘presenza’ determina nell’animo dell’uomo un sentimento di ‘nostalgia’ per il mondo di perfezione da cui proviene; sentimento la cui ‘origine’ però rimane ai più misteriosa, inconscia.
A questa via di ‘ritorno’che è la filosofia stessa fa guida proprio l’Eros, forza ‘demonica’, dunque intermedia tra il mondo umano e quello divino.
L’iniziato/filosofo, come ha insegnato Platone nel Simposio deve ‘evocare’, ‘alimentare’, ‘sublimare’ l’Eros.
Esso si ‘nutre’ dell’immagini ‘fisiche’ del Bello ma poi per sua intima forza le trascende ‘volando’ verso la dimensione beatifica del Bello spirituale ed universale, il quale non esclude il bello ‘particolare’ e ‘materiale’ ma totalmente lo include essendone l’Origine.
L’uomo che ‘ama’, ama in realtà la bellezza ‘presente’ in un ente, dunque l’ ’universale’ nel ‘particolare’, lo ‘spirituale’ nel ‘ materiale’, e con ciò riconosce in termini ontologici che ogni ‘singolarità’ è aspetto parziale di una Realtà onnicomprensiva che è ‘suprema’ e ‘totale’
Bellezza, insomma la ‘Bellezza in sé’, ‘pura’, ‘immortale’.
Tale Realtà (‘incontaminata’ dalla materia che irriducibilmente la limita e deforma) è al di là dello spazio e del tempo, non soggetta allo strazio della decadenza e dell’annientamento.
Solo così l’Amore può superare la Morte ed Orfeo avere per sempre la sua Euridice.
La Bellezza, l’Amore, l’Arte ci ‘eternizzano’ e non solo nella memoria di chi ci sopravvive ma anche nella trasfigurazione ‘ontologica’ dell’anima che esse operano rendendola degna nell’al di là del mondo degli dei.
Se il Bello non è nelle singole cose se non in modo molto parziale ci si deve allora ‘allenare’ a vederlo in tutte e oltre di esse.
Ogni cosa bella è tale in quanto si concretizza in essa la perfezione di una ‘ idea’, per questo il filosofo dice che l'idea è “ciò che si percepisce nei corpi quando unisce e domina la natura (vale a dire: la materia) informe”, per cui si può anche dire che “la semplice bellezza è dovuta ad una forma che domina l’oscurità della materia e alla presenza di una luce incorporea che è ragione ed idea” (Enn., I, 6, 3).
La bellezza è dunque il ‘segno’ della ‘potenza invisibile’ che ‘plasma’ la materia nel tentativo di avvicinarla alla perfezione ‘ideale’ ma poiché anche l’anima viene da quel mondo iperuranio essa prova una spontanea ‘affinità’ con essa ed è capace di ‘riconoscerla’ per via di una consonanza metafisica.
L’uomo attraverso la bellezza comincia a ricordare (è il tema platonico ma anche misterico della ‘reminiscenza’) la sua origine: “La facoltà (dynamis) dell’anima – dice il filosofo – che corrisponde a questa bellezza, la riconosce” (Enn., I, 6, 3).
Questa esperienza è propedeutica ad altre più elevate: “Cos’è dunque questa bellezza presente nei corpi? Questo dovremo indagare anzitutto. Cos’è dunque ciò che muove lo sguardo degli spettatori, lo attrae a sé e suscita la gioia della contemplazione? Se noi scopriremo
Tale Realtà (‘incontaminata’ dalla materia che irriducibilmente la limita e deforma) è al di là dello spazio e del tempo, non soggetta allo strazio della decadenza e dell’annientamento.
Solo così l’Amore può superare la Morte ed Orfeo avere per sempre la sua Euridice.
La Bellezza, l’Amore, l’Arte ci ‘eternizzano’ e non solo nella memoria di chi ci sopravvive ma anche nella trasfigurazione ‘ontologica’ dell’anima che esse operano rendendola degna nell’al di là del mondo degli dei.
Se il Bello non è nelle singole cose se non in modo molto parziale ci si deve allora ‘allenare’ a vederlo in tutte e oltre di esse.
Ogni cosa bella è tale in quanto si concretizza in essa la perfezione di una ‘ idea’, per questo il filosofo dice che l'idea è “ciò che si percepisce nei corpi quando unisce e domina la natura (vale a dire: la materia) informe”, per cui si può anche dire che “la semplice bellezza è dovuta ad una forma che domina l’oscurità della materia e alla presenza di una luce incorporea che è ragione ed idea” (Enn., I, 6, 3).
La bellezza è dunque il ‘segno’ della ‘potenza invisibile’ che ‘plasma’ la materia nel tentativo di avvicinarla alla perfezione ‘ideale’ ma poiché anche l’anima viene da quel mondo iperuranio essa prova una spontanea ‘affinità’ con essa ed è capace di ‘riconoscerla’ per via di una consonanza metafisica.
L’uomo attraverso la bellezza comincia a ricordare (è il tema platonico ma anche misterico della ‘reminiscenza’) la sua origine: “La facoltà (dynamis) dell’anima – dice il filosofo – che corrisponde a questa bellezza, la riconosce” (Enn., I, 6, 3).
Questa esperienza è propedeutica ad altre più elevate: “Cos’è dunque questa bellezza presente nei corpi? Questo dovremo indagare anzitutto. Cos’è dunque ciò che muove lo sguardo degli spettatori, lo attrae a sé e suscita la gioia della contemplazione? Se noi scopriremo
ciò, potremo forse servircene come di un gradino [così le correnti traduzioni, ma il termine epibáthra significa propriamente: base, mezzo di passaggio, mezzo di accesso, oltre che ‘scala’] per contemplare le altre bellezze” (Enn., I, 6, 1).
Ma la bellezza ‘fisica’ non deve ‘imprigionare’ l’anima.
Esistono bellezze di ordine più elevato e che danno allo spirito gioie sublimi: “ Riguardo alle bellezze più elevate che la sensazione non può percepire e che solo l’anima vede e giudica senza gli organi sensoriali, è necessario che noi risaliamo più in su e le contempliamo
Ma la bellezza ‘fisica’ non deve ‘imprigionare’ l’anima.
Esistono bellezze di ordine più elevato e che danno allo spirito gioie sublimi: “ Riguardo alle bellezze più elevate che la sensazione non può percepire e che solo l’anima vede e giudica senza gli organi sensoriali, è necessario che noi risaliamo più in su e le contempliamo
abbandonando in basso la sensazione. Queste, è necessario che un’anima sia capace di contemplarle: coloro che le vedono provano una gioia, uno stupore, un sussulto ben maggiore che nel caso precedente, perché essi toccano allora delle realtà. Queste sono infatti le emozioni che devono sorgere al contatto con ciò che è bello: lo stupore, la meraviglia gioiosa, il desiderio, l’amore ed un sussulto accompagnato da piacere. Ma è possibile provare queste emozioni – e l’anima infatti le prova – anche riguardo alle cose invisibili; ogni anima, per così dire, le prova, ma specialmente quella che è innamorata; così pure, tutti vedono la bellezza dei corpi, ma non tutti ne sentono egualmente l’assillo, bensì quelli che son detti amanti. Bisogna anche sapere quali sono gli effetti dell’amore per le cose non sensibili. Che cosa vi fanno provare le belle occupazioni, i bei caratteri, i costumi temperanti e, in generale, le azioni e le disposizioni virtuose e la bellezza dell’anima? E che provate quando vi vedete interiormente belli? E perché voi ‘folleggiate’ e siete emozionati e bramate d’essere con voi stessi raccogliendovi fuori del corpo? Questo provano infatti i veri amanti. E per quale cosa lo provano? Non per una forma, per un colore, per una grandezza, ma per l’anima che è senza colore e possiede in sé l’invisibile temperanza e lo splendore delle altre virtù; lo provate quando vedete in voi stessi o contemplate in altri la grandezza dello spirito, un carattere giusto, la purezza dei sentimenti, il coraggio su un viso nobile, la gravità, quel rispetto di sé che si diffonde in un’anima calma, serena ed impassibile e sopra tutto l’irraggiare dell’intelligenza di essenza divina…(Enn., I, 6, 4). “Ma come si può vedere la bellezza dell’anima buona che ha in sé la bellezza? Ritorna in te stesso e guarda (ánaghe epì sautòn kaì íde = letteralmente: vai in alto dentro di te e fissa lì la tua attenzione): se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventare bella: egli toglie, raschia, liscia, ripulisce, finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non cessare di scolpire la tua propria statua, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e tu non veda la temperanza sedere su di un trono sacro. Se tu sei diventato ciò, se tu vedi tutto questo, se pura sarà la tua interiorità, e tu non avrai alcun ostacolo alla tua unificazione e nulla che sia mescolato interiormente con te stesso, se tu sei diventato completamente una luce vera, non una luce di grandezza e di forma misurabile che può diminuire o aumentare indefinitamente, ma una luce del tutto senza misura, perché superiore a ogni misura e a ogni qualità, se ti vedi in questo modo, tu sei diventato ormai una potenza veggente e puoi confidare in te stesso; anche rimanendo quaggiù tu sei salito né hai più bisogno di chi ti guidi; fissa lo sguardo e guarda: questo soltanto è l’occhio che vede la grande bellezza… L’occhio non vedrebbe mai il sole se non fosse già simile al sole, né un’anima vedrebbe il bello se non fosse bella. Ognuno dunque diventi anzitutto divino e bello, se vuole contemplare Dio e la Bellezza” (Enn., I, 6, 9).
LA VIA DEL BENE
Se il Bello ci affascina e ci ammalia è pur sempre per noi espresso ed ‘incarnato’ da una ‘forma’ concreta ed individuale e dunque il ‘pericolo’ insito in esso è che il ‘piacere sottile’ che determina possa non ‘innalzarsi’ – come dovrebbe - al mondo delle pure forme ideali ma ‘de-cadere’ e ‘de-gradarsi’ al livello del piacere ‘cieco’, passionale e belluino.
Consapevole di tutto ciò il filosofo deve ‘spogliarsi’ dall’attaccamento alle forme ‘concrete’ e dal ‘desiderio’ di esse, dalla ‘brama’ radicale del corpo che vuole procurasi la felicità ‘possedendo’ una qualche realtà particolare.
L’illusiorietà della identificazione tra felicità e piacere è un tema ben noto all’intera tradizione spirituale orientale, soprattutto a quella buddista.
Sia in Oriente che in Occidente la via dell’ascesi è la via di un processo di ‘disidentificazione’ della coscienza dal corpo/materia perché si ritiene che questo è la radice dell’io ordinario e per ciò stesso soggetto al medesimo destino dissolutivo del corpo.
Costruire già in vita un io non più ‘dipendente’ dal corpo è considerata l’unica via possibile per ‘immortalizzarlo’: a ciò serve l’esercizio purificatorio delle virtù.
Per questo ci si deve ‘esercitare’ (non solo ‘mentalmente’, cioè ‘astrattamente’, ‘immaginativamente’) a creare una ‘distanza’ tra la coscienza ed il mondo ‘esterno’.
Il saggio è ‘impassibile’ e ciò vuol dire che il suo ‘io’ è altrove, radicato in una dimensione metafisica.
Per tutto ciò è necessario operare interiormente una ‘catarsi’ delle passioni (sublimandole) e dalle passioni (liberandosene) disciplinando la vita del nostro stesso corpo.
Il principio, la facoltà attraverso cui raggiungiamo questo fine non può che essere la ‘ragione’ intesa sia come coscienza che come capacità di autocontrollo.
Così si può comprendere appieno il precetto plotiniano di ‘spogliarsi di tutto’, di ‘fare il vuoto’ nell’anima, perché solo quando essa non è più ‘piena’ delle cose materiali riesce a creare lo spazio interiore affinché la luce dell’Uno la illumini.
“Il Tutto (l’Uno) ti si fa presente – dice Plotino – quando hai eliminato [dalla tua coscienza e dalla tua vita] le altre cose, ma a chi resta con le altre cose, Esso non si manifesta”.
Ma sempre nello stesso passo il filosofo precisa che Dio è costantemente presente nell’anima dell’uomo, nel suo ‘fondo’ ed è ‘assente’ solo perché ci volgiamo, mossi da brame, verso le cose concrete; in tal modo, cioè quando ci comportiamo in maniera non virtuosa, il contatto con l’Uno rimane ‘inconscio’ e solo ‘potenziale’: “Egli però non è ‘venuto’ per starti vicino, ma sei tu che te ne vai quando Egli non ti è presente. E se tu te ne sei andato, non sei in realtà andato via da Lui, poiché Egli è sempre presente “ (Enn. VI, 5, 12).
Nessuna coscienza può ‘allontanarsi’ dalla sua Origine (e dove potrebbe andare?) ma può esserne, per così dire, solo ‘scollegata’.
Nel primo libro sottolinea con forza tale concetto: “La nostra patria è quella donde veniamo e lassù è il nostro Padre. Che cosa sono dunque questo ‘viaggio’ e questa ‘ fuga’? Non coi piedi bisogna farlo, perché i nostri piedi ci portano sempre di terra in terra; neppure c’è bisogno di preparare cocchi o navigli, ma è necessario staccarsi da queste cose e non guardare più <le cose sensibili>, ma mutando la vista corporea con un’altra, ridestare quella facoltà che ognuno possiede ma che pochi adoperano [il filosofo usa il verbo anegheiro che
Se il Bello ci affascina e ci ammalia è pur sempre per noi espresso ed ‘incarnato’ da una ‘forma’ concreta ed individuale e dunque il ‘pericolo’ insito in esso è che il ‘piacere sottile’ che determina possa non ‘innalzarsi’ – come dovrebbe - al mondo delle pure forme ideali ma ‘de-cadere’ e ‘de-gradarsi’ al livello del piacere ‘cieco’, passionale e belluino.
Consapevole di tutto ciò il filosofo deve ‘spogliarsi’ dall’attaccamento alle forme ‘concrete’ e dal ‘desiderio’ di esse, dalla ‘brama’ radicale del corpo che vuole procurasi la felicità ‘possedendo’ una qualche realtà particolare.
L’illusiorietà della identificazione tra felicità e piacere è un tema ben noto all’intera tradizione spirituale orientale, soprattutto a quella buddista.
Sia in Oriente che in Occidente la via dell’ascesi è la via di un processo di ‘disidentificazione’ della coscienza dal corpo/materia perché si ritiene che questo è la radice dell’io ordinario e per ciò stesso soggetto al medesimo destino dissolutivo del corpo.
Costruire già in vita un io non più ‘dipendente’ dal corpo è considerata l’unica via possibile per ‘immortalizzarlo’: a ciò serve l’esercizio purificatorio delle virtù.
Per questo ci si deve ‘esercitare’ (non solo ‘mentalmente’, cioè ‘astrattamente’, ‘immaginativamente’) a creare una ‘distanza’ tra la coscienza ed il mondo ‘esterno’.
Il saggio è ‘impassibile’ e ciò vuol dire che il suo ‘io’ è altrove, radicato in una dimensione metafisica.
Per tutto ciò è necessario operare interiormente una ‘catarsi’ delle passioni (sublimandole) e dalle passioni (liberandosene) disciplinando la vita del nostro stesso corpo.
Il principio, la facoltà attraverso cui raggiungiamo questo fine non può che essere la ‘ragione’ intesa sia come coscienza che come capacità di autocontrollo.
Così si può comprendere appieno il precetto plotiniano di ‘spogliarsi di tutto’, di ‘fare il vuoto’ nell’anima, perché solo quando essa non è più ‘piena’ delle cose materiali riesce a creare lo spazio interiore affinché la luce dell’Uno la illumini.
“Il Tutto (l’Uno) ti si fa presente – dice Plotino – quando hai eliminato [dalla tua coscienza e dalla tua vita] le altre cose, ma a chi resta con le altre cose, Esso non si manifesta”.
Ma sempre nello stesso passo il filosofo precisa che Dio è costantemente presente nell’anima dell’uomo, nel suo ‘fondo’ ed è ‘assente’ solo perché ci volgiamo, mossi da brame, verso le cose concrete; in tal modo, cioè quando ci comportiamo in maniera non virtuosa, il contatto con l’Uno rimane ‘inconscio’ e solo ‘potenziale’: “Egli però non è ‘venuto’ per starti vicino, ma sei tu che te ne vai quando Egli non ti è presente. E se tu te ne sei andato, non sei in realtà andato via da Lui, poiché Egli è sempre presente “ (Enn. VI, 5, 12).
Nessuna coscienza può ‘allontanarsi’ dalla sua Origine (e dove potrebbe andare?) ma può esserne, per così dire, solo ‘scollegata’.
Nel primo libro sottolinea con forza tale concetto: “La nostra patria è quella donde veniamo e lassù è il nostro Padre. Che cosa sono dunque questo ‘viaggio’ e questa ‘ fuga’? Non coi piedi bisogna farlo, perché i nostri piedi ci portano sempre di terra in terra; neppure c’è bisogno di preparare cocchi o navigli, ma è necessario staccarsi da queste cose e non guardare più <le cose sensibili>, ma mutando la vista corporea con un’altra, ridestare quella facoltà che ognuno possiede ma che pochi adoperano [il filosofo usa il verbo anegheiro che
significa propriamente ‘ridestarsi ’, per cui la sua dottrina è come quella del Buddha una ‘via del risveglio’] (Enn., I, 6, 8).
La ‘conoscenza di Dio’ pertanto non è il dono ‘gratuito’ di una Grazia che viene dall’esterno e che dipende dall’arbitrio di una qualche divinità antropomorfa e che l’uomo non può comunque ‘meritare’ (come sosterranno i cristiani) ma è il frutto di un’ascesi che l’uomo volontariamente e deliberatamente può porre in atto con il semplice cercare la verità in se stesso e (il che è la stessa cosa) al di là del mondo sensibile.
La pratica filosofica delle virtù è condizione ma anche ‘segno’ di tale giusto orientamento.
L’illuminazione è, per così dire, ‘strutturalmente umana’, ‘accessibilmente umana’, del tutto indipendente da fedi o rivelazioni ’storiche’, ‘particolari’, ‘contingenti’, ‘esteriori’.
Per il filosofo la ‘conoscenza di Dio’ non può essere oggetto di ’credenza’ ma di ‘esperienza’ e la filosofia ha proprio il compito di aprire la strada all'esperienza mistica, cioè iniziatica.
La via all’estasi di Plotino è dunque ‘filosofica’ e presuppone che l’uomo in sé faccia il ‘vuoto’ anche delle ‘dottrine’ sull’Uno che rimane inattingibile al limitati mezzi del nostro pensiero logico/discorsivo ma non alla nostra coscienza.
Alla conoscenza ineffabile dell’estasi predispone dunque la vita morale, la quale però ha due livelli: quello ‘inferiore’ che consiste in una pratica ancora parziale delle virtù che in tal senso vengono definite dal filosofo ‘civili’ in quanto esse nel buon cittadino si esprimono attraverso un ragionevole compromesso tra le istanze del corpo e quelle dello spirito (per cui a tale livello l’uomo acquisisce la capacità di dare alle passioni un limite ed una misura) ed uno più ‘alto’, quello in cui ci si rende del tutto indipendenti dai bisogni del corpo e dal dominio della materia.
Pervenuto a tale livello il saggio sa trascendere radicalmente la forza attrattiva delle passioni che disperde la mente nel dominio della molteplicità.
Una mente pacificata, ‘unificata’, cioè ‘concentrata in se stessa’ non vaga più compulsivamente da un pensiero ad un altro, da una passione ad un’altra. Dominare le passioni, acquisire una ‘libertà interiore’ significa anche padroneggiare il flusso della coscienza, divenirne ‘signori’ perché i pensieri nascono e si alimentano delle passioni.
La mente va dove le brame, i desideri, i timori, le ansie, insomma il nostro pathos la dirige (con linguaggio moderno, psicanalitico, si potrebbe dire che l’Es, l’inconscio muove ‘occultamente’ l’ego ed è la sorgente delle nostre ‘automatiche’ associazioni mentali).
Quindi non può esistere un nostro pensiero ‘libero’ fintantoché esso è ‘vincolato’ o semplicemente ‘condizionato’ dalle ‘passioni’.
Dunque le virtù ‘politiche’, quelle necessarie al vivere in una polis, le virtù ‘civili’, riescono a moderare, correggere, armonizzare attraverso la ragione le passioni ma non le estinguono.
Le virtù ‘superiori’ non sono altro che quelle ‘politiche’ ma portate ad una grado più elevato tale da consentire la esperienza mistica del distacco della coscienza dal corpo/materia e dal disperdente flusso coscienziale.
A tal proposito Plotino cita ancora il suo Maestro: “Platone dice che la rassomiglianza con Dio (tèn omόiosin pros tòn theòn) consiste nella fuga da questo mondo, ed alle virtù che riguardano la vita politica dà il nome non di virtù semplicemente, ma di virtù ‘civili’ (politikàs) e chiama ‘purificazioni’ tutte le virtù: evidentemente egli ammette così due generi di virtù e non pone per quelle ‘politiche’ la finalità della rassomiglianza con Dio. In che senso diciamo dunque che sono ‘purificazioni’ e che soprattutto mediante la purificazione diventiamo ‘ simili a Dio’? Perché l’anima è cattiva finché è mescolata al corpo, simpatizza con esso e giudica ogni cosa d’accordo con esso [il riferimento è al Fedone: 82 A 11; 66 B 5; 69 C 1; 83 D 7]; mentre essa è buona e possiede la virtù se non opina più in accordo con quello ma agisce sola, e per questo acquisisce la virtù della saggezza, della prudenza [nel testo compaiono i verbi ‘voein’, che indica la capacità di ‘pensare’ e ‘fronéin’ che indica la capacità di ben deliberare le proprie azioni]. Similmente la virtù della temperanza (sofronéin – sofrosyne) consiste nel non simpatizzare più con il corpo (omopathès ghinoméne tò sòmati = letteralmente: provare le stesse passioni del corpo); altrettanto si può dire per la virtù del coraggio (andrίzesthai = letteralmente la virtù dell’uomo ‘maschio’, ‘virile’) che consiste nel non temere il distacco dal corpo; quando la ragione e lo spirito (lógos kaì nous) dominano incontrastati ecco la giustizia (dikaiosyne) [per noi è interessante la distinzione tra lógos e nous che evidentemente riprende quella tra diá noia e nous, tra il livello ‘razionale/dialettico’ della coscienza e quello più elevato definibile come ‘ intuitivo/metafisico’]. L’anima cogli così la dimensione spirituale ed è priva di passioni, quando si trova in questa disposizione che può essere detta, senza tema d’errare, la ‘rassomiglianza con Dio’; puro è infatti l’essere divino e così anche la sua potenza (enérgheia), conseguentemente chi lo imita possiede la saggezza” (Enn., I, 2, 3).
L’ideale per Plotino non è,quindi, quello dell’uomo ‘buono’ ma quello dell’uomo che si ‘divinizza’: “Nessuna delle tendenze naturali è di per sé peccato (amartίa), poiché all’uomo inerisce una sostanziale rettitudine; in realtà lo sforzo che deve compiere non è quello di essere fuori di ogni peccato (exo amartίas) ma di essere un dio (theòn einai) ” (Enn., I, 2, 6).
Il saggio (spoudaios) sa elevarsi al di sopra delle comuni virtù civili:”Arrivato ai princípi e alle norme superiori, agirà secondo queste, non col riporre la sua temperanza nel limitare i desideri, ma coll’isolarsi completamente [dai bisogni del corpo] (ólos chorízon), per quanto possibile [ad un essere vivente]; egli non vive più la vita dell’uomo dabbene, come esige la virtù civile (è politikè aretè), ma la abbandona scegliendone un’altra, quella degli dèi, infatti bisogna coltivare la omoiosis rispetto agli dèi e non agli uomini” (Enn., I, 2, 7).
Il saggio comprende che “ la purificazione consiste nell’isolare l’anima affinché non si unisca ad altro e non guardi ad altro e non abbia più idee che si riferiscano ad altre realtà, qualunque sia la forma delle idee o delle passioni, come s’è detto, né si volga ad immagini interiori (eidola), né con esse si procuri delle passioni” (Enn., III, 6, 5).
Per il filosofo, dunque, l’isolamento dell’anima non implica solo la capacità di distaccarsi dalla diretta percezione di realtà sensibili capaci di suscitare passioni, ma anche quella di separarsi dalle immagini interiori (fantasie, ricordi) capaci di suscitarle.
A tal fine bisogna, a suo parere, spostare la coscienza ‘dal basso’ (del corpo) verso ‘l’alto’ ( è il processo di sublimazione delle energie psichiche ben noto alla fisiologia mistica indiana e non solo…): “Come non potrà <tale prassi interiore> dirsi catarsi se la coscienza procede
La ‘conoscenza di Dio’ pertanto non è il dono ‘gratuito’ di una Grazia che viene dall’esterno e che dipende dall’arbitrio di una qualche divinità antropomorfa e che l’uomo non può comunque ‘meritare’ (come sosterranno i cristiani) ma è il frutto di un’ascesi che l’uomo volontariamente e deliberatamente può porre in atto con il semplice cercare la verità in se stesso e (il che è la stessa cosa) al di là del mondo sensibile.
La pratica filosofica delle virtù è condizione ma anche ‘segno’ di tale giusto orientamento.
L’illuminazione è, per così dire, ‘strutturalmente umana’, ‘accessibilmente umana’, del tutto indipendente da fedi o rivelazioni ’storiche’, ‘particolari’, ‘contingenti’, ‘esteriori’.
Per il filosofo la ‘conoscenza di Dio’ non può essere oggetto di ’credenza’ ma di ‘esperienza’ e la filosofia ha proprio il compito di aprire la strada all'esperienza mistica, cioè iniziatica.
La via all’estasi di Plotino è dunque ‘filosofica’ e presuppone che l’uomo in sé faccia il ‘vuoto’ anche delle ‘dottrine’ sull’Uno che rimane inattingibile al limitati mezzi del nostro pensiero logico/discorsivo ma non alla nostra coscienza.
Alla conoscenza ineffabile dell’estasi predispone dunque la vita morale, la quale però ha due livelli: quello ‘inferiore’ che consiste in una pratica ancora parziale delle virtù che in tal senso vengono definite dal filosofo ‘civili’ in quanto esse nel buon cittadino si esprimono attraverso un ragionevole compromesso tra le istanze del corpo e quelle dello spirito (per cui a tale livello l’uomo acquisisce la capacità di dare alle passioni un limite ed una misura) ed uno più ‘alto’, quello in cui ci si rende del tutto indipendenti dai bisogni del corpo e dal dominio della materia.
Pervenuto a tale livello il saggio sa trascendere radicalmente la forza attrattiva delle passioni che disperde la mente nel dominio della molteplicità.
Una mente pacificata, ‘unificata’, cioè ‘concentrata in se stessa’ non vaga più compulsivamente da un pensiero ad un altro, da una passione ad un’altra. Dominare le passioni, acquisire una ‘libertà interiore’ significa anche padroneggiare il flusso della coscienza, divenirne ‘signori’ perché i pensieri nascono e si alimentano delle passioni.
La mente va dove le brame, i desideri, i timori, le ansie, insomma il nostro pathos la dirige (con linguaggio moderno, psicanalitico, si potrebbe dire che l’Es, l’inconscio muove ‘occultamente’ l’ego ed è la sorgente delle nostre ‘automatiche’ associazioni mentali).
Quindi non può esistere un nostro pensiero ‘libero’ fintantoché esso è ‘vincolato’ o semplicemente ‘condizionato’ dalle ‘passioni’.
Dunque le virtù ‘politiche’, quelle necessarie al vivere in una polis, le virtù ‘civili’, riescono a moderare, correggere, armonizzare attraverso la ragione le passioni ma non le estinguono.
Le virtù ‘superiori’ non sono altro che quelle ‘politiche’ ma portate ad una grado più elevato tale da consentire la esperienza mistica del distacco della coscienza dal corpo/materia e dal disperdente flusso coscienziale.
A tal proposito Plotino cita ancora il suo Maestro: “Platone dice che la rassomiglianza con Dio (tèn omόiosin pros tòn theòn) consiste nella fuga da questo mondo, ed alle virtù che riguardano la vita politica dà il nome non di virtù semplicemente, ma di virtù ‘civili’ (politikàs) e chiama ‘purificazioni’ tutte le virtù: evidentemente egli ammette così due generi di virtù e non pone per quelle ‘politiche’ la finalità della rassomiglianza con Dio. In che senso diciamo dunque che sono ‘purificazioni’ e che soprattutto mediante la purificazione diventiamo ‘ simili a Dio’? Perché l’anima è cattiva finché è mescolata al corpo, simpatizza con esso e giudica ogni cosa d’accordo con esso [il riferimento è al Fedone: 82 A 11; 66 B 5; 69 C 1; 83 D 7]; mentre essa è buona e possiede la virtù se non opina più in accordo con quello ma agisce sola, e per questo acquisisce la virtù della saggezza, della prudenza [nel testo compaiono i verbi ‘voein’, che indica la capacità di ‘pensare’ e ‘fronéin’ che indica la capacità di ben deliberare le proprie azioni]. Similmente la virtù della temperanza (sofronéin – sofrosyne) consiste nel non simpatizzare più con il corpo (omopathès ghinoméne tò sòmati = letteralmente: provare le stesse passioni del corpo); altrettanto si può dire per la virtù del coraggio (andrίzesthai = letteralmente la virtù dell’uomo ‘maschio’, ‘virile’) che consiste nel non temere il distacco dal corpo; quando la ragione e lo spirito (lógos kaì nous) dominano incontrastati ecco la giustizia (dikaiosyne) [per noi è interessante la distinzione tra lógos e nous che evidentemente riprende quella tra diá noia e nous, tra il livello ‘razionale/dialettico’ della coscienza e quello più elevato definibile come ‘ intuitivo/metafisico’]. L’anima cogli così la dimensione spirituale ed è priva di passioni, quando si trova in questa disposizione che può essere detta, senza tema d’errare, la ‘rassomiglianza con Dio’; puro è infatti l’essere divino e così anche la sua potenza (enérgheia), conseguentemente chi lo imita possiede la saggezza” (Enn., I, 2, 3).
L’ideale per Plotino non è,quindi, quello dell’uomo ‘buono’ ma quello dell’uomo che si ‘divinizza’: “Nessuna delle tendenze naturali è di per sé peccato (amartίa), poiché all’uomo inerisce una sostanziale rettitudine; in realtà lo sforzo che deve compiere non è quello di essere fuori di ogni peccato (exo amartίas) ma di essere un dio (theòn einai) ” (Enn., I, 2, 6).
Il saggio (spoudaios) sa elevarsi al di sopra delle comuni virtù civili:”Arrivato ai princípi e alle norme superiori, agirà secondo queste, non col riporre la sua temperanza nel limitare i desideri, ma coll’isolarsi completamente [dai bisogni del corpo] (ólos chorízon), per quanto possibile [ad un essere vivente]; egli non vive più la vita dell’uomo dabbene, come esige la virtù civile (è politikè aretè), ma la abbandona scegliendone un’altra, quella degli dèi, infatti bisogna coltivare la omoiosis rispetto agli dèi e non agli uomini” (Enn., I, 2, 7).
Il saggio comprende che “ la purificazione consiste nell’isolare l’anima affinché non si unisca ad altro e non guardi ad altro e non abbia più idee che si riferiscano ad altre realtà, qualunque sia la forma delle idee o delle passioni, come s’è detto, né si volga ad immagini interiori (eidola), né con esse si procuri delle passioni” (Enn., III, 6, 5).
Per il filosofo, dunque, l’isolamento dell’anima non implica solo la capacità di distaccarsi dalla diretta percezione di realtà sensibili capaci di suscitare passioni, ma anche quella di separarsi dalle immagini interiori (fantasie, ricordi) capaci di suscitarle.
A tal fine bisogna, a suo parere, spostare la coscienza ‘dal basso’ (del corpo) verso ‘l’alto’ ( è il processo di sublimazione delle energie psichiche ben noto alla fisiologia mistica indiana e non solo…): “Come non potrà <tale prassi interiore> dirsi catarsi se la coscienza procede
dal basso verso l’alto?” (Enn., III, 6, 5).
Per questo Plotino ricorda che il suo maestro Platone riferiva la capacità più elevata dello spirito umano alla ‘sommità del capo’, alla ‘testa’ (Timeo, 90 A 5); tuttavia da un punto di vista metafisico è l’anima che avvolge il corpo come principio dinamico e coscienziale: “ Non
Per questo Plotino ricorda che il suo maestro Platone riferiva la capacità più elevata dello spirito umano alla ‘sommità del capo’, alla ‘testa’ (Timeo, 90 A 5); tuttavia da un punto di vista metafisico è l’anima che avvolge il corpo come principio dinamico e coscienziale: “ Non
bisogna cercare un luogo in cui collocare l’anima, ma dobbiamo collocarla fuori di qualsiasi spazio… perciò si è detto che il dio avvolse l’universo nell’Anima ‘anche al di fuori’ per accennare a quella parte dell’anima che rimane nel mondo intelligibile; quanto a noi, invece,
Platone dice in enigma ‘sulla sommità’, ‘nella testa’” (Enn., V, 1, 10).
Per Plotino, dunque, se si praticano le virtù in un grado ‘eroico’ (come direbbero i cristiani) l’anima segue un processo ‘ascensionale’ assecondando una sua profonda e ‘connaturata’ aspirazione metafisica; diventa ‘divina’ e poiché ‘il simile conosce il simile’, essa ‘purificata’
Per Plotino, dunque, se si praticano le virtù in un grado ‘eroico’ (come direbbero i cristiani) l’anima segue un processo ‘ascensionale’ assecondando una sua profonda e ‘connaturata’ aspirazione metafisica; diventa ‘divina’ e poiché ‘il simile conosce il simile’, essa ‘purificata’
potrà ‘vedere’ lo Spirito, l’Uno da cui proviene.
LA VIA DEL VERO
Se l’essenza delle virtù consiste nell’allontanarsi (secondo diversi ‘gradi’) dai condizionamenti, dalla potenza attrattiva e dalle limitazioni del corpo in che cosa consisterà propriamente l’esercizio della filosofia?
Certo la conoscenza dell’Uno presenta delle difficoltà specifiche poiché esso non ha forma e non si coglie con un atto di riflessione logica.
Plotino è ben consapevole di ciò e ribadisce sovente che la conoscenza dell’ Uno avviene per intuizione sovrarazionale e per identificazione, è cioè una conoscenza ‘unitiva’ capace di superare la barriera ordinaria ed invalicabile sul piano sensibile tra soggetto ed oggetto.
Solo nell’esperienza amorosa l’uomo ordinario ha una esperienza embrionale della possibile ed ‘estatica’ fusione tra due diverse coscienze.
Lo sforzo di conoscere qualcosa di ‘informale’, di ‘indeterminato’ è arduo.
E questo Plotino lo riconosce: “Quanto più l’anima penetra in seno all’informe, spossata nel suo vano tentativo di coglierlo, per la sua indeterminatezza e per il fatto che essa non viene più per così dire ‘impressionata’ da una qualche impronta <di cose sensibili>, ella allora sdrucciola e teme di trovarsi a mani vuote…ma quando l’anima desidera vedere con le sue sole forze <facendo a meno di impulsi sensibili> e, vedendo solamente con il concentrarsi in sé (mόnon orosa tò suneinai), essendo una sola cosa (unificandosi completamente) attraverso l’essere una sola cosa con l’Uno, non ritiene di aver conseguito ‘qualcosa’che sia stato ricercato <e quindi di diverso de sé>…proprio così deve fare colui che si avvia a filosofare intorno all’Uno…<per questo> dobbiamo risalire al Principio che è immanente in noi (epì tèn eautò archèn anabebekénai) ed ‘ unificarci’(én ghenésthai) separandoci dalla molteplicità <sia degli enti sensibili che delle loro immagini interiori> (ek pollòn), allora potremo contemplare il Principio primo e l’Uno (archès kai enòs theatèn esómenov).”(Enn., VI, 9, 3).
Per Plotino, dunque, coincidono il fare filosofia e l’ascendere all’Uno, ma poiché Questo si trova nel profondo del nostro ‘io’, Esso si scopre nella nostra umana interiorità. La filosofia stessa è una metafisica dell’esperienza interiore e non solo un ‘conoscere’ ma un trasformarsi’.
La mistica di Plotino è ‘naturale’, nel senso che non è fondata su di una fede ma sulla filosofia, cioè sulla pura ed universale aspirazione dell’uomo alla Conoscenza.
Plotino ben distingue, come Platone, il processo discorsivo della mente (la dianoia) dalla intellezione pura (la nòesis) del Principio e per questo riconosce il fatto che l’insegnamento (sia orale che scritto) può tutt’al più “additare la via ed il viaggio” al discepolo (tema tipicamente orientale): “Invero nasce soprattutto un’ aporìa (ghínetai aporía), perché la conoscenza di Lui (il termine usato: synesis da syn-íemi, significa andare incontro, unione, ricongiungimento) non si ottiene né per mezzo della scienza (kat’epistémen) né per mezzo del pensiero astratto (katà nóesin), come per i restanti oggetti della Intelligenza, ma solo per via di una presenza (katà parousían) che vale più della scienza (epistéme kreíttona). L’anima sperimenta un allontanamento dalla sua unità e non resta completamente una allorché acquista la conoscenza scientifica di qualche cosa; la scienza infatti è un processo logico: ma il processo logico implica la molteplicità: perciò, una volta caduta nel numero e nella molteplicità, essa perde l’Uno. E’ dunque necessario oltrepassare la scienza e non deviare mai dall’unitarietà del nostro essere; è necessario allontanarsi sia dalla scienza, sia dai suoi oggetti e da ogni altra cosa, anche se bella da contemplare poiché ogni bellezza è inferiore all’Uno, come la luce del giorno deriva tutta dal Sole. Perciò si dice che Egli è ineffabile e indescrivibile (oudè retòn oudè graptón). E tuttavia noi parliamo e scriviamo per avviare verso di Lui, per destare dal sonno delle parole alla veglia della visione, come coloro che mostrano la strada a chi vuol vedere qualcosa. L’insegnamento può riguardare soltanto la via ed il cammino, ma la visione è tutta opera personale di colui che ha voluto contemplare…Egli, in realtà, è già presente <nella coscienza di ciascuno> ma è presente soltanto a coloro che possono accoglierlo e che si sono preparati ad armonizzarsi e ad entrare in contatto con Lui in virtù di un’affinità e di una potenza insita in Lui, consustanziale a ciò che da Lui deriva; qualora questa potenza si conservi così com’era quando uscì da Lui, essi, allora, sono capaci di contemplarlo nel modo in cui Egli è, per sua natura” (Enn., VI, 9, 4).
L’iniziato ed il filosofo hanno una meta comune: la unio mystica; in quello spazio interiore i pensieri non scorrono più poiché l’esperienza è al di là del dicibile e per questo i misteri hanno sempre prescritto il silenzio: “Proprio questo – sottolinea Plotino - vuol significare quel famoso comando dei nostri misteri: ‘non divulgare nulla ai non iniziati’; appunto perché il divino non è da divulgarsi, fu vietato di manifestarlo ad un altro, tranne che quest’altro abbia già avuto per se stesso la sorte della contemplazione…Poiché non erano due <distinte realtà>, ma il veggente era una cosa sola con l’ oggetto visto, ‘unito’, dunque, non ‘visto’(òs an mè eoraménon, all’è noménon)…il veggente asceso a quell’altezza non provava animosità né brama di nulla, ma non c’era nemmeno ragione né pensiero alcuno; non c’era neppure lui stesso, insomma, se è proprio inevitabile dire questa enormità! E invece, quasi rapito o ispirato (arpasthèis è evthousiásas) egli è entrato silenziosamente (esychè) nell’isolamento (en erèmo) e in uno stato che non conosce più scosse e non declina più dall’essere di Lui e non si torce più verso se stesso, del tutto fermo, quasi trasformato nella stessa immobilità”(Enn., VI, 9, 11).
Nel momento dell’estasi contemplativa il saggio comprende che la Bellezza e le Virtù sono ideali e mete finalizzate al diretto contatto con l’Uno: “Egli ha trasceso ormai le cose belle, anzi, ha trasceso il Bello stesso ed il coro delle virtù: è simile ad uno che, entrato nell’interno del penetrale, abbia lasciato dietro di sé le statue collocate nel tempio, quelle statue che, quando uscirà nuovamente dal penetrale, gli si faranno avanti per prime, dopo aver avuto l’intima visione e dopo essersi unito non con una statua, con una immagine, ma con Lui stesso” (Enn., VI, 9, 11).
La conoscenza dell’Uno dunque è possibile solo se si rende l’anima ‘ pura’, affine, consustanziale all’Uno stesso, dunque essa è frutto di una trasformazione interiore dell’uomo e non di mere astrazioni concettuali.
Ci si può predisporre alla conoscenza dell’Uno, ci si può ‘purificare ’ ontologicamente attraverso l’esercizio delle virtù, ma la prassi filosofico/iniziatica più ‘diretta’ consiste nell’esercitarsi deliberatamente e coscientemente all’acquisizione della ‘indipendenza/trascendenza’ dello spirito dal mondo delle forme.
Il filosofo porrà in atto una serie di ‘operazioni interiori’ tendenti a fargli acquisire un nuovo ‘abito’ non solo ‘comportamentale’ ma anche e soprattutto ‘noetico’ che lo condurrà dalla filosofia ‘speculativa’ a quella ‘realizzativa’, dalla filosofia ‘razionale’ alla sofia ‘intuitiva’.
Per giungere a tale meta sublime bisogna allenare l’anima, come diceva già Socrate, a ‘raccogliersi in se stessa’.
Quando la stessa attività del pensiero viene ‘azzerata’ si crea quel ‘vuoto mentale’ in cui il Principio Primo manifesta la sua ‘presenza’, la sua parousìa (da parà-eimi = essere presso) nell’anima umana.
“Per separarsi dal corpo – egli dice – essa si raccoglie in se stessa (synágousan prόs eautén; da syn = assieme e ágo = conduco; dunque è una con-centrazione, una uni-ficazione) come se provenisse da luoghi diversi, del tutto priva di turbamenti (pánthos apathòs), considerando i piaceri necessari come delle semplici sensazioni…E’ chiaro che non c’è in lei nessun desiderio di cose turpi; desidera il mangiare ed il bere non per sé, ma per soddisfare i bisogni del corpo, né ricerca i piaceri d’amore, o, soltanto, io credo, quelli naturali che non sono espressione di un cieco impulso, e se lo fa, lo fa con una fantasia già dominata” (Enn., I, 2, 5).
Socrate stesso era ‘abituato’ a tale pratica di profonda interiorizzazione e ne dava anche ‘visibilità’ attraverso una straordinaria capacità d’immobilità del corpo (a cui corrispondeva - e non poteva essere altrimenti- la pacificazione e stabilità della mente) di cui dà esplicita testimonianza Platone.
La concentrazione interiore era una pratica del resto ben nota alla tradizione sacrale della Grecia arcaica ed era esplicitamente indicata come la ‘tecnica estatica’ per eccellenza.
Plotino stesso raggiunse quattro volte la pienezza di questa condizione, secondo la testimonianza del discepolo Porfirio: “…seguendo la via additata da Platone nel Simposio, Plotino contemplò quel Dio che non ha forma né essenza, poiché si trova sopra l’intelligenza e l’intelligibile. A questo Dio, io, Porfirio, mi sono accostato e con esso mi sono unito una sola volta: ed ora io ho sessantotto anni. A Plotino apparve la visione del fine vicino: questo fine e questo scopo era per lui l’unione intima con Dio (tò enothenai: il verbo evόo significa letteralmente: ‘farsi uno’ ed è connesso, come si è già visto, al termine hénosis = riunione, unità) che è sopra tutte le cose. Finché io fui con lui, egli raggiunse questo fine quattro volte con un atto ineffabile…(Porfirio, Vita di Plotino, 23).
Plotino stesso confessò: “Spesso, destandomi a me steso dal mio sogno corporeo e diventato estraneo a ogni altra cosa, io contemplo nel mio intimo una bellezza meravigliosa e credo, soprattutto allora, di appartenere a un più alto destino; realizzando una vita migliore,
Se l’essenza delle virtù consiste nell’allontanarsi (secondo diversi ‘gradi’) dai condizionamenti, dalla potenza attrattiva e dalle limitazioni del corpo in che cosa consisterà propriamente l’esercizio della filosofia?
Certo la conoscenza dell’Uno presenta delle difficoltà specifiche poiché esso non ha forma e non si coglie con un atto di riflessione logica.
Plotino è ben consapevole di ciò e ribadisce sovente che la conoscenza dell’ Uno avviene per intuizione sovrarazionale e per identificazione, è cioè una conoscenza ‘unitiva’ capace di superare la barriera ordinaria ed invalicabile sul piano sensibile tra soggetto ed oggetto.
Solo nell’esperienza amorosa l’uomo ordinario ha una esperienza embrionale della possibile ed ‘estatica’ fusione tra due diverse coscienze.
Lo sforzo di conoscere qualcosa di ‘informale’, di ‘indeterminato’ è arduo.
E questo Plotino lo riconosce: “Quanto più l’anima penetra in seno all’informe, spossata nel suo vano tentativo di coglierlo, per la sua indeterminatezza e per il fatto che essa non viene più per così dire ‘impressionata’ da una qualche impronta <di cose sensibili>, ella allora sdrucciola e teme di trovarsi a mani vuote…ma quando l’anima desidera vedere con le sue sole forze <facendo a meno di impulsi sensibili> e, vedendo solamente con il concentrarsi in sé (mόnon orosa tò suneinai), essendo una sola cosa (unificandosi completamente) attraverso l’essere una sola cosa con l’Uno, non ritiene di aver conseguito ‘qualcosa’che sia stato ricercato <e quindi di diverso de sé>…proprio così deve fare colui che si avvia a filosofare intorno all’Uno…<per questo> dobbiamo risalire al Principio che è immanente in noi (epì tèn eautò archèn anabebekénai) ed ‘ unificarci’(én ghenésthai) separandoci dalla molteplicità <sia degli enti sensibili che delle loro immagini interiori> (ek pollòn), allora potremo contemplare il Principio primo e l’Uno (archès kai enòs theatèn esómenov).”(Enn., VI, 9, 3).
Per Plotino, dunque, coincidono il fare filosofia e l’ascendere all’Uno, ma poiché Questo si trova nel profondo del nostro ‘io’, Esso si scopre nella nostra umana interiorità. La filosofia stessa è una metafisica dell’esperienza interiore e non solo un ‘conoscere’ ma un trasformarsi’.
La mistica di Plotino è ‘naturale’, nel senso che non è fondata su di una fede ma sulla filosofia, cioè sulla pura ed universale aspirazione dell’uomo alla Conoscenza.
Plotino ben distingue, come Platone, il processo discorsivo della mente (la dianoia) dalla intellezione pura (la nòesis) del Principio e per questo riconosce il fatto che l’insegnamento (sia orale che scritto) può tutt’al più “additare la via ed il viaggio” al discepolo (tema tipicamente orientale): “Invero nasce soprattutto un’ aporìa (ghínetai aporía), perché la conoscenza di Lui (il termine usato: synesis da syn-íemi, significa andare incontro, unione, ricongiungimento) non si ottiene né per mezzo della scienza (kat’epistémen) né per mezzo del pensiero astratto (katà nóesin), come per i restanti oggetti della Intelligenza, ma solo per via di una presenza (katà parousían) che vale più della scienza (epistéme kreíttona). L’anima sperimenta un allontanamento dalla sua unità e non resta completamente una allorché acquista la conoscenza scientifica di qualche cosa; la scienza infatti è un processo logico: ma il processo logico implica la molteplicità: perciò, una volta caduta nel numero e nella molteplicità, essa perde l’Uno. E’ dunque necessario oltrepassare la scienza e non deviare mai dall’unitarietà del nostro essere; è necessario allontanarsi sia dalla scienza, sia dai suoi oggetti e da ogni altra cosa, anche se bella da contemplare poiché ogni bellezza è inferiore all’Uno, come la luce del giorno deriva tutta dal Sole. Perciò si dice che Egli è ineffabile e indescrivibile (oudè retòn oudè graptón). E tuttavia noi parliamo e scriviamo per avviare verso di Lui, per destare dal sonno delle parole alla veglia della visione, come coloro che mostrano la strada a chi vuol vedere qualcosa. L’insegnamento può riguardare soltanto la via ed il cammino, ma la visione è tutta opera personale di colui che ha voluto contemplare…Egli, in realtà, è già presente <nella coscienza di ciascuno> ma è presente soltanto a coloro che possono accoglierlo e che si sono preparati ad armonizzarsi e ad entrare in contatto con Lui in virtù di un’affinità e di una potenza insita in Lui, consustanziale a ciò che da Lui deriva; qualora questa potenza si conservi così com’era quando uscì da Lui, essi, allora, sono capaci di contemplarlo nel modo in cui Egli è, per sua natura” (Enn., VI, 9, 4).
L’iniziato ed il filosofo hanno una meta comune: la unio mystica; in quello spazio interiore i pensieri non scorrono più poiché l’esperienza è al di là del dicibile e per questo i misteri hanno sempre prescritto il silenzio: “Proprio questo – sottolinea Plotino - vuol significare quel famoso comando dei nostri misteri: ‘non divulgare nulla ai non iniziati’; appunto perché il divino non è da divulgarsi, fu vietato di manifestarlo ad un altro, tranne che quest’altro abbia già avuto per se stesso la sorte della contemplazione…Poiché non erano due <distinte realtà>, ma il veggente era una cosa sola con l’ oggetto visto, ‘unito’, dunque, non ‘visto’(òs an mè eoraménon, all’è noménon)…il veggente asceso a quell’altezza non provava animosità né brama di nulla, ma non c’era nemmeno ragione né pensiero alcuno; non c’era neppure lui stesso, insomma, se è proprio inevitabile dire questa enormità! E invece, quasi rapito o ispirato (arpasthèis è evthousiásas) egli è entrato silenziosamente (esychè) nell’isolamento (en erèmo) e in uno stato che non conosce più scosse e non declina più dall’essere di Lui e non si torce più verso se stesso, del tutto fermo, quasi trasformato nella stessa immobilità”(Enn., VI, 9, 11).
Nel momento dell’estasi contemplativa il saggio comprende che la Bellezza e le Virtù sono ideali e mete finalizzate al diretto contatto con l’Uno: “Egli ha trasceso ormai le cose belle, anzi, ha trasceso il Bello stesso ed il coro delle virtù: è simile ad uno che, entrato nell’interno del penetrale, abbia lasciato dietro di sé le statue collocate nel tempio, quelle statue che, quando uscirà nuovamente dal penetrale, gli si faranno avanti per prime, dopo aver avuto l’intima visione e dopo essersi unito non con una statua, con una immagine, ma con Lui stesso” (Enn., VI, 9, 11).
La conoscenza dell’Uno dunque è possibile solo se si rende l’anima ‘ pura’, affine, consustanziale all’Uno stesso, dunque essa è frutto di una trasformazione interiore dell’uomo e non di mere astrazioni concettuali.
Ci si può predisporre alla conoscenza dell’Uno, ci si può ‘purificare ’ ontologicamente attraverso l’esercizio delle virtù, ma la prassi filosofico/iniziatica più ‘diretta’ consiste nell’esercitarsi deliberatamente e coscientemente all’acquisizione della ‘indipendenza/trascendenza’ dello spirito dal mondo delle forme.
Il filosofo porrà in atto una serie di ‘operazioni interiori’ tendenti a fargli acquisire un nuovo ‘abito’ non solo ‘comportamentale’ ma anche e soprattutto ‘noetico’ che lo condurrà dalla filosofia ‘speculativa’ a quella ‘realizzativa’, dalla filosofia ‘razionale’ alla sofia ‘intuitiva’.
Per giungere a tale meta sublime bisogna allenare l’anima, come diceva già Socrate, a ‘raccogliersi in se stessa’.
Quando la stessa attività del pensiero viene ‘azzerata’ si crea quel ‘vuoto mentale’ in cui il Principio Primo manifesta la sua ‘presenza’, la sua parousìa (da parà-eimi = essere presso) nell’anima umana.
“Per separarsi dal corpo – egli dice – essa si raccoglie in se stessa (synágousan prόs eautén; da syn = assieme e ágo = conduco; dunque è una con-centrazione, una uni-ficazione) come se provenisse da luoghi diversi, del tutto priva di turbamenti (pánthos apathòs), considerando i piaceri necessari come delle semplici sensazioni…E’ chiaro che non c’è in lei nessun desiderio di cose turpi; desidera il mangiare ed il bere non per sé, ma per soddisfare i bisogni del corpo, né ricerca i piaceri d’amore, o, soltanto, io credo, quelli naturali che non sono espressione di un cieco impulso, e se lo fa, lo fa con una fantasia già dominata” (Enn., I, 2, 5).
Socrate stesso era ‘abituato’ a tale pratica di profonda interiorizzazione e ne dava anche ‘visibilità’ attraverso una straordinaria capacità d’immobilità del corpo (a cui corrispondeva - e non poteva essere altrimenti- la pacificazione e stabilità della mente) di cui dà esplicita testimonianza Platone.
La concentrazione interiore era una pratica del resto ben nota alla tradizione sacrale della Grecia arcaica ed era esplicitamente indicata come la ‘tecnica estatica’ per eccellenza.
Plotino stesso raggiunse quattro volte la pienezza di questa condizione, secondo la testimonianza del discepolo Porfirio: “…seguendo la via additata da Platone nel Simposio, Plotino contemplò quel Dio che non ha forma né essenza, poiché si trova sopra l’intelligenza e l’intelligibile. A questo Dio, io, Porfirio, mi sono accostato e con esso mi sono unito una sola volta: ed ora io ho sessantotto anni. A Plotino apparve la visione del fine vicino: questo fine e questo scopo era per lui l’unione intima con Dio (tò enothenai: il verbo evόo significa letteralmente: ‘farsi uno’ ed è connesso, come si è già visto, al termine hénosis = riunione, unità) che è sopra tutte le cose. Finché io fui con lui, egli raggiunse questo fine quattro volte con un atto ineffabile…(Porfirio, Vita di Plotino, 23).
Plotino stesso confessò: “Spesso, destandomi a me steso dal mio sogno corporeo e diventato estraneo a ogni altra cosa, io contemplo nel mio intimo una bellezza meravigliosa e credo, soprattutto allora, di appartenere a un più alto destino; realizzando una vita migliore,
unificato col Divino e fondato su di esso, io arrivo ad esercitare un’attività che mi pone al di sopra di ogni altro essere spirituale. Ma dopo questo riposo in seno al Divino, disceso dall’intelligenza alla riflessione, io mi domando come sia possibile, ora, questa discesa e in quale modo l’anima abbia potuto entrare nel corpo, pur essendo in se stessa così come mi apparve, benché dimorante in un corpo” (Enn., IV, 8, 1).
Egli è del tutto consapevole che le sue ‘dottrine’ e le sue ‘tecniche’ concentrative non sono altro che la riproposizione di una conoscenze e prassi sacre antiche: “Le nostre teorie non sono nuove e non sono di oggi, ma sono state enunciate in maniera non del tutto esplicita molto tempo fa: noi con le nostre dottrine siamo oggi gli esegeti di queste teorie, la cui antichità ci è testimoniata dagli scritti di Platone” (Enn., V, 1, 8).
In effetti per descrivere la condizione dell’anima ‘estatica’ Plotino usa termini ben noti alla tradizione mistica greca come estasi, rapimento, ispirazione, isolamento (da ogni contenuto sensibile), immobilità (nel senso di ‘assenza di turbamento’), comunione (amorosa fusione), unificazione (non-dispersione della coscienza nella molteplicità dei suoi contenuti sensibili).
Nella V Enneade Plotino, ad esempio, affronta decisamente il problema della ‘tecnica’ o dell’ ’arte’ dell’estasi e ricorda che l’Uno, che è Totalità ed assoluta Semplicità, non può essere colto attraverso il pensiero discorsivo che passa faticosamente di concetto in concetto; si deve pertanto giungere ad un tipo di prassi conoscitiva diversa, capace d’indurre una esperienza talmente diversa della realtà che sarà poi impossibile descriverla una volta ritornati al livello ‘ordinario’ ed ‘umano’ della razionalità.
Quando la coscienza ‘purificata’ e ‘pacificata’ avrà realizzato il ‘contatto’ con la Luce dell’Uno la mente cesserà di fatto totalmente il suo compulsivo processo, sentirà il bisogno di ‘tacere’ e capirà che parlarne sarebbe un ‘ profanazione’.
Mano a mano che l’anima ascende procede infatti verso il silenzio assoluto della ineffabilità. Per giungere a tanto il filosofo rivolge ai discepoli il suo celebre ammonimento ad un atteggiamento di risoluto e radicale trascendimento del mondo materiale, illusorio ed effimero che implica non solo un’ascesi dell’azione attraverso la virtù ma anche ad un’ascesi del pensiero attraverso la pratica contemplativa: “…è necessario che il pensiero discorsivo (diànoia), per poter dire qualcosa, colga i concetti l’uno dopo l’altro: solo così infatti si ha il processo del pensiero (diéxodos). Ma in relazione all’Uno che è assolutamente semplice (aplόos) qual è il processo per una possibile conoscenza? Nessuno; ma occorrerà un ‘contatto interiore’ (noeròs ephápsasthai) [noeròs è un avverbio che significa ‘intelligentemente’, ‘attraverso l’intelligenza’; da noèo = pensare e quindi usato in riferimento alla platonica nóesis; quanto al verbo ephápsasthai viene da ephápto che significa: attaccarsi a, prendere, toccare, possedere; quindi il senso della espressione è che l’Uno si conosce attraverso un processo del tutto ‘spirituale’ che non fa più riferimento ad alcun dato della sensibilità]. Ma durante il contatto – continua Plotino – almeno finché avviene, non si avrà affatto né la possibilità né il bisogno di parlare: solo più tardi ci si potrà ragionare sopra. Ma in quell’istante saremo costretti a credere di aver ‘visto’ perché quello è il momento in cui l’anima percepisce la Luce direttamente ed istantaneamente [cfr. Platone, Simposio, 210 E 4; Lettera VII, 341 C7-D1 ]. Poiché questa Luce proviene da Lui, o meglio è Lui stesso…questo è il vero fine dell’anima: ‘toccare’ quella Luce… Ma come questo può avvenire? Elimina ogni cosa (áphele pánta)” (Enn.V, 3, 17).
Questo famoso precetto, per quanto detto, non ha però solo il significato di un invito a praticare una moralità rigorosa allontanandosi dai beni di ‘questo mondo’ (così come comunemente viene interpretato) ma anche e soprattutto il senso ‘tecnico’ di un processo ‘ meditativo’ che va compiuto.
Se non ci sono ‘attaccamenti’ non ci sono più ‘pensieri’.
La coscienza diventa ‘pura’.
L’esercizio consiste allora nell’isolare l’anima, vale a dire: nell’ allontanare la coscienza non solo da ogni contenuto sensibile e dalle connesse e ‘dirette’ ‘appetizioni ‘ ma anche dai contenuti ‘interiori’(fantasie, ricordi, emozioni) collegati anch’essi alle esperienze sensibili e che ne sono, per così dire, il ‘riflesso interno’.
Ciò implica la necessità di distaccarsi persino dallo stesso processo logico/discorsivo, che, per quanto ‘astratto’, è pur sempre collegato di necessità al mondo delle forme.
Plotino non si stanca di ripetere che bisogna ‘unificare’ lo spirito: per lui alla molteplicità degli enti in cui l’Uno si ‘disperde’ corrisponde la molteplicità delle sensazioni e dei pensieri in cui l’anima smarrisce il suo primigenio contatto con la sua stessa Essenza, con il Sé, con il suo ‘centro’. Egli dice: “E’ dunque questo ‘centro dell’ anima’ che noi cerchiamo (tò oun tès psichès oiov kéntrov toutó esti tò zetoùmenon)…poiché una parte di noi è prigioniera del corpo, come se uno avesse i piedi nell’acqua e ne fosse fuori col resto della persona, noi ci eleviamo al di sopra del corpo con quella parte dell’anima che non è immersa in esso e allora col nostro centro ci mettiamo in contatto col centro del Tutto” (Enn., VI, 9, 8).
La coscienza liberata e distaccata dai suoi contenuti ‘sensibili’ (‘diretti’ o ‘indiretti’), divenuta pura ed assoluta ‘autocoscienza, si ‘purifica’, si potenzia, si rasserena e ascende.
A tale ‘ascensione’ dell’anima umana corrisponde allora la ‘discesa’ della Potenza divina entro di lei che non è una Grazia che si comunica immotivatamente ma una Luce che si mostra a chi intensamente l’ha ricercata.
“E’ necessario – ammonisce il filosofo – rivolgere verso l’ interiorità anche la facoltà percettiva (eis tò eiso epistréfein) ed anche far sì che abbia lì la sua attenzione (prosochèn)” (Enn., V, 1, 12).
Questa pratica dà la possibilità di “serbare pura la potenza percettiva dell’anima”(dynamin phyláttein katharàn), pronta a tal punto ad “ascoltare le voci dall’alto” (Enn., V, 1, 12).
Altrove, nella sesta Enneade, egli ripete con particolare insistenza l’ammonimento alla interiorizzazione concentrativa: ”…nel contemplare non rivolgere fuori il tuo pensiero…l’ anima deve staccarsi da tutte le cose esteriori, rivolgersi alla sua interiorità…bisogna separare la coscienza da tutte le cose (agnoèsanta tà pànta) e dagli stessi contenuti del pensiero (tois éidesin) oltre che dal senso limitato di se stesso (agnoèsanta kai autòn) sino a pervenire alla contemplazione di Lui” (Enn., VI, 9, 7).
Altrove così descrive la condizione estatica: ”L’anima allora accogliendo in sé l’influsso che viene da lì (labousa eis autèn tèn ekeithen aporroèn) freme (kineitai) e prova le stesso entusiasmo divino di una baccante (anabakcheutai: termine in cui la preposizione anà indica una emozione che si volge verso ‘l’alto’) e pervasa di desiderio mistico si fa tutta ‘amore’ (éros ghìnetai)…Quando su di lei scende il ‘calore’ che viene di lassù (thermasía ekeithen: la metafora è riferita al potere della luce solare che dà energia agli esseri viventi) essa si rinvigorisce, si ridesta e veramente mette le ali…” (Enn., VI, 7, 22).
L’anima stessa dell’uomo che giunge ad ‘intuire’ Dio, a ‘fondersi’ con Lui, si trasforma in un ente ‘divino’, perde la sua ‘terrestrità ’, scopre finalmente la sua vera natura; ma ciò può essere compreso solo da chi ha provato quell’esperienza: “Chiunque ha ‘visto’ sa ciò che dico: che l’anima, sia perché si è elevata sino a Lui, sia perché è già vicina e partecipe di Lui, possiede una vita nuova; e perciò, in tale disposizione, sa ormai che il largitore della vita è lì presente e che non le occorre più nulla. Noi invece dobbiamo deporre ogni altra cosa e attenerci a Lui solo; dobbiamo anzi trasformarci in Lui liberandoci di ogni aggiunta, a tal punto che bramiamo di uscire dal mondo e non sopportiamo più di essere ancora legati al sensibile, poiché vorremmo abbracciare Dio con tutto l’essere nostro e non aver più alcun punto che non sia in contatto con Dio. Qui l’uomo può vedere Lui e se stesso, finché è concesso vedere: vedere se stesso splendente, ripieno di luce intellegibile o meglio, diventato luce pura, lieve, senza peso, che sta diventando un dio (theόn ghenόmenon), o meglio che è già un dio (màllon dé όnta), tutto infiammato in quell’attimo” (Enneadi, VI, 9, 9).
Ma da dove viene la Luce metafisica e quale deve essere la nostra disposizione d’animo per accoglierla, una vola placata la mente ed i suoi tormenti?
“Noi non sappiamo – dice Plotino – donde è nata la grande Luce, se dall’esterno o dall’interno; e quando essa è sparita diciamo: essa era interiore – eppure non era interiore. Non bisogna chiedere donde sia apparsa, poiché qui non c’è nessun punto d’origine: essa non parte da un luogo per andare ad un altro, ma appare e non appare. Perciò non bisogna inseguirla, ma attendere tranquillamente (all’esychè méneiv) finché essa appaia (éos àn fanè), come l’occhio attende lo spuntare del sole, il quale si eleva dall’orizzonte (dall’Oceano dicono i poeti) e si offre ai nostri sguardi per essere contemplato” (Enn., V, 5, 8).
“Questa è la vita degli dèi e degli uomini divini e beati: essere liberi rispetto alle realtà di questo mondo, vita che non si compiace più delle cose terrene, fuga da soli verso il Solo (fughè mόnou pròs mónon)” (Enn., VI, 9, 11).
Si può pertanto dire che il senso profondo della sua ricerca filosofica è tutto nelle parole che pronunziò alla presenza del discepolo Eustochio in punto di morte: “Io mi sforzo di ricondurre il divino ch’è in me al divino che è nell’universo” (Porfirio, Vita di Plotino, 2).
(Attilio Quattrocchi, in: http://www.accademiaplatonica.net/plotino.html)
Egli è del tutto consapevole che le sue ‘dottrine’ e le sue ‘tecniche’ concentrative non sono altro che la riproposizione di una conoscenze e prassi sacre antiche: “Le nostre teorie non sono nuove e non sono di oggi, ma sono state enunciate in maniera non del tutto esplicita molto tempo fa: noi con le nostre dottrine siamo oggi gli esegeti di queste teorie, la cui antichità ci è testimoniata dagli scritti di Platone” (Enn., V, 1, 8).
In effetti per descrivere la condizione dell’anima ‘estatica’ Plotino usa termini ben noti alla tradizione mistica greca come estasi, rapimento, ispirazione, isolamento (da ogni contenuto sensibile), immobilità (nel senso di ‘assenza di turbamento’), comunione (amorosa fusione), unificazione (non-dispersione della coscienza nella molteplicità dei suoi contenuti sensibili).
Nella V Enneade Plotino, ad esempio, affronta decisamente il problema della ‘tecnica’ o dell’ ’arte’ dell’estasi e ricorda che l’Uno, che è Totalità ed assoluta Semplicità, non può essere colto attraverso il pensiero discorsivo che passa faticosamente di concetto in concetto; si deve pertanto giungere ad un tipo di prassi conoscitiva diversa, capace d’indurre una esperienza talmente diversa della realtà che sarà poi impossibile descriverla una volta ritornati al livello ‘ordinario’ ed ‘umano’ della razionalità.
Quando la coscienza ‘purificata’ e ‘pacificata’ avrà realizzato il ‘contatto’ con la Luce dell’Uno la mente cesserà di fatto totalmente il suo compulsivo processo, sentirà il bisogno di ‘tacere’ e capirà che parlarne sarebbe un ‘ profanazione’.
Mano a mano che l’anima ascende procede infatti verso il silenzio assoluto della ineffabilità. Per giungere a tanto il filosofo rivolge ai discepoli il suo celebre ammonimento ad un atteggiamento di risoluto e radicale trascendimento del mondo materiale, illusorio ed effimero che implica non solo un’ascesi dell’azione attraverso la virtù ma anche ad un’ascesi del pensiero attraverso la pratica contemplativa: “…è necessario che il pensiero discorsivo (diànoia), per poter dire qualcosa, colga i concetti l’uno dopo l’altro: solo così infatti si ha il processo del pensiero (diéxodos). Ma in relazione all’Uno che è assolutamente semplice (aplόos) qual è il processo per una possibile conoscenza? Nessuno; ma occorrerà un ‘contatto interiore’ (noeròs ephápsasthai) [noeròs è un avverbio che significa ‘intelligentemente’, ‘attraverso l’intelligenza’; da noèo = pensare e quindi usato in riferimento alla platonica nóesis; quanto al verbo ephápsasthai viene da ephápto che significa: attaccarsi a, prendere, toccare, possedere; quindi il senso della espressione è che l’Uno si conosce attraverso un processo del tutto ‘spirituale’ che non fa più riferimento ad alcun dato della sensibilità]. Ma durante il contatto – continua Plotino – almeno finché avviene, non si avrà affatto né la possibilità né il bisogno di parlare: solo più tardi ci si potrà ragionare sopra. Ma in quell’istante saremo costretti a credere di aver ‘visto’ perché quello è il momento in cui l’anima percepisce la Luce direttamente ed istantaneamente [cfr. Platone, Simposio, 210 E 4; Lettera VII, 341 C7-D1 ]. Poiché questa Luce proviene da Lui, o meglio è Lui stesso…questo è il vero fine dell’anima: ‘toccare’ quella Luce… Ma come questo può avvenire? Elimina ogni cosa (áphele pánta)” (Enn.V, 3, 17).
Questo famoso precetto, per quanto detto, non ha però solo il significato di un invito a praticare una moralità rigorosa allontanandosi dai beni di ‘questo mondo’ (così come comunemente viene interpretato) ma anche e soprattutto il senso ‘tecnico’ di un processo ‘ meditativo’ che va compiuto.
Se non ci sono ‘attaccamenti’ non ci sono più ‘pensieri’.
La coscienza diventa ‘pura’.
L’esercizio consiste allora nell’isolare l’anima, vale a dire: nell’ allontanare la coscienza non solo da ogni contenuto sensibile e dalle connesse e ‘dirette’ ‘appetizioni ‘ ma anche dai contenuti ‘interiori’(fantasie, ricordi, emozioni) collegati anch’essi alle esperienze sensibili e che ne sono, per così dire, il ‘riflesso interno’.
Ciò implica la necessità di distaccarsi persino dallo stesso processo logico/discorsivo, che, per quanto ‘astratto’, è pur sempre collegato di necessità al mondo delle forme.
Plotino non si stanca di ripetere che bisogna ‘unificare’ lo spirito: per lui alla molteplicità degli enti in cui l’Uno si ‘disperde’ corrisponde la molteplicità delle sensazioni e dei pensieri in cui l’anima smarrisce il suo primigenio contatto con la sua stessa Essenza, con il Sé, con il suo ‘centro’. Egli dice: “E’ dunque questo ‘centro dell’ anima’ che noi cerchiamo (tò oun tès psichès oiov kéntrov toutó esti tò zetoùmenon)…poiché una parte di noi è prigioniera del corpo, come se uno avesse i piedi nell’acqua e ne fosse fuori col resto della persona, noi ci eleviamo al di sopra del corpo con quella parte dell’anima che non è immersa in esso e allora col nostro centro ci mettiamo in contatto col centro del Tutto” (Enn., VI, 9, 8).
La coscienza liberata e distaccata dai suoi contenuti ‘sensibili’ (‘diretti’ o ‘indiretti’), divenuta pura ed assoluta ‘autocoscienza, si ‘purifica’, si potenzia, si rasserena e ascende.
A tale ‘ascensione’ dell’anima umana corrisponde allora la ‘discesa’ della Potenza divina entro di lei che non è una Grazia che si comunica immotivatamente ma una Luce che si mostra a chi intensamente l’ha ricercata.
“E’ necessario – ammonisce il filosofo – rivolgere verso l’ interiorità anche la facoltà percettiva (eis tò eiso epistréfein) ed anche far sì che abbia lì la sua attenzione (prosochèn)” (Enn., V, 1, 12).
Questa pratica dà la possibilità di “serbare pura la potenza percettiva dell’anima”(dynamin phyláttein katharàn), pronta a tal punto ad “ascoltare le voci dall’alto” (Enn., V, 1, 12).
Altrove, nella sesta Enneade, egli ripete con particolare insistenza l’ammonimento alla interiorizzazione concentrativa: ”…nel contemplare non rivolgere fuori il tuo pensiero…l’ anima deve staccarsi da tutte le cose esteriori, rivolgersi alla sua interiorità…bisogna separare la coscienza da tutte le cose (agnoèsanta tà pànta) e dagli stessi contenuti del pensiero (tois éidesin) oltre che dal senso limitato di se stesso (agnoèsanta kai autòn) sino a pervenire alla contemplazione di Lui” (Enn., VI, 9, 7).
Altrove così descrive la condizione estatica: ”L’anima allora accogliendo in sé l’influsso che viene da lì (labousa eis autèn tèn ekeithen aporroèn) freme (kineitai) e prova le stesso entusiasmo divino di una baccante (anabakcheutai: termine in cui la preposizione anà indica una emozione che si volge verso ‘l’alto’) e pervasa di desiderio mistico si fa tutta ‘amore’ (éros ghìnetai)…Quando su di lei scende il ‘calore’ che viene di lassù (thermasía ekeithen: la metafora è riferita al potere della luce solare che dà energia agli esseri viventi) essa si rinvigorisce, si ridesta e veramente mette le ali…” (Enn., VI, 7, 22).
L’anima stessa dell’uomo che giunge ad ‘intuire’ Dio, a ‘fondersi’ con Lui, si trasforma in un ente ‘divino’, perde la sua ‘terrestrità ’, scopre finalmente la sua vera natura; ma ciò può essere compreso solo da chi ha provato quell’esperienza: “Chiunque ha ‘visto’ sa ciò che dico: che l’anima, sia perché si è elevata sino a Lui, sia perché è già vicina e partecipe di Lui, possiede una vita nuova; e perciò, in tale disposizione, sa ormai che il largitore della vita è lì presente e che non le occorre più nulla. Noi invece dobbiamo deporre ogni altra cosa e attenerci a Lui solo; dobbiamo anzi trasformarci in Lui liberandoci di ogni aggiunta, a tal punto che bramiamo di uscire dal mondo e non sopportiamo più di essere ancora legati al sensibile, poiché vorremmo abbracciare Dio con tutto l’essere nostro e non aver più alcun punto che non sia in contatto con Dio. Qui l’uomo può vedere Lui e se stesso, finché è concesso vedere: vedere se stesso splendente, ripieno di luce intellegibile o meglio, diventato luce pura, lieve, senza peso, che sta diventando un dio (theόn ghenόmenon), o meglio che è già un dio (màllon dé όnta), tutto infiammato in quell’attimo” (Enneadi, VI, 9, 9).
Ma da dove viene la Luce metafisica e quale deve essere la nostra disposizione d’animo per accoglierla, una vola placata la mente ed i suoi tormenti?
“Noi non sappiamo – dice Plotino – donde è nata la grande Luce, se dall’esterno o dall’interno; e quando essa è sparita diciamo: essa era interiore – eppure non era interiore. Non bisogna chiedere donde sia apparsa, poiché qui non c’è nessun punto d’origine: essa non parte da un luogo per andare ad un altro, ma appare e non appare. Perciò non bisogna inseguirla, ma attendere tranquillamente (all’esychè méneiv) finché essa appaia (éos àn fanè), come l’occhio attende lo spuntare del sole, il quale si eleva dall’orizzonte (dall’Oceano dicono i poeti) e si offre ai nostri sguardi per essere contemplato” (Enn., V, 5, 8).
“Questa è la vita degli dèi e degli uomini divini e beati: essere liberi rispetto alle realtà di questo mondo, vita che non si compiace più delle cose terrene, fuga da soli verso il Solo (fughè mόnou pròs mónon)” (Enn., VI, 9, 11).
Si può pertanto dire che il senso profondo della sua ricerca filosofica è tutto nelle parole che pronunziò alla presenza del discepolo Eustochio in punto di morte: “Io mi sforzo di ricondurre il divino ch’è in me al divino che è nell’universo” (Porfirio, Vita di Plotino, 2).
(Attilio Quattrocchi, in: http://www.accademiaplatonica.net/plotino.html)
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Viaggiare.
Dentro. Fuori.
Progetto Parzifal:
I libri di Losfeld.
(img di copertina: Antonio Canova, Adone e Venere, 1794.
Fotografia di Mimmo Iodice, tratta dal catalogo della mostra "Antonio Canova",
Marsilio, Venezia, 1992).
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I libri di Losfeld.
(img di copertina: Antonio Canova, Adone e Venere, 1794.
Fotografia di Mimmo Iodice, tratta dal catalogo della mostra "Antonio Canova",
Marsilio, Venezia, 1992).
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Antonio Canova, Adone e Venere, marmo, 1794.
(da: http://mageneve.blogspot.it/2012/02/dimanche-aux-musees.html - si ringrazia)
Antonio Canova, Adone e Venere, marmo, 1794.
(da: http://www.photoree.com/photos/permalink/10418277-16409072@N08 - si ringrazia)
Dolci Presenze del Viandante seguono l'Ombra in questo Silenzio popolato di Assenza.
Viaggiare. Dentro. Fuori.
Occhi. Lago di Nuvole.