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lunedì 21 febbraio 2011

Ocampo. Silvina Ocampo, Viaggio dimenticato.




"Silvina Ocampo aveva trent’anni quando pubblicò con “Viaje olvidado” la sua opera prima. Chi conosce libri come “La furia” e “Autobiografìa de Irene”, faticherà non poco a riconoscervi la stessa autrice. Diverso l’impianto narrativo, qui appena disegnato e talora del tutto implicito, e diverso soprattutto lo stile, ricco di metafore ed analogie poetiche".

Introduzione
di Lucio D’Arcangelo
Silvina Ocampo aveva trent’anni quando pubblicò con “Viaje olvidado” la sua opera prima. Chi conosce libri come “La furia” e “Autobiografìa de Irene”, faticherà non poco a riconoscervi la stessa autrice. Diverso l’impianto narrativo, qui appena disegnato e talora del tutto implicito, e diverso soprattutto lo stile, ricco di metafore ed analogie poetiche.

«Ho sempre voluto scrivere, — dice la Ocampo, — Per tutto un periodo mandavo ai miei amici lettere in cui inventavo sentimenti. Erano lettere d’amore e di odio». «Forse in queste lettere di adolescente — commenta Enrique Pezzoni — c’è già la chiave della sua opera futura: non confessione, come si potrebbe pensare dalla veemenza con cui narra le sue avventure spirituali, ma il proprio sentire come oggetto di studio: non una netta distinzione tra il bello e il brutto, tra il vile e il nobile, ma una curiosa coincidenza degli opposti».

Ciò nonostante, sarebbe un errore presentare questo libro come l’incunabolo di un successo o di una maturità letteraria. Ci sono scrittori i cui libri acquistano peso e valore soltanto nell’ambito di una work in progress, altri che configurano nella loro opera una sorta di ostinata regressione, ripetendo continuamente lo stesso libro; altri infine che come i pittori hanno i loro «periodi» più o meno apprezzati, ma sicuramente non intercambiabili. Credo che la Ocampo appartenga a quest’ultima categoria, per la quale ogni opera acquisisce una propria, irriducibile individualità.
La straordinaria bellezza, l’incanto di queste pagine si spiegano soltanto con una freschezza di sensazioni difficilmente pensabile fuori dalla giovinezza o dai suoi barlumi. Prosa e poesia, narrativa e metafora, convivono in un linguaggio specialissimo che la Ocampo non ripeterà in nessun altro libro. “Viaggio dimenticato” deve sicuramente il suo fascino a ciò che non è detto ed è solo adombrato, a ciò che sta dietro il racconto: immagini, sequenze o flash dotati di una strana forza, che come nei sogni non significano propriamente, ma alludono a qualcosa di remoto, che probabilmente abbiamo perduto per sempre. Ma unitamente a ciò c’è la poetica capacità di recuperare gli strati più antichi, e più verdi, del proprio essere: dove la gioia, la felicità, ed anche il loro contrario, la pena, il dolore, si manifestano con la violenza e la gratuità delle antiche epifanie.
Così, se “Il padiglione dei laghi” riconduce a momenti di infantile meraviglia, “Siesta al cedro” sperimenta, precocemente, l’indifferenza di cui è circondata la morte. In “La testa attaccata al vetro”, Il venditore di statue e “Il passaporto perduto”, il fantastico ha la consistenza dei sogni, o degli incubi: si nutre di presagi funesti, inimmaginabili crudeltà e lascia appena intravedere, come nel primo racconto, un velato simbolismo. Altre volte sono gli equivoci quotidiani, le sottili astuzie della vita, ad alimentare il racconto, come in “Speranza a Flores” e “Il vestito verde oliva”, o le fatalità più cieche, quelle che in “Soffitto di lucernari” e “Il ritratto fatto male”, fanno esplodere crimini domestici a lungo covati, descritti quasi in punta di penna.

Se in “Via Sarandì” il destino si compiace di atroci simmetrie, in “Notturno” ed “Eladio Rada” il significato d’una vita è racchiuso in un gesto, ossessivamente ripetuto, che finisce per suggellarne la fine. Il mistero dei rapporti interpersonali, sempre imprevedibili e mai definibili nella loro complessità, domina “Il cavallo morto” e “Il mare”, racconti che come tanti altri presentano figure femminili sfuggenti ed enigmatiche, ma non per questo meno esemplari.
Ma il senso più profondo del libro sta nel racconto che gli dà il titolo “Viaggio dimenticato”. Una bambina, a cui hanno detto che i neonati vengono da Parigi, cerca di ricordare inutilmente quel viaggio prenatale. Ma quando le viene svelato il segreto della nascita, la madre diventa per lei quasi un‘estranea. La cesura tra mondo adulto ed infanzia è vista dalla parte di quest’ultima, ed è propriamente questo «sguardo» à rebours che ci fa vedere, negli interstizi della realtà, quell’altro lato delle cose, che può essere gratificante ma anche terribile.
(Lucio D’Arcangelo)


Silvina Ocampo,
Viaggio dimenticato


"Voleva ricordarsi del giorno in cui era nata e aggrottava tanto le sopracciglia che ad ogni istante le persone grandi l’interrompevano per farle spianare la fronte. Perciò non poteva mai arrivare al ricordo della sua nascita.

Prima di nascere i bambini erano immagazzinati in un grande negozio a Parigi. Le madri li ordinavano e a volte andavano loro stesse a comprarli. Avrebbe desiderato vederle svolgere il pacchetto ed aprire la scatola dove erano i bebè, ma non era mai stata chiamata in tempo nelle case dei neonati. Arrivavano tutti innervositi dal viaggio; non potevano respirare bene nella scatola, e perciò erano così rossi e piangevano senza posa, arrotolando le dita dei piedi.

Ma lei era nata una mattina a Parigi facendo nidi per gli uccelli. Quel giorno non ricordava di essere uscita di casa, aveva la sensazione di aver fatto un viaggio senza auto né carrozza, un viaggio pieno di ombre misteriose, e di essersi svegliata in un sentiero di alberi con odore di casuarinas, dove si era trovata improvvisamente a fare nidi per gli uccelli. Gli occhi di Micaela, la sua bambinaia, la seguivano come due guardiani. La costruzione dei nidi non era facile; erano di varie stanze: ci dovevano essere camera da letto e cucina. Il giorno dopo, quando tornò a Palermo, cercava i nidi sul sentiero delle casuarinas. Non ne restava nessuno. Era sul punto di piangere quando la bambinaia disse: «Gli uccellini si sono portati i nidi sugli alberi, perciò questa mattina sono così contenti». Ma sua sorella, che intollerabilmente aveva tre anni più di lei, rise, le indicò con il guanto di filo il giardiniere di Palermo che aveva un occhio storto e spazzava la strada con una scopa di rami grigi. Insieme con le foglie morte spazzava l’ultimo nido. E lei in quel momento ebbe voglia di rimettere, come se udisse il rumore delle amache del giardino di casa.

E poi, il tempo era passato da quel giorno allontanandola disperatamente dalla sua nascita. Ogni ricordo era una bambina diversa, ma che aveva il suo stesso volto. Ogni anno che compiva si allungava il girotondo delle bambine che non arrivavano a darsi la mano intorno a lei.
Finché un giorno, giocando nello studio, la figlia dell’autista francese le disse con parole atroci, piene di sangue: «I bambini stanno dentro la pancia delle madri e quando nascono escono dall’ombelico», e non so che altre parole oscure come peccati erano sgorgate dalla bocca di Germaine, che a dirle neppure impallidì.

Allora cominciarono a nascere bambini da tutte le parti. Nella famiglia non erano mai nati tanti bambini. Le donne portavano globi enormi nella pancia e ogni volta che le persone grandi parlavano di qualche neonato bebè, un fuoco intenso le si diffondeva in volto e le faceva abbassare la testa al suolo in cerca di qualcosa, un anello, un fazzoletto che non era caduto. E tutti gli occhi si volgevano verso di lei come fanali illuminando la sua vergogna.

Una mattina, mentre, appena uscita dal bagno, guardava la bambinaia che puliva con l’asciugamano la schiuma dello scolo, confidò a Micaela il suo terribile segreto, ridendo. La bambinaia si arrabbiò molto e le assicurò di nuovo che i bebè venivano da Parigi. Provò un po’ di sollievo.

Ma quando arrivava la notte, un’angoscia mista ai rumori della strada saliva in tutto il suo corpo. La notte non poteva dormire, anche se sua madre la baciava molte volte prima di andare a teatro. I baci avevano perduto il loro potere.

Fu dopo molti giorni e molte ore lunghe e nere all’orologio enorme della cucina, nei corridoi deserti della casa, dietro le porte piene di persone grandi che parlavano in segreto. Sua madre se la fece sedere in grembo nella stanza in cui si vestiva e le disse che i bambini non vengono da Parigi. Le parlò di fiori, le parlò di uccelli; e tutto ciò si mescolava ai terribili segreti di Germaine. Ma lei sostenne disperatamente che i bambini venivano da Parigi.

Un momento dopo, quando sua madre disse che andava ad aprire la finestra e l’aprì, il suo volto era cambiato totalmente sotto il cappello con le piume: era una signora in visita a casa sua. La finestra era più chiusa di prima e quando sua madre disse che il sole era bellissimo, vide il cielo nero della notte dove non cantava un solo uccello".


 ***
OCAMPO, SILVINA, recensione di Campra, R., L'Indice 1990, n. 3.
"L'opera dell'argentina Silvina Ocampo viene spesso offuscata da molteplici riflessi: quello della sorella Victoria Ocampo, fondatrice della prestigiosa rivista "Sur"; del marito, lo scrittore Bioy Casares; dell'amico Borges... E così come si suol parlare di Bioy Casares a partire da Borges, è facile cadere nella tentazione di parlare di Silvina Ocampo a partire da questi due nomi consacrati della letteratura fantastica rioplatense. Tanto più che le storie di questi tre libri si possono ascrivere senza dubbi al genere fantastico, o almeno a alcune delle sue varietà meno ovvie: sono storie di improvvise trasformazioni, di scomparse inspiegabili, di fantasmi impertinenti, di vendette nascoste e impercettibili terrori. Un altro riflesso forse ingannevole nasce dal tono educatamente na'f nel quale queste storie si presentano, una specie di atmosfera lieve e familiare, che ci rassicura finché diventa troppo tardi: allora siamo prigionieri, e scopriamo che non si trattava di innocenza bensì di perversione, una perversione così sottilmente celata che il fatto stesso di identificarla equivale a una confessione di complicità da parte nostra.
Una delle forme di questo mascheramento è la brevità dei racconti, più che racconti situazioni, e talvolta neanche questo, appena un cenno allo smaliziato lettore di storie fantastiche come "Il cappello metamorfico", in "E così via", un lettore capace di collocare la narrazione in un sistema quello degli 'oggetti magici', e di prevederne così gli sviluppi, e infine di farne a meno. Accettazione dell'inenarrabilità del mondo? Volontà di frammentazione da parte del narratore? Una specie di pigrizia? Oppure un voler affidare al lettore non solo la costruzione di un senso, ma anche la supposizione dei fatti? Si sentirà attratto da questi libri chi subisce il fascino dell'incompiuto, dell'aperto, dell'indecifrabile: sono storie che apparentemente non sfociano da nessuna parte, se non nel fatto stesso di essere raccontate.
Per questo mi sembra che l'illustrazione di copertina di "Viaggio dimenticato" - un particolare di "The girl at the fence" di H. Schierfbeck - riassuma con efficacia l'atmosfera generale di queste tre raccolte. Il colore offre soltanto sottili variazioni di grigio, le linee tracciano soltanto diagonali senza alcun punto di appoggio: né per il davanzale, né per l'adolescente che vi si appoggia nell'attesa cieca di qualcosa oltre la cornice, qualcosa di invisibile o forse di inesistente. Anche certi temi presenti in "Viaggio dimenticato" annunciano delle ossessioni che si riveleranno singolarmente pertinaci; ad esempio l'incomunicabilità tra il mondo degli adulti e quello dell'infanzia, che può arrivare all'odio e all'assassinio. In "soffitto di lucernari" i vetri colorati di un lucernario sfumano il gesto criminale di un adulto che possiamo supporre esasperato dai giochi di una bambina. In "L'albero inciso", "La penna magica", è invece un bambino a uccidere il nonno pugnalandolo al cuore, per una causa parimenti futile: il nonno l'aveva castigato. Ma sono queste le motivazioni vere, o non piuttosto quei cuori trafitti che un giorno sono apparsi incisi negli alberi?
Così lo schema dell'azione si sviluppa spesso a partire da situazioni banali, ma che smettono di essere banali per le loro cause, le loro conseguenze, e soprattutto per il brivido di certezza che percorre i fatti; la sicurezza che tutto debba essere così, che è bene sia così: non esistono colpevolezze. E per questo, la prevedibile inquietudine che queste storie provocano è un problema che riguarda essenzialmente il lettore, giacché i personaggi scivolano con serena indifferenza sull'orrore o sull'incomprensibilità.
In queste linee costanti, certe insistenze e certe sfumature definiscono il registro particolare di ogni raccolta. In "Viaggio dimenticato", è l'acuto senso dell'irreparabile che accompagna ogni gesto: innamorarsi di una passeggera quando si è conducente di un tram (come avviene in "La casa dei tram"), oppure prevedere un naufragio nel quale la perdita più dolorosa, imprevedibile, sarà quella di una sconosciuta (come nel bellissimo "Il passaporto perduto"): tutto 'finisce male', per un malinteso, una scoperta tardiva, una speranza senza ragione.
I racconti di "La penna magica" oscillano tra una volontà scientifica di trasformazione della realtà e la rivelazione dell'orrore del quotidiano che si esprime in occasioni innocenti come la festa di compleanno di un bambino che i genitori hanno lasciato solo, e cui le invitate negano i regali ("Le invitate"). Un cameriere, per continuare a servire fedelmente i suoi clienti - e a sbeffeggiarli - ritorna dall'aldilà ("1l sinistro dell'Ecuador"). Una storia d'amore può non essere altro che un preludio al cannibalismo ("La parrucca")...
"E cosi via" suggerisce altre più disincantate esplorazioni della realtà. In "Le conversazioni", un rapporto di amicizia tra due uomini viene troncato dalla morte di uno di loro, ma continua attraverso la relazione amorosa con la sorella dello scomparso, che accetta, consapevole e malinconica il suo ruolo di doppio. Da Andersen a Oscar Wilde, abbiamo letto molte storie d'amore tra un uomo e una sirena, ma nessuna così scarna e desolata come quella che dà il titolo al libro: in essa non sappiamo cosa succederà, percepiamo solo un'atmosfera carica di disastro, che è poi quella della vita.
Così, se in alcuni casi questi libri possono provocare l'insoddisfazione dell'incompiutezza, l'universo di contorni sfuggenti che essi disegnano può anche risultare attraente come un abisso. Ciò che inquieta nei racconti di Silvina Ocampo è soprattutto quell'astuzia del linguaggio che consiste nel dire meno di ciò che narratore, personaggi e persino noi lettori sappiamo, o supponiamo. Si percepisce in questi racconti come un retrogusto che non riusciamo a identificare, e che ci spinge a provare ancora, a inseguire una conoscenza che risulterà alla fine sicuramente mortale. Di essi si può dire ciò che, in "Viaggio dimenticato", si dice di un personaggio di "Il vestito verde oliva": che sono trasparenti come quelle carte che lasciano vedere tutto ciò che avvolgono, "ma all'interno di quelle trasparenze c'erano delicatissimi strati di mistero".
(da: http://www.ibs.it/code/9788806115838/ocampo-silvina/cosi-via.html)


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Dolci Presenze del Viandante seguono l'Ombra in questo Silenzio popolato di Assenza.

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- a cura di Giovanni Pititto
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