Il conferimento del beneficio e la sua perdita

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I canoni 1431-1447 (Cap. III – De beneficiorum collatione) disciplinavano una delle modalità di conferimento dell’ufficio ecclesiastico che si rendeva necessaria entro sei mesi da quando, per il venir meno del suo titolare, esso diventava vacante42.

Va premesso che il Codice conosceva quattro modi di conferimento dell’ufficio (cfr. canone 148 § 1): provisio officii ecclesiastici fit vel per liberam collationem a legitimo Superiore, vel per eius institutionem, si praecesserit praesentatio a patrono aut nominatio, vel per eius confirmationem aut admissionem, si praecesserit electio aut postulatio, vel tandem per simplicem electionem et electi acceptationem, si electio non egeat confirmatione.

Di tali forme di «provvista canonica», che era la locuzione tecnica con cui si indicava propriamente il conferimento di un ufficio, il § 2 del canone 148 specificava che l’institutio era regolata dalle norme sul diritto di patronato, mentre l’electio, la confirmatio e l’admissio trovavano la propria disciplina ai canoni 160-178. La libera collatio era contemplata sia nelle norme sugli uffici (cfr. canoni 152-159) sia nelle norme sui benefici (cfr. canoni 1431-1447).

La nomina da parte del legittimo superiore, compiuta liberamente e senza l’intervento da parte di alcuno, si definiva libera collazione; infatti la provvista veniva distinta in libera, se effettuata per libera collazione e necessaria, se l’autorità ecclesiastica era vincolata dalle proposte di un’altra persona (ad es. il patrono) o di un collegio, nel caso dell’electio.

Il Romano Pontefice, in virtù della suprema potestà giurisdizionale, aveva il diritto di conferire i benefici in tutta la Chiesa e di riservarsene ovunque il conferimento in via esclusiva (cfr. canone 1431); la competenza della Sede Apostolica era concorrente con quella dell’Ordinario del luogo per quanto riguardava i benefici diocesani e si sostituiva a quella dell’Ordinario, per diritto di devoluzione, qualora questi non avesse provveduto al conferimento entro sei mesi dalla notizia certa della vacanza (cfr. canone 1432).

Il canone 1435 enumerava le categorie di benefici il cui conferimento era riservato alla Santa Sede e che non potevano pertanto essere conferiti validamente da alcun’altra autorità ecclesiastica.

La competenza dei cardinali riguardava la provvista dei benefici vacanti nell’ambito del loro titolo o della propria diaconia, salvo il diritto della Santa Sede. Gli Ordinari locali, salvo sempre il diritto della Santa Sede per competenza, per riserva e per devoluzione, avevano titolo giuridico a conferire i benefici nel loro territorio, mentre il vicario generale non poteva fare provviste se non con mandato speciale (cfr. canone 152).

Il canone 1437 disponeva infine che nessuno potesse conferire a se stesso un beneficio né potessero conferirsi due uffici incompatibili, che non potessero cioè essere adempiuti dalla stessa persona (cfr. canone 156). Come precisava il canone 1439 § 2, erano incompatibili tra loro anche due benefici di cui uno fosse sufficiente ad honestam sustentationem del beneficiario.

La forma scritta era richiesta ad validitatem (canone 159: «cuiuslibet officii provisio scripto consignetur») e, perché la provvista fosse efficace, occorreva l’accettazione espressa del beneficiario (cfr. canone 1436).

Tra le norme dedicate alla validità del conferimento ricordiamo qui che era necessario un esame preliminare per accertare l’idoneità della persona prescelta; tale persona doveva essere dotata delle qualità richieste per quel determinato ufficio dal diritto o dall’atto di fondazione del beneficio, altrimenti la provvista era nulla o poteva essere dichiarata nulla (cfr. canone 153); soltanto ai sacerdoti poteva essere conferito un beneficio con cura d’anime (cfr. canone 154); i benefici secolari potevano essere conferiti soltanto a chierici secolari, quelli religiosi soltanto a chierici appartenenti all’ordine a cui i benefici erano annessi (cfr. canone 1442).

Il canone 1438 stabiliva che tutti i benefici secolari dovevano essere conferiti a vita del beneficiario, salvo che disponessero diversamente l’atto di fondazione del beneficio, una consuetudine immemorabile o uno speciale indulto43. I benefici dovevano essere conferiti senza diminuzioni, salvo il caso delle pensioni di cui al canone 1429, e senza simonia cioè senza riduzione dei redditi ad essi relativi, senza compensi o pagamenti da parte dell’investito al collatore, al patrono o ad altri (cfr. canone 1441).

L’institutio, previa presentazione del patrono, era una forma di conferimento dell’ufficio che rientrava tra i privilegi riconosciuti per diritto di patronato ai fondatori cattolici di una chiesa, una cappella o un beneficio. Lo ius patronatus si trasmetteva anche ai successori (cfr. canone 1448). Per il conferimento del beneficio, il patrono o i suoi aventi causa avevano quindi il diritto di indicare alla competente autorità ecclesiastica un chierico che fosse in possesso di tutti i requisiti previsti per l’ufficio vacante.

Poiché il Codice vietava per l’avvenire la costituzione di diritti di patronato ed esortava gli Ordinari del luogo a far venir meno quelli esistenti chiedendone la rinuncia ai titolari (cfr. canoni 1450-1451), non ci pare necessario dilungarci nell’analisi dei canoni 1448-1471, che costituiscono appunto il Capitolo IV De iure patronatus.

Delle altre forme di provvista (elezione, conferma o ammissione) non diremo oltre, se non che, anche in questi casi, il conferimento dell’ufficio comportava la preposizione al beneficio.

Il possesso del beneficio veniva acquistato mediante un apposito atto di consegna che ad validitatem doveva essere compiuto dalla competente autorità ecclesiastica e seguiva le forme prescritte dal diritto locale o dalla consuetudine (cfr. canone 1443); nel caso di benefici non concistoriali, la missio in possessionem competeva all’Ordinario del luogo che poteva affidarla anche ad un suo delegato. Per quanto riguardava il titolare dell’ufficio egli poteva incaricare un proprio procuratore, purché munito di mandato speciale (cfr. canone 1445); la consegna o institutio corporalis poteva essere evitata solo mediante dispensa scritta dell’Ordinario del luogo (cfr. canone 1444 § 1).

Il godimento dei frutti del beneficio, come di ogni altro diritto temporale o spirituale annesso al beneficio, s’iniziava con la presa di possesso validamente eseguita; gravi sanzioni erano previste dal canone 2394 per chi si immetteva nel possesso di propria autorità, senza seguire il modo stabilito dalla competente autorità ecclesiastica. La ratio di questo istituto stava nell’esigenza di fissare con certezza il termine a quo, rispetto a cui il beneficiario poteva legittimamente esercitare i propri diritti44.

Basilica Papale di San Pietro in Vaticano

Basilica Papale di San Pietro in Vaticano (Photo credit: CyberMacs)

Dal momento della immissione nel possesso decorrevano infatti a vantaggio del chierico i termini della prescrizione introdotta dal canone 1446 per l’ipotesi che il titolo d’ordinazione presentasse dei vizi; la prova del pacifico possesso di buona fede per un triennio ininterrotto sanava il vizio del titolo originario, purché esso non fosse simoniaco, e costituiva valido titolo d’acquisizione del beneficio (beneficium ex legitima praescriptione obtinet [canone 1446]).

Sempre in tema di possesso, il canone 1447 riconosceva la legittimazione all’esercizio dell’actio petitoria contro chi aveva il pacifico possesso di un beneficio a colui che affermava di esserne il titolare; del pari, il possessore di un beneficio che si considerava illegittimamente privato di esso poteva esercitare l’azione possessoria per ottenere la reintegrazione nel possesso.

La perdita dell’ufficio comportava – com’è logico – anche la perdita del beneficio. In materia di benefici, ai canoni 1484-1488, il Codice faceva espresso riferimento soltanto ai due casi della rinuncia e della permuta, mentre per la privazione, la rimozione ed il trasferimento dall’ufficio valeva il rinvio del canone 1413 § 2 alla disciplina dettata in tema di uffici dai canoni 183-195.

Tutti i beneficiari potevano rinunciare al beneficio, ma l’Ordinario del luogo non poteva accettare tale rinuncia se non gli risultava che il chierico avesse da altra fonte quanto necessario ad honestam sustentationem (canone 1484). Se il titolo dell’ordinazione fu il beneficio, a norma del canone 1485, era necessario farne espressa menzione nella rinuncia ed indicare il titolo sostitutivo. Queste norme erano dettate da un’evidente finalità di tutela del clero che ispirava anche il canone 1486, secondo cui la rinuncia non poteva farsi a favore di altri né poteva essere subordinata a condizioni relative alla provvista del beneficio o all’erogazione dei suoi redditi. L’Ordinario del luogo poteva accettare una rinuncia in favore d’altri soltanto come mezzo di composizione tra due contendenti rispetto ad un beneficio litigioso.

Il canone 1487 ammetteva la liceità della permuta di due benefici, fissandone rigidamente le condizioni; ma val bene ricordare che era soltanto con il consenso dell’autorità ecclesiastica competente che la rinuncia unilaterale e reciproca dei singoli beneficiari produceva l’effetto di trasferire i benefici permutati; se così non fosse stato, avremmo avuto una rinuncia in favore di altri vietata dalla legge.

42 «Un beneficio non può essere strutturalmente concepito senza un titolare, senza una persona fisica che lo sostenga; né può stare sempre senza un titolare, perché l’ente è inerte e resta quiescente; per sua natura è perpetuo ma potrebbe venire estinto per soppressione o per prescrizione centenaria (c. 102 § 1)» (G. Forchielli, «Beneficio ecclesiastico», 317).

43 «In perpetuum, sive ad vitam clerici, in titulum conferenda sunt beneficia saecularia […]. Quae concessio in titulum perpetuum non est necessaria in omnibus officiis et vel ipsum officium paroeciale, quod plerumque habet adnexam rationem beneficii, potest quoad certas paroecias esse coniunctum cum amovibilitate (c. 454 § 2); multo magis id accidit in officiis regularium» (F.X. Wernz – P. Vidal, Ius canonicum, II, 284).

44 M. Petroncelli spiega che: «la provvista è perfetta anche senza la immissione del possesso, in quanto l’ecclesiastico col secondo atto [l’accettazione] è già titolare di un plenum ius in re nei riguardi del beneficio; la immissione nel possesso così non può aumentare il suo diritto ma solo permettergli di compiere quelle funzioni di cui è titolare» (M. Petroncelli, Diritto Canonico, 146-147).