domenica 24 maggio 2020

1287. Costanza di Svevia, regina d'Aragona e di Sicilia.


 

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 Costanza di Svevia, regina d'Aragona e di Sicilia
di Ingeborg Walter - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 30 (1984)

COSTANZA di Svevia, regina d'Aragona e di Sicilia. - Nacque tra il 1249 e il 1250, prima comunque della morte dell'imperatore Federico II suo nonno (13 dic. 1250), come afferma espressamente Saba Malaspina (lib. II, c. 6), da Manfredi, figlio naturale di Federico II e da Beatrice di Savoia, che il giovane principe aveva sposato tra la fine del 1248 e l'inizio del 1249. Si ignora dove nascesse, forse in uno dei sontuosi castelli pugliesi dove l'imperatore amava risiedere nell'ultimo periodo della sua vita.

Sebbene fosse soltanto una principessa di secondo rango, sulla quale ricadeva anche la macchia della nascita illegittima del padre, le fu imposto un nome carico di significato: quello della bisnonna normanna, figlia di Ruggero II e moglie dell'imperatore Enrico VI tramite la quale il Regno di Sicilia era passato alla dinastia sveva; un nome che peraltro aveva portato fortuna (relativa per dire la verità, perché nel corso del suo matrimonio ebbe a subire umiliazioni di ogni genere) alla zia omonima, sorella del padre, la quale aveva sposato l'imperatore greco Giovanni Vatatzes. E come la bisnonna aveva costituito l'anello dinastico che aveva reso possibile l'acquisto della Sicilia da parte degli Svevi, così C. avrebbe permesso agli Aragonesi di assumere l'eredità sveva nell'Italia meridionale. Come nutrice di C. fu scelta una giovane nobildonna siciliana, Bella d'Amico, moglie di un piccolo feudatario calabrese, che insieme a C. allattava il proprio figlio Ruggiero di Lauria, più tardi uno dei più famosi ammiragli del tempo. Bella rimase a fianco di C. finché visse e le fece da madre a confidente dopo la morte di Beatrice di Savoia, avvenuta verso il 1258. Nient'altro si sa della prima infanzia di C. che coincise con il periodo particolarmente agitato seguito alla morte dell'imperatore. Manfredi, padre di C., era stato designato nel testamento imperiale reggente del Regno di Sicilia per il legittimo erede Corrado IV, suo fratellastro, ancora in Germania; ma dopo la sua morte il 21 maggio 1254 a Lavello, il principe di Taranto (era questo il titolo assegnatogli nel testamento paterno) ambiva egli stesso alla corona, probabilmente nella consapevolezza che solo così il Regno potesse restare agli Svevi. È allora, dopo la rottura definitiva di Manfredi con Innocenzo IV, che sentiamo parlare per la prima volta di C., come oggetto di trattative matrimoniali. In cambio del proprio appoggio Bertoldo di Hohenburg, il potente feudatario tedesco trapiantato nel Regno già al tempo di Federico II e nominato da Corrado IV reggente in Sicilia per il figlio Corradino, chiese la sua mano per il nipote Ganarro. Tuttavia, il rapido consolidarsi della propria posizione permise a Manfredi di rifiutare la proposta e di sbarazzarsi di lì a poco di un avversario pericoloso. Con la sua incoronazione a re di Sicilia nell'agosto del 1258 si aprirono a C. ben altre prospettive matrimoniali.

Essa era rimasta l'unica figlia dei suoi genitori e sua madre era morta poco prima o immediatamente dopo l'avvento al trono di Manfredi. Poteva essere quindi considerata, con buone ragioni, l'erede del Regno, se si passava sopra i diritti del piccolo figlio di Corrado IV, che veniva allevato nella lontana Germania. Per Manfredi C. costituiva dunque un pegno importante per conquistarsi degli alleati e per ottenere un riconoscimento internazionale del suo Regno, sul quale continuava a gravare l'ombra della usurpazione, tanto più che il Papato gli negava la sua sanzione e lo avversava furiosamente; si trattava di trovare un marito che offrisse garanzie di questo tipo. La scelta cadde sul re d'Aragona al quale Manfredi offrì la mano di C. per il primogenito ed crede al trono Pietro. Interessi comuni facilitarono l'accordo: proprio allora il conte di Provenza Carlo d'Angiò, antagonista degli Aragonesi nella Francia meridionale, al quale il papa già nel 1252 aveva offerto la corona siciliana, fece le sue prime conquiste nell'Italia settentrionale. Inoltre Alfonso X di Castiglia, l'aspirante alla corona imperiale, preoccupava sia l'Aragonese sia Manfredi.

Non si conoscono le fasi delle trattative che il 28 luglio 1260 portarono alla firma degli accordi matrimoniali da parte degli ambasciatori di Manfredi a Barcellona, Giraldo de Porta, Maior de Iovenacio, lacopo Mustacci, socii del re, e del magister Stefano da Monopoli, giudice della Magna Curia. Manfredi si impegnava di dare alla figlia una dote di 50.000 once d'oro, pagabili in oro, argento e pietre preziose; le nozze si dovevano celebrare prima del 10 maggio 1261 a Montpellier. Da parte sua l'infante Pietro promise di trattare C. come una regina, e di restituire a Manfredi la dote se C. fosse morta senza figli. Come dotario sarebbero stati assegnati a C. la città di Girona e il castello di Cottliure. Nel caso che Pietro le fosse premorto, C. avrebbe esercitato la reggenza fino al ventesimo anno dei figli.

Difficoltà di vario genere ritardarono tuttavia la celebrazione delle nozze. Un ostacolo non trascurabile era costituito dalla dote: per Manfredi non era tanto facile mettere insieme entro breve tempo una somma così cospicua. Le tasse gravose imposte a tale scopo provocarono l'aperto malumore della popolazione. Ramon Gaucelm, signore di Lunel, che nel settembre 1260 fu mandato alla corte siciliana, tornò a mani vuote. Può darsi che anche il nuovo matrimonio di Manfredi con Elena di Epiro, che poteva ledere i diritti di C. se ne fosse nato un erede di sesso maschile, suscitasse qualche perplessità negli Aragonesi. Nell'aprile del 1261 si trasferì a Napoli, dove fu accolto con tutti gli onori, il figlio naturale di Giacomo I, Ferran Xancis, con l'incarico di condurre C. in Spagna. Ma il principe dovette aspettare parecchio tempo prima che gli fosse consegnata la sposa.

Nel frattempo la notizia del matrimonio tra la figlia dello scomunicato re di Sicilia e l'crede al trono aragonese aveva provocato reazioni violente anche sul piano internazionale. Alfonso X di Castiglia, che Giacomo I aveva informato personalmente, espresse il suo aperto dissenso. Né era possibile ottenere il consenso della Curia romana, benché Giacomo a tale proposito vi avesse mandato ben due ambascerie: nel 1261 il vescovo di Girona e nel 1262 il maestro dei templari, Guglielmo de Pontons. Il 26 apr. 1262 Urbano IV lo invitò a desistere dal progetto per non disonorare la sua casa. Altre difficoltà venivano dalla Francia, e per non fare fallire il matrimonio concordato di sua figlia Isabella con l'erede francese, Giacomo dovette promettere a Luigi IX di non aiutare Manfredi nella lotta contro il Papato e di non sostenere il nobile provenzale ribelle Bonifacio di Castellane contro Carlo d'Angiò (6 luglio 1262).

Ma Giacomo non desistette dai suoi piani. Il 13 giugno 1262 furono celebrate a Montpellier, nella chiesa di S.te Marie des Tables, le nozze tra C. e Pietro d'Aragona, di una diecina d'anni più vecchio della giovanissima principessa. Avevano accompagnato C. nella Francia meridionale il conte Bonifacio d'Anglano, zio del padre, Riccardo Filangieri e Roberto de Morra, nonché la nutrice Bella e alcuni giovani nobili coetanei di C. come Ruggiero e Margherita di Lauria, figli di Bella, Corrado e Manfredi Lancia, lontani cugini della principessa, che sarebbero rimasti con lei in Aragona ed educati a corte. Il giorno del matrimonio Pietro concesse a C., come aveva promesso, Girona e Cottliure come dotario, mentre Bonifacio d'Anglano consegnò la metà della dote pattuita.

Non dovette essere facile per C., cresciuta nel noto sfarzo dei palazzi e dei castelli paterni, adattarsi al clima austero della corte aragonese. Il dislivello era evidente. Assai indicativo, a questo proposito, il racconto secondo il quale Elena di Epiro, la giovane matrigna di C., visti gli ambasciatori aragonesi venuti a Napoli così male in arnese, si era opposta alle nozze della figliastra. Ma sembra che Manfredi avesse posto precise condizioni per assicurare alla figlia uno stile di vita conforme alle sue abitudini, garantendo in cambio i suoi diritti alla successione in Sicilia. Dai libri di conti della corte degli infanti risulta infatti che il re e l'infante fecero tutto il possibile per soddisfare le esigenze di Costanza. Sono registrate molte spese per prodotti voluttuari e per oggetti di lusso (frutta, stoffe preziose, perle, penne, legna per riscaldare stanze ed acqua ecc.). Ben presto le entrate del dotario non bastarono più a fronteggiare tutte queste spese. Già nel 1263, al posto di Girona e di Cottliure, fu assegnata a C. una pensione annua di 30.000 soldi di reali di Valencia, che anch'essi si rivelarono insufficienti.

Ma c'era di più: C. non solo fu trattata come una regina, ma ebbe anche il titolo di regina che non le spettava di sicuro. Ma, se da un lato l'attribuzione del titolo regale esprimeva i riguardi particolari che gli Aragonesi si erano impegnati ad usare nei confronti di C., lo stesso titolo poteva anche servire a sottolineare i diritti di C. alla successione in Sicilia, soprattutto quando la loro realizzazione sembrava sempre più lontana.

Ma se C. riuscì ad introdurre nella corte uno stile di vita più raffinato, non poté invece introdurvi la lingua materna e la cultura letteraria e filosofica che aveva contraddistinto le corti del nonno e del padre. In verità nulla sappiamo dell'istruzione ricevuta da C. in patria. È noto invece che il suo seguito di giovani nobili italiani, e verosimilmente anche C. stessa, venivano scrupolosamente istruiti nella lingua catalana. Ruggiero di Lauria, fratello di latte di C., si sentiva ed era considerato, non a torto, un cavaliere catalano.

Dopo la morte di Manfredi nella battaglia di Benevento (26 febbr. 1266), dove combattevano anche alcuni contingenti catalani, e la conquista del Regno di Sicilia da parte di Carlo d'Angiò, la corte di C. e di Pietro diventò un centro di raccolta per gli esuli ghibellini italiani. Vi trovarono rifugio altri lontani parenti di C. fra i quali Bertrando, Guglielmo e Alberto da Canelli, piemontesi, e anche sua zia Costanza, ex imperatrice di Bisanzio che era sfuggita alla cattura angioina; infine, tra il 1274 e il 1275, Giovanni da Procida, medico di Federico II e abile politico, che avrebbe avuto una parte importante nella politica siciliana di Pietro d'Aragona. Tutti guardavano a C. come all'erede legittima degli Svevi nel Mezzogiorno d'Italia; gli esuli del Regno la consideravano addirittura la loro "naturalis domina", cioè la loro signora feudale. C. si vide quindi sempre più circondata da italiani. La morte di Corradino sul patibolo a Napoli (1268) aveva ulteriormente rafforzato i suoi diritti. Non pare infatti che dal secondo matrimonio di Manfredi fosse nato un erede maschio. I tre figli maschi di cui si ha notizia erano con tutta probabilità bastardi. Rimaneva solo la figlia Beatrice, tenuta prigioniera da Carlo d'Angiò. Tuttavia è difficile stabilire quale ruolo C. abbia svolto effettivamente. È indubbio che abbia esercitato pressioni sul marito per indurlo a vendicare la morte del padre. La realizzazione dei suoi diritti, affermati anche pubblicamente, continuava comunque ad essere uno degli obiettivi perseguiti con maggiore tenacia dalla politica aragonese.

A parte il dolore per la perdita immatura del padre e la catastrofe della propria famiglia, i vent'anni passati da C. in Aragona, come infante prima, e dopo l'avvento al trono di Pietro nel 1276, come regina, furono certamente i più sereni della sua vita. Con il marito C. era legata da un rapporto di profondo affetto e pare che non esageri il Muntaner quando dice che "james non fo tan gran amor entre marit e muller com entre elles e fo tosttemps". Anche dalle rigide formule cancelleresche delle lettere che Pietro mandò più tardi alla moglie in Sicilia traspare un affetto del tutto sincero. Il primogenito di C., Alfonso, nacque il 4 nov. 1265 a Valencia, il secondogenito Giacomo il 10 ag. 1267, nella stessa città. Nacquero inoltre due altri figli maschi, Federico e Pietro, e due femmine, Isabella e Violante. La prima nel 1281 sposò il re di Portogallo Dionigi e venne proclamata santa, dopo una vita matrimoniale infelice e piena di umiliazioni; Violante nel 1297 andò sposa a Roberto d'Angiò duca di Calabria, com'era stato stabilito nella pace di Anagni che riconsegnava la Sicilia agli Angioini, ma morì già nel 1300.

Solo nel 1282, con la rivolta dei Siciliani contro il dominio angioino, la possibilità di accedere all'eredità diventò per C. una realtà concreta. Alla partenza per Collo nell'Africa settentrionale, da dove sarebbe passato in Sicilia, Pietro nominò C., insieme al primogenito Alfonso, reggente del regno d'Aragona, per il tempo della sua assenza. Ma presto, appena preso possesso dell'isola, chiamò presso di sé la moglie e tre dei suoi figli, Giacomo, Federico e Violante. Già il 28 ott. 1282 mandò in Catalogna una nave per condurli in Sicilia. Quando nella primavera del 1283 C. sbarcò a Trapani, fu accolta calorosamente dalla popolazione come "cela qui era lur dona natural" (Desclot, cap. 103). Il 16 aprile, a Messina, poté riabbracciare il marito, di ritorno dalla vittoriosa campagna in Calabria. Il loro incontro durò poco - appena tre giorni - e fu anche l'ultimo. Pietro sarebbe morto l'11 nov. 1285 in Catalogna, senza aver rivisto C. e il regno appena conquistato. Nel Parlamento celebrato il 19 aprile a Messina, il re, in partenza per Bordeaux, dove avrebbe dovuto misurarsi nel duello con Carlo d'Angiò, affidò a C. e al figlio Giacomo la reggenza, affiancando loro nel governo Giovanni da Procida come cancelliere e Alaimo da Lentini come maestro giustiziere, mentre Ruggiero di Lauria fu nominato ammiraglio di Sicilia e d'Aragona.

Il compito di C. non fu facile. Gli isolani avevano chiamato Pietro d'Aragona perché marito della legittima erede del Regno. Ma è anche vero che la rivolta del Vespro aveva svegliato forti tendenze autonomistiche sia nelle città sia nella nobiltà. Gli uomini che avevano combattuto gli Angioini e costituito la "comunitas iculorum" non erano tanto disposti a sottomettersi di nuovo al potere monarchico e già nel 1283 scoppiò la prima rivolta antiaragonese capeggiata da Guaitieri da Caltagirone. Pietro dal canto suo aveva subito agito con energia: l'amministrazione dei castelli era in mano di catalani e aragonesi ed anche i due vicari generali del Regno "citra et ultra flumen Salsum", Guglielmo Calcerando de Cartellà e Pietro Queralt, nominati prima della partenza del re, erano venuti dalla Spagna. Nel governo centrale l'elemento siciliano era rappresentato solo da Alaimo da Lentini, antico fautore degli Angioini e capitano di Messina al tempo della comunitas, il più autorevole esponente delle aspirazioni particolaristiche siciliane. Pietro pensò bene quindi di raccomandare proprio a lui C. e i figli, come racconta Bartolomeo da Neocastro, attento testimone oculare di quegli anni. Per C. si trattò quindi soprattutto di attenuare le gravi tensioni che la convivenza tra isolani, aragonesi e fuorusciti ghibellini creava necessariamente. La colorita descrizione che Bartolomeo ha lasciato dei difficili rapporti tra C. e Macalda, la moglie di Alaimo da Lentini, illumina bene questa situazione. Secondo il cronista Macalda, donna ambiziosa ed altera, si sarebbe messa in aperto contrasto con C. per invidia, respingendo tutte le manifestazioni di benevolenza della regina nei suoi confronti, e comportandosi come se lei stessa fosse la sovrana. Mentre C., dal canto suo, con grande pazienza avrebbe perdonato a Macalda tutte le offese recatele. Ma forse non fu proprio così, se Alaimo nel 1284 fu chiamato in Catalogna per giustificarsi. Tuttavia è fuori dubbio che proprio in questi primissimi anni della dominazione aragonese in Sicilia la presenza di C. fu un importante fattore di equilibrio, grazie soprattutto al suo carattere amabile e sereno su cui concordano tutti i cronisti.

Ma oltre alle difficoltà interne C. dovette affrontare la guerra contro gli Angioini, mentre, ad aggravare ulteriormente la situazione, s'aggiungeva l'interdetto lanciato contro la Sicilia da Martino IV che doveva risultare particolarmente gravoso per C., donna profondamente religiosa. Pare che C. si sia interessata personalmente agli armamenti. Ma quando nel 1284 Ruggiero di Lauria riuscì a catturare l'erede al trono angioino, Carlo principe di Salerno, e a portarlo a Messina, fu proprio C. a sottrarlo al linciaggio della folla. Il suo gesto fu tanto più apprezzato in quanto dimostrava la generosità della regina che non aveva voluto ripagare la morte del padre con un'altra morte. Nello stesso 1284 C. appoggiò anche la rivolta di Corrado d'Antiochia suo parente e di altri nobili abruzzesi. Racconta Saba Malaspina (lib. X, cap. 24) della cattura a Terracina di alcuni emissari siciliani, portatori di lettere di C. ai ribelli.

Nella fortunata spedizione nel golfo di Napoli il Lauria aveva anche potuto liberare la sorellastra di C., Beatrice, figlia di Manfredi e di Elena di Epiro. C. si preoccupò con grande sollecitudine della sua sorte e combinò il suo matrimonio con Manfredi di Saluzzo, celebrato nell'ottobre dei 1286 a Messina. Ma al momento delle nozze Beatrice, cui C. aveva dato una dote di 8.000 once d'oro, rinunciò ufficialmente a tutti i suoi eventuali diritti sul Regno di Sicilia.

Dopo la morte nel 1285 del marito, che aveva continuato dalla Spagna a dirigere gli affari siciliani, come dimostra la fitta corrispondenza con la moglie, C. affiancò nel governo il figlio Giacomo, diciottenne, incoronato re di Sicilia nel febbraio del 1286, dato che gli accordi matrimoniali del lontano 1260 le avevano assegnato la reggenza fino al compimento del ventesimo anno di età dei figli. Ma pare che ben presto si sia ritirata dalla vita pubblica. Nel 1290 mandò truppe a San Giovanni d'Acri per la difesa della città "pro anima vivi sui et pro subsidio Terre Sancte", che tuttavia furono rimandati indietro perché i Siciliani erano scomunicati e sottoposti all'interdetto. La morte nel 1291 del primogenito Alfonso, che era successo al padre sul trono d'Aragona e che C. non aveva più rivisto da quando aveva lasciato la Catalogna, la indusse a ritirarsi definitivamente e ad entrare nel monastero delle clarisse da lei fondato a Messina.

Prendeva così in C. il sopravvento un tratto della sua personalità che si era maturato nel clima della corte aragonese permeato da un profondo senso religioso. Le idee di s. Francesco vi avevano trovato un terreno fertile, come dimostra la presenza a corte di Ramon Lull e di Arnaldo di Villanova. Pietro stesso, in punto di morte, aveva chiamato un frate minore per confessarsi. C., dal canto suo, già verso il 1265 aveva fondato e dotato nella piccola città di Huesca, regalata da Giacomo I al figlio al momento delle sue nozze con C., un monastero di clarisse, che sottopose alla sua speciale protezione. Altre manifestazioni della sua religiosità sono le visite ai santuari famosi in occasioni particolarmente importanti della sua vita, come nel 1267 dopo la nascita di Giacomo, nel 1283 prima della partenza per la Sicilia. Frequenti anche le elargizioni a favore di religiosi e di monasteri. Tutto ciò contribuiva a rendere il suo ritiro - una scelta quasi obbligata per una vedova, madre di figli ormai maggiorenni - particolarmente drastico. Ma mentre nel figlio Federico queste stesse tendenze religiose assumevano il colore dell'eresia (fu protettore e fautore degli spirituali), C. rimase sempre devota all'autorità pontificia.

Questa sua sostanziale sottomissione ai dettami della Chiesa dovette causarle non pochi scrupoli di coscienza se si considera che il Papato aveva sempre denunciato come usurpato il dominio aragonese in Sicilia e in conseguenza inflitto la scomunica ai regnanti. Il permesso di potersi scegliere un confessore che la assolvesse quotidianamente dai suoi peccati nonostante l'interdetto che gravava sull'isola, ottenuto nel 1292 dal cardinale vescovo di Porto Matteo, dovette quindi rivestire per lei particolare importanza. Quando poi nel 1295 Giacomo II venne ad un accordo con Bonifacio VIII, il cui prezzo era la cessione della Sicilia agli Angioini, C. non se la sentì di rimanere a fianco del figlio Federico, il quale, in dispregio dei patti, decise di difendere l'eredità materna, e si fece incoronare re di Sicilia nel marzo del 1296. Sottoposta a precise pressioni da parte degli emissari pontifici, il vescovo di Urgel e Bonifacio da Calamandrana, che le ricordavano che non poteva restare in Sicilia "sine peccato", accettò di abbandonare per sempre il suo regno. Accompagnata da Giovanni da Procida e da Ruggiero di Lauria, i due uomini che le erano stati particolarmente vicini durante il suo governo in Sicilia, nel febbraio del 1297 si trasferì a Roma, dove furono celebrate le nozze della figlia più giovane Violante con Roberto d'Angiò. Ormai completamente assorbita dagli interessi religiosi, C. approfittò del soggiorno romano per visitare chiese e basiliche e se dobbiamo credere al Muntaner "anava tot dia cercant les perdonances, axi com aquella dona qui era la millor chrestiana quen aquel temps sabes hom el mon..." (cap. 235). Ma, nonostante papa Bonifacio VIII si fosse impegnato di provvedere al suo sostentamento a Roma, C. ben presto fu costretta a lamentarsi con il figlio Giacomo delle difficoltà economiche in cui si trovava. Nel 1299 tornò in Catalogna.

Morì a Barcellona l'8 apr. 1300 e fu sepolta nella chiesa del locale convento dei francescani, da dove solo nel 1852 le sue spoglie furono traslate in una cappella del chiostro della cattedrale. La Chiesa la proclamò beata.

Nel testamento, dettato il 1º febbr. 1299, aveva istituito tra l'altro due ospedali per i poveri, a Barcellona e a Valencia. Aveva però sottoposto il piccolo legato a favore del figlio Federico al vincolo che egli vi potesse accedere solo dopo aver fatto la pace con la Chiesa, rispettando così una clausola del trattato di Anagni del 1295 tra Giacomo II d'Aragona e Carlo II d'Angiò.

Il suo sigillo la rappresenta all'impiedi, in mezzo a un tempietto gotico, vestita con tunica e manto e con la corona in testa. Nella mano destra tiene lo scettro sormontato dal giglio, nella sinistra il pomo sormontato dalla croce. Dante ricorda C. nel terzo canto del Purgatorio, in occasione del suo incontro con Manfredi, il quale prega il poeta di portare la notizia della sua salvezza alla sua "bella" e "buona" figlia, "genitrice dell'onor di Cicilia e d'Aragona" (vv. 127-129, 143).

Fonti e Bibl.: Sabac Malaspinae Rerum Sicularum historia, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script., VIII, Mediolani 1726, lib. II, cap. 6; Nicolai Specialis Historia Sicula, in R. Gregorio, Bibl. script. qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, I, Panormi 1791. lib. III, capp. XX s.; Chronicon Siculum ab anno 820 usque ad annum 1343, ibid., II, Panormi 1792, capp. XLII, LVI; Nicolai de Jamsilla Gesta Frederici Il imper. eiusque filiorum Conradi et Manfredi regum, in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napol., II, Napoli 1848, p. 148; J. F. Böhmer, Regesta Imperii, V, a cura di F. Ficker-E. Winkelmann, Innsbruck 1881-1901, ad Indicem;R. Muntaner, Crónica, a cura di J. Coroleu, Barcelona 1886, passim;H. Finke, Aus den Tagen Bonifaz VIII., Münster i. W. 1902, pp. XXXVI, CXXVI; Acta Aragon., a cura di H. Finke, I-II, Berlin-Leipzig 1908, ad Indicem; Cod. dipl. dei re aragonesi di Sicilia, a cura di G. La Mantia, I, Palermo 1917, ad Indicem; II, a cura di A. de Stefano - F. Giunta, Palermo 1956, ad Indicem; Bartholomaei de Neocastro Historia Sicula, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XIII, 3, a cura di F. Paladino, ad Indicem; L.Wadding, Annales Minorum, VI, Ad Claras Aquas 1931, ad Ind.; Docum. selecta mutuas civitatis Arago-Cathalaunicae et Ecclesiae relationes illustrantia, a cura di J. Vincke, Barcinonae 1936, n. 81, p. 44; Bernat Desclot, Crónica, a cura di M. Coll i Alentorn, Barcelona 1949-51, ad Indicem; V.Salavert, El tratado de Anagny y la expansión mediterranea de la corona de Aragón, in Estudios de edad media de la Corona de Aragón, V (1952), XXXVI, pp. 343 ss.; A. Ubieto Arteta, Documentos para el estudio de la historia aragonesa de los siglos XIII y XIV: Monasterio de Santa Clara de Huesca, ibid., VIII (1967), pp. 548, 576 s.; Acta Siculo-Aragonensia, I, 1, a cura di F. Giunta e altri. Palermo 1972, ad Indicem;G. Del Giudice, La famiglia di re Manfredi, Napoli 1896, pp. 29 s.; D. Girona, Mullerament del Infant En Pere de Cathalunya ab Madona Constanca de Sicilia, in Congrés d'hist. de la corona d'Aragó dedicat al rey en Jaume I y a la seua época, I, Barcelona 1909, pp. 232-299; P. Ambrosio de Saldes, La Orden franciscana y la casa real de Aragón, in Revista de estudios franciscanos, IV (1910), numero extraordinario, pp. 159 s.; M. Arndt, Studien zur inneren Regierungsgeschichte Manfreds, Heidelberg 1911, ad Indicem;M. van Heuckelum, Spiritualistische Strömungen an den Höfen von Aragon und Anjou während der Höhe des Armutsstreites, Berlin-Leipzig 1912, pp. II s., 16; H. Rohde, Der Kampf um Sizilien in den Jahren 1291-1302, Berlin-Leipzig 1913, pp. 8 s., 46, 58, 87; F. Soldevila, Pere el Gran, I, 1, Barcelona 1952, pp. go-106, 143-175, 212 s.; A. Javierre Mur, Constanza de Sicilia en las cronicas de su tiempo, in Riv. stor. del Mezzogiorno, I, (1966), pp. 172-186; P. Knoch, Die letztwilligen Verfügungen König Peters III. von Aragon und die Sizilienfrage, in Deutsches Archiv, XXIV (1968), pp. 83 s.; M. Amari, La guerra del Vespro siciliano, a cura di F. Giunta, Palermo 1969, ad Indicem; H. Wieruszowski, Politics and Culture in Medieval Spain and Italy, Roma 1971, pp. 116 s., 185-222; Bibl. Sanctorum, IV, coll. 254 ss.; Enc. Dantesca, II, pp. 240 s.




1287. Carlo II d'Angiò, re di Sicilia.

Carlo II d'Angiò, re di Sicilia
di August Nitschke - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)


 

Sentimiento Nuevo - Battiato e Alice + Ensemble Symphony Orchestra


CARLO II d'Angiò, re di Sicilia. - Nacque nel 1254 da Carlo I d'Angiò e da Beatrice contessa di Provenza. Nel 1248 era morto, subito dopo la nascita, il primogenito di nome Ludovico, di modo che C. fu l'erede dei domini paterni. Quando nel 1270 Carlo I d'Angiò, che nel 1266 aveva conquistato il Regno di Sicilia, concluse un'alleanza militare con il re Stefano d'Ungheria, fu stabilito tra l'altro che C. avrebbe sposato la figlia del re, Maria. Il giorno di Pentecoste 1272 C., che l'anno precedente era stato così gravemente ammalato che la sua guarigione sembrò un miracolo, e il fratello minore Filippo, in una solenne cerimonia svoltasi a Napoli, furono armati cavalieri. Contemporaneamente il padre investì C. del principato di Salerno, della contea di Lesina e dell'onore di Monte Sant'Angelo.

Già in precedenza, il 15 febbr. 1271, durante l'assenza del padre che si era recato a Roma, C. aveva svolto per la prima volta le funzioni di vicario generale del Regno. Dal marzo fino all'inizio di giugno 1272 ricopri nuovamente questa carica, mentre alla fine del 1275 lo stesso ufficio era stato affidato a un nipote di Carlo I, il conte Roberto di Artois, che lo esercitò fino al marzo 1276. Dal 3 marzo 1276 fino al marzo 1277 fu invece di nuovo C. a ricoprire il vicariato. In questa qualità egli si doveva occupare, come del resto gli altri vicari generali prima di lui, soltanto degli affari correnti; tutti quelli di una qualche importanza erano riservati al re, il quale continuò anche a tenere il proprio registro.

Quando nella primavera del 1282 scoppiò la grande rivolta dei Siciliani contro la dominazione angioina C. si trovava in Provenza; informato dal padre, si recò alla corte del cugino Filippo III di Francia per richiedere rinforzi, ottenuti i quali nell'ottobre fece ritorno nel Regno. Ma padre e figlio si accorsero ben presto di non essere in grado di far fronte all'avanzata di Pietro d'Aragona, il quale, chiamato nell'isola come erede della tradizione sveva essendo marito della figlia di Manfredi, Costanza, nell'agosto 1282 era sbarcato a Trapani e già nell'autunno aveva cominciato l'invasione della Calabria. Da buoni cavalieri, gli Angioini erano abituati a combattere in battaglia, in campo aperto, mentre Pietro, con i suoi fanti catalani, gli almogaveri, si muoveva anche di notte: con questa tattica riuscì ad occupare una località dopo l'altra in Calabria, assalendo spesso anche le carovane che trasportavano il denaro, senza che i Francesi potessero opporre una valida resistenza. Si arrivò infine, fra Carlo e Pietro, alla decisione di risolvere la controversia con un duello che doveva svolgersi a Bordeaux, in territorio inglese. Prima della partenza per la Francia Carlo I il 12 genn. 1283 nominò C. di nuovo vicario generale del Regno, questa volta delegando tutti i poteri al figlio, che d'ora in poi tenne anche i registri. Già il 28 gennaio il principe di Salerno convocava tutti i prelati, conti, baroni e altri feudatari a un Parlamento generale e, con una lettera, invitava contemporaneamente anche le città a mandare quattro rappresentanti ognuna. Il Parlamento si riunì nel marzo nella pianura di San Martino; le consultazioni si svolsero probabilmente separatamente con i tre Corpi invitati, i prelati, la nobiltà e le città: i risultati alla fine furono infatti pubblicati separatamente per ognuno dei tre Corpi in una cedula.

Aveva contribuito a preparare il Parlamento anche il cardinale Gerardo di Sabina, il quale il 5 giugno 1282 era stato nominato legato nel Regno di Sicilia; non partecipò personalmente ma sicuramente erano state concordate con lui le clausole riguardanti il clero. I regnicoli furono infatti tenuti a pagare la decima alle chiese, mentre il clero non era sottoposto alla giurisdizione temporale, tranne che in questioni feudali: il diritto di asilo delle chiese veniva riconfermato; ai funzionari fu proibito di acquartierarsi nelle case degli ecclesiastici senza il loro consenso, e anche in questo caso era proibita la celebrazione di processi criminali; le elezioni ecclesiastiche, nel caso che non esistessero precisi diritti di patronato, venivano protette dalle interferenze dei laici; l'esenzione fiscale del clero e gli antichi privilegi della Chiesa furono riconfermati. Quanto al sistema fiscale fu stabilito che tutta la materia doveva essere riorganizzata secondo i principi validi al tempo di Guglielmo II. Alla nobiltà e ai feudatari fu permesso di contrarre matrimonio, senza consenso del re, tranne nel casi in cui venivano dati in dote dei feudi; alla nobiltà fu riconfermato inoltre il diritto di essere giudicata dai suoi pari e il servizio militare cui era obbligata fu regolato in modo a lei favorevole. Anche ai cittadini furono concessi il diritto di poter liberamente contrarre matrimonio e garanzie contro gli abusi dei funzionari. Per il conio della moneta furono stabilite norme precise. Le tasse per il rilascio di documenti furono fissate in base al tipo di documento, e fu stabilito inoltre a quali condizioni i regnicoli dovessero contribuire alla costruzione delle navi e alla riparazione dei castelli. I mercati furono tutelati.

Le disposizioni di San Martino solo in pochi punti vanno oltre le leggi più antiche, in vigore già ai tempi di Federico II, ma bisogna tener presente che la maggior parte di esse non era stata rispettata fino ad allora. Fu una novità anche la convocazione del Parlamento: da molti anni non si erano più riunite assemblee del genere, e, se erano state convocate, la loro influenza era stata pressoché nulla. Solo a partire dal Parlamento di San Martino il re cominciò a trattare abitualmente con i rappresentanti del clero, della nobiltà e delle città del Regno il quale, governato in modo centralizzato dagli Svevi e da Carlo I d'Angiò, ricevette ora una specie di costituzione corporativa.

Nella storiografia è stata sostenuta a lungo la tesi che C. avesse concordato queste misure con il padre e che egli non fosse stato altro che un esecutore fedele dei desideri di Carlo I. Ma visto che alcune leggi andavano ben oltre le precedenti disposizioni che erano state emanate dal sovrano, il quale del resto neanche più tardi fu disposto a collaborare con i rappresentanti del Regno, si è stati poi invece indotti a pensare che C. per la prima volta abbia agito in modo autonomo. è stato rilevato che un suo documento del 13 genn. 1295, nel quale egli fa esplicito riferimento alla sua attività di vicario generale e al Parlamento di San Martino, dicendo di averne promulgato i capitoli per amore dei sudditi e per sollievo delle loro sofferenze e della loro oppressione, "ultra paternam nobis traditam potestatem", cioè andando oltre le disposizioni dategli dal padre. I capitoli di San Martino sono dunque la prima testimonianza di una politica indipendente, per lo meno nei confronti del Padre. è fuori di dubbio però che C. abbia agito con l'appoggio dei suoi consiglieri, Pietro conte di Alençon, suo cugino, Ottone conte di Borgogna, Giovanni di Montfort conte di Squillace, Adenolfo d'Aquino conte di Acerra, ed è molto propabile che anche il legato pontificio Gerardo vescovo di Sabina lo abbia spinto in questa direzione.

Due mesi dopo la fine del Parlamento C., con un'azione di sorpresa, fece arrestare i più alti ufficiali finanziari del Regno. L'ondata di arresti ebbe inizio il 17 giugno, festa del Corpus Domini, ed era conclusa già il 22 dello stesso mese; il procedimento, preparato a quanto pare da tempo, giunse del tutto inatteso per quelli che ne furono colpiti: infatti fino al 16 giugno C. aveva avuto con loro rapporti diretti. Il 22 giugno, con una lettera circolare indirizzata alle città del Regno, giustificò l'operato. Era, come diceva, sua intenzione estirpare i vizi propagatisi a causa dell'immunità goduta dai colpevoli; alla corte del re erano stati autori di tutto il male, loro che ogni giorno avevano escogitato nuove oppressioni e consigliato altre rappresaglie, e con il loro disprezzo del bene generale avevano provocato la rivolta esplosa nel Regno di Sicilia. Il denaro di cui si erano appropriati - somme ingenti - fu confiscato ed utilizzato per il pagamento e l'approvvigionamento dell'esercito e della flotta. Tre dei più alti funzionari furono condannati alla forca (Angelo della Marra, suo fratello Galgano della Marra e Lorenzo Rufolo), gli altri furono condannati al pagamento di ammende enormi. Tutto questo conferma la supposizione che C. fosse seriamente intenzionato di intervenire a favore delle popolazioni oppresse dal governo del padre. Carlo I infatti, una volta tornato nel Regno, prese le sue distanze dall'azione del figlio, facendo impiccare a sua volta il giudice Tommaso da Brindisi che aveva consigliato a C. la condanna a morte del Rufolo.

L'anno successivo, il 5 giugno 1284, poco prima del ritorno di Carlo I dalla Francia, il principe di Salerno osò attaccare la flotta aragonese comandata da Ruggiero di Lauria che incrociava nel golfo di Napoli; glielo aveva consigliato il conte di Acerra, ma sconsigliato il legato Gerardo di Sabina. Nella battaglia gli Aragonesi impiegarono metodi forse poco cavallereschi, ma che ebbero pieno successo; con sommozzatori aprirono falle nelle navi francesi facendole affondare. C. stesso dovette arrendersi a Ruggiero di Lauria con numerosi nobili del suo seguito. Dopo aver ottenuto la liberazione di Beatrice, cognata di Pietro d'Aragona, tenuta fino ad allora prigioniera a Napoli, l'ammiraglio aragonese fece ritorno a Messina, dove i rappresentanti delle città siciliane chiesero la morte di C. per vendicare la morte di Manfredi e di Corradino. Solo grazie alla mediazione della regina Costanza, moglie di Pietro d'Aragona e figlia di Manfredi, si riuscì a sottrarlo alla furia del popolo e a portarlo nel castello di Cefalù. Dopo la morte di Pietro d'Aragona avvenuta nel novembre 1285 (gli successero i figli Alfonso e Giacomo, il primo in Aragona e il secondo in Sicilia), C. fu trasferito in Catalogna, ma, prima della partenza, rinunciò ai suoi diritti sull'isola di Sicilia e sul territorio dell'arcidiocesi di Reggio; ancora nel febbraio 1287, mentre era prigioniero in Spagna, sollecitò personalmente papa Onorio IV a rispettare il cosiddetto trattato di Cefalù.

Nel frattempo, il 7 genn. 1285, era morto anche Carlo I d'Angiò, lasciando il Regno senza la guida del legittimo successore. Comunque dopo la morte del re Martino IV, che sarebbe morto anch'egli di lì a poco (28 marzo 1285), aveva assegnato, il 17 sett. 1285, giusto il testamento di Carlo I, la reggenza per il figlio ancora minorenne di C., Carlo Martello, a Roberto di Artois. Il successore di Martino IV, Onorio IV, promulgò costituzioni per l'ordinamento del Regno di Sicilia, che rafforzavano le tendenze corporative del Parlamento generale di San Martino. Ai feudatari venne data piena libertà di contrarre matrimonio con la facoltà di dare in dote anche i feudi, i quali ora diventarono ereditari in linea collaterale fino alla terza generazione; essi inoltre non furono più tenuti a prestare il servizio militare al di fuori del Regno.

Nel frattempo continuò la guerra tra Francesi e Aragonesi, e fu solo grazie alla assidua mediazione del re inglese Edoardo I che nel 1288 fu stipulato ad Oléron un accordo con le clausole seguenti: a C. sarebbe stata accordata la libertà se avesse dato in ostaggio i tre figli maggiori e 50.000 marchi d'argento come garanzia. Doveva inoltre impegnarsi a indurre Carlo di Valois a rinunciare all'Aragona, che gli era stata conferita da Martino IV, e a sollecitare il papa a revocare tutte le pene; gli furono concessi tre anni di tempo per negoziare una pace tra la Chiesa, la Francia e l'Aragona che potesse soddisfare le esigenze degli Aragonesi. Se non fosse riuscito a osservare queste condizioni egli si doveva impegnare a tornare prigioniero. Il re di Francia, Filippo il Bello, impedì subito l'esecuzione del trattato, contro il quale protestò energicamente il 15 marzo 1288 anche papa Niccolò IV. Ma Inglesi e Aragonesi continuarono a negoziare, e venne così concluso il 28 ottobre, a Canfranc, un accordo non molto diverso dal primo. Questa volta anche Edoardo I s'impegnò ad adoperarsi per l'esecuzione del trattato, al quale però Niccolò IV oppose nuovamente il suo rifiuto. Nonostante ciò C. si dichiarò pronto ad accettare le condizioni postegli e fu così liberato dalla prigionia nel novembre del 1288.

In un primo momento si fermò in Francia, sensibilmente disorientato dalla sventura che gli era capitata: chiese infatti ad Alfonso d'Aragona il permesso di intitolarsi re di Sicilia nelle trattative che si era impegnato a condurre, e Alfonso gli rispose il 26 genn. 1289 che non gli sembrava opportuno che assumesse questo titolo, visto che doveva trattare la pace anche con suo fratello Giacomo, il quale usava intitolarsi anch'egli re di Sicilia. Ma la corte francese e il papa spinsero C. a far valere i suoi diritti, e alla fine egli si trasferì in Italia e fu incoronato dal pontefice la Pentecoste del 1289 (29 maggio) nella cattedrale di Rieti, re di Sicilia e di Gerusalemme, insieme alla moglie Maria. Il 12 settembre dello stesso anno Niccolò IV dichiarò illegittimi gli accordi di Oléron e di Canfranc, perché conclusi in stato di necessità, sciogliendo C. II dal giuramento prestato. Ma questi non era affatto d'accordo con questa decisione pontificia, e già ora lo opprimeva il pensiero, di non essere in grado di indurre Carlo di Valois alla rinuncia all'Aragona e il papa a perdonare gli Aragonesi, visto che Niccolò IV faceva predicare nuovamente la crociata contro l'Aragona e più tardi anche contro la Sicilia.

Gli accordi erano stati presi solo tra Alfonso d'Aragona e C. II senza includere Giacomo di Sicilia, il quale in quello stesso periodo fece conquistare dal suo ammiraglio Ruggiero di Lauria gran parte della Calabria. Alla fine del giugno 1289 Giacomo sbarcò presso Gaeta. C., il quale nel frattempo era giunto a Napoli, decise di recarsi anch'egli a Gaeta; il 18 agosto lo troviamo infatti in mezzo alle sue truppe che assediavano i Siciliani. Non approfittò tuttavia della situazione militare abbastanza favorevole per lui, ma concluse con Giacomo una tregua della quale non informò i legati pontifici, tra i quali il futuro papa Bonifacio VIII, che gli serberà rancore per questa sua iniziativa ancora al tempo del suo pontificato.

I grandi sforzi di C. II per giungere alla pace appaiono derivare dai suoi scrupoli religiosi, e soprattutto dalla sua preoccupazione sulla sorte dei figli dati in ostaggio al re d'Aragona.

Il figlio maggiore, Carlo Martello, era nato nel 1271 a Napoli, e già quando aveva solo tre anni era stato concordato dal nonno Carlo I il suo matrimonio con Clemenza, figlia di Rodolfo d'Asburgo, portata nel 1281 in Italia; durante la prigionia del padre aveva soggiornato in Provenza, insieme ai fratelli. In un primo momento era stato destinato ad andare in Catalogna come ostaggio, ma poi venne scambiato con il fratello Raimondo Berengario: si trovava dunque in libertà. Già il 9 luglio del 1289 C. aveva ordinato ai giustizieri del Regno di invitare a Napoli i conti, baroni e rappresentanti delle città per celebrare un Parlamento generale, nel corso del quale avrebbe armato cavaliere il primogenito. Il secondogenito Ludovico, nato nel 1275, si trovava insieme a Roberto, nato nel 1278, e Raimondo Berengario come ostaggio in Catalogna. Tutta la politica di C. II mirava dunque alla liberazione dei figli, alla quale doveva servire anche la tregua di Gaeta.

Da Gaeta C. tornò a Napoli, dove, come stabilito, Carlo Martello fu armato cavaliere e nominato principe di Salerno e signore dell'onore di Monte Sant'Angelo. A Napoli confermò i capitoli di San Martino e cercò di migliorarli aggiungendovi nuove leggi allo scopo di offrire alla popolazioni maggiori garanzie contro gli abusi dei funzionari regi.

Secondo le nuove disposizioni i castellani regi non dovevano più arrogarsi poteri che andassero oltre le loro competenze e ai soldati del presidio veniva proibito di portare armi fuori del castello se non per il servizio della corte. Nessuno poteva essere arrestato senza preciso mandato del re, come non potevano essere sequestrati beni senza l'autorizzazione regia. Ai funzionari era proibito di requisire animali per il proprio uso. Un altro capitolo vietava l'occupazione da parte dei familiari regi degli alloggi assegnati loro dal maresciallo o dal suo sostituto oltre i periodi di presenza della corte contro il volere dei proprietari. Ai giustizieri e agli altri funzionari veniva nuovamente ingiunto di non accettare doni. Inoltre veniva stabilito che il maestro giustiziere e i giudici della Magna Curia si dovevano recare periodicamente nelle singole province, a questo scopo suddivise di nuovo, per indagare sugli abusi dei giustizieri e degli altri funzionari e porvi rimedio. Se c'era necessità di rimuovere dai loro uffici il giustiziere o altri funzionari, il re o il suo vicario doveva essere immediatamente informato per iscritto. Per impedire la corruzione dei giustizieri, giudici e notai furono raddoppiati i loro stipendi, pagati dal Tesoro regio.

Veniva inoltre decisa l'istituzione di due registri dove erano trascritte tutte le proprietà e i loro confini: a tali registri si doveva ricorrere in tutte le controversie riguardanti le proprietà del re, della Chiesa, dei conti e dei baroni. La tortura, usata troppo spesso dai funzionari, era limitata a pochi casi, come il crimine di lesa maestà, il brigantaggio e alcuni delitti meno comuni, e doveva essere applicata solo quando a carico dell'imputato vi fossero indizi sufficienti; venivano regolate anche la procedura da seguire in caso di arresto e di rilascio del carcerato, ed altre materie come i diritti di successione.

Nel complesso, i primi capitoli promulgati da C. II nella sua veste di re dimostrano chiaramente che egli era fermamente deciso a proseguire sulla strada imboccata già a San Martino. Aveva soprattutto l'intenzione di dare alla popolazione garanzie contro gli abusi dell'amministrazione e di punire coloro che si erano resi colpevoli di vessazioni nei confronti dei sudditi, allo scopo di mitigare il peso della dominazione francese. Tuttavia, per fare rispettare le nuove leggi, egli non si sarebbe più dovuto allontanare dal Regno, cosa impossibile finché durava la guerra con Alfonso d'Aragona e Giacomo di Sicilia: per concludere la pace e per liberare i suoi figli era costretto a continuare le sue trattative con il papa, i Francesi e gli Inglesi, doveva cioè abbandonare il suo Regno. Non si sentiva ancora sciolto dal giuramento prestato ad Alfonso per ottenere la sua liberazione, era convinto di dover tornare in prigionia, visto che non era riuscito a concludere la pace: non lo tranquillizzavano neanche le iniziative prese da Niccolò IV. Prima della partenza nominò Carlo Martello suo vicario (settembre 1289) e il cugino Roberto conte di Artois, che più tardi fu sostituito da Giovanni di Montfort conte di Squillace, capitano generale del Regno.

Il 1º nov. 1289 C. II si presentò al colle di Panizar sul confine aragonese, per tornare in prigionia. Ma nessuno lo aspettava. Si fece dunque attestare di avere rispettato le clausole del trattato, e poi si mise in viaggio per Parigi con l'intenzione di tentare ancora una volta di convincere Filippo il Bello e Carlo di Valois a concludere la pace.

Nel 1290 morì Ladislao IV d'Ungheria, l'ultimo re della dinastia degli Arpadi. La sua eredità fu rivendicata da due suoi parenti, da Andrea il Veneziano e da Maria, moglie di C., la quale il 21 settembre 1290 mandò in Ungheria i suoi procuratori per ricevere il giuramento di fedeltà dalla popolazione; intendeva salvaguardare i suoi diritti nell'interesse del figlio maggiore Carlo Martello. Ma anche il re de' Romani Rodolfo d'Asburgo rivendicava diritti sul Regno ungherese in quanto, a suo dire, feudo dell'Impero, e ne investì il figlio Alberto d'Austria. Papa Niccolò IV dal canto suo dichiarava che l'Ungheria apparteneva alla Chiesa romana, visto che la corona era stata mandata agli Ungheresi da Gregorio V, e difendeva i diritti di Carlo Martello.

Nel frattempo C. II fece una nuova proposta a Filippo il Bello: Carlo di Valois avrebbe dovuto sposare una sua figlia, alla quale avrebbe dato in dote le contee di Angiò e di Maine. La proposta alla fine fu accettata e così nel 1291, a Tarascona, si venne alla conclusione di una pace separata tra la Francia e l'Aragona con le clausole seguenti: Alfonso doveva sottomettersi al papa, che l'avrebbe perdonato, e liberare gli ostaggi; Carlo di Valois avrebbe rinunciato alle sue rivendicazioni sull'Aragona in cambio dell'Angiò e del Maine; anche Giacomo di Sicilia si doveva sottomettere al papa. Se si fosse rifiutato, Alfonso non avrebbe più sostenuto né il fratello né i Siciliani. Il negoziato si svolse nel febbraio, ma il 3 giugno 1291 sopravvenne improvvisamente la morte di Alfonso d'Aragona cui successe il fratello Giacomo, e questi tenne unite nelle sue mani la Sicilia e l'Aragona e nominò luogotenente in Sicilia il fratello Federico che vi esercitò il governo insieme con la madre Costanza e l'ammiraglio Ruggiero di Lauria. Giacomo fece subito sapere di essere pronto a negoziare, senza però sentirsi vincolato dagli accordi di Tarascona. C. venne dunque costretto a fare nuove proposte. Giacomo preferì per il momento concludere un'alleanza con la Castiglia impegnandosi a sposare Isabella, figlia di re Sancho. Gli accordi furono ratificati il 28 nov. 1291.

Il 6 genn. 1292 la regina Maria, che in quel momento si trovava insieme con il marito ad Aix-en-Provence, mandò a Napoli un diploma con cui investì il figlio Carlo Martello del regno d'Ungheria. Il 7 febbr. seguente C. informò i prelati, i grandi, i nobili e il pppolo ungherese che la moglie Maria aveva ceduto al figlio Carlo Martello il regno e li invitò a riconoscerlo come loro sovrano. Dal 17 aprile Carlo Martello cominciò a contare gli anni del suo regno in Ungheria.

Per accelerare le trattative, C. si recò di nuovo nelle vicinanze del confine aragonese, e nell'aprile del 1293 si incontrò con Giacomo a Pontoise, discutendo con lui i punti seguenti: Giacomo e Federico d'Aragona, una volta conclusa la pace, dovevano essere sciolti dalla scomunica; Filippo il Bello e Carlo di Valois rinunciavano all'Aragona in cambio della Sicilia, che Giacomo avrebbe restituito agli Angioini, entro il termine massimo di tre anni dalla conclusione della pace; gli ostaggi dovevano invece essere rilasciati subito. Ma tutte queste proposte furono di nuovo messe in discussione nelle trattative successive. Nel dicembre del 1293 C. e Giacomo II si incontrarono nuovamente e furono discussi ancora una volta i vecchi progetti: la Sicilia doveva essere restituita alla Chiesa entro tre anni, e se i Siciliani si fossero opposti all'ordine del papa, Giacomo doveva impegnarsi a muovere loro guerra. Nello stesso tempo fu progettato un legame matrimoniale tra le due famiglie reali. Gli ostaggi dovevano essere liberati subito dopo la conclusione della pace.

In seguito C. cercò di ottenere consensi per questo accordo, fermandosi dal 21 al 29 marzo 1294 a Perugia, dove i cardinali, riuniti in conclave, dichiararono di non essere autorizzati a decidere sulla questione. Si mise allora di nuovo in viaggio e, passando per Sulmona, dove fece visita all'eremita Pietro del Morrone, giunse infine a Napoli. Poco tempo dopo i cardinali elessero papa, con un voto a sorpresa, proprio Pietro del Morrone, che assunse il nome di Celestino V. è molto probabile che C. II abbia influenzato questa scelta, favorevole a lui ma certamente poco conveniente per la Chiesa: il pio eremita, pur disponendo di qualche esperienza di amministrazione, non era minimamente preparato a reggere la Chiesa romana e il Patrimonio.

Dopo l'elezione C. si mise subito in contatto con Celestino V, che non si recò a Roma, ma invitò i cardinali a raggiungerlo all'Aquila, dove si trasferirono anche C. II con il primogenito Carlo Martello. In occasione dell'ingresso del papa in città a dorso di un asino, il re e Carlo Martello gli tennero le redini. Da allora tutte le decisioni del papa furono prese sotto la sua influenza; già il 13 ag. 1294, mentre si trovava ancora all'Aquila, Celestino V nominò il protonotaro del Regno, Bartolomeo da Capua, notaio pontificio. Un'annotazione nel registro dimostra chiaramente lo scopo da lui perseguito: "Bartolomeo fu recentemente assunto a notaio pontificio su nostra proposta e con il nostro consenso e supponiamo che in quest'ufficio ci recherà servizi non minori ma maggiori di prima". Poi C. II indusse il papa a trasferirsi a Napoli anziché a Roma, nella speranza di poter influenzare più agevolmente la prossima elezione pontificia: Celestino V infatti era già molto vecchio e nel luogo dove moriva un papa di solito si riuniva il conclave. Tuttavia i cardinali, che temevano proprio quest'evenienza, gli fecero giurare di non trattenere il pontefice nel Regno all'avvicinarsi della morte. Ma durante il viaggio a Napoli, a San Germano, C. convinse il papa ad annullare con una bolla questo giuramento perché contrario al regolamento del conclave; a Napoli riuscì a far nominare a cariche pontificie altre persone di sua fiducia ed addirittura nuovi cardinali pronti a sostenere la sua politica. Celestino V revocò anche la disposizione di Niccolò III che vietava l'elezione di re e principi a senatori di Roma, ma la cosa più importante era che dava il suo consenso ai progetti di C. per la pace: infatti già dall'Aquila il 1º ott. 1294, aveva dichiarato di approvare l'accordo concluso con Giacomo II per quel che riguardava la Chiesa romana. A Celestino V si rivolse anche per chiedere il suo consenso Ludovico, il giovane figlio di C. che aveva deciso in Catalogna, dove viveva come ostaggio, di ritirarsi in convento; il papa nel 1294 gli permise di entrare nell'Ordine dei francescani.

A Napoli anche Celestino V si rese conto di essere poco atto a reggere la Chiesa e decise di dimettersi. Quando C. seppe di questa intenzione gli suggerì di trasmettere il potere pontificio a tre cardinali che l'avrebbero esercitato collegialmente, e il papa fece preparare una minuta in questo senso; ma quando il cardinale Matteo Orsini ne venne a conoscenza gli dichiarò che una cosa del genere era del tutto impossibile. Così si venne all'abdicazione di Celestino e all'elezione di Benedetto Caetani, che assunse il nome di Bonifacio VIII.

Dopo la sua elezione Bonifacio VIII trasferì la residenza pontificia da Napoli a Roma e i funzionari che C. era riuscito ad inserire nell'ammistrazione pontificia dovettero ritirarsi, ma il re dette il suo appoggio anche al nuovo papa e lo accompagnò, insieme a Carlo Martello e a Bartolomeo da Capua, fino a Roma. In occasione della sua incoronazione il 23 genn. 1295, il re e il figlio tennero le briglie del cavallo bianco sul quale Bonifacio VIII si recò a S. Pietro e servirono il papa, loro signore feudale, durante il banchetto che seguì. Il papa dal canto suo gli prorogò il pagamento del censo non pagato e da pagare nei prossimi anni.

BonifacioVIII appoggiò anche, come aveva già fatto Celestino V, i progetti di C. II per giungere alla conclusione della pace, assumendo egli stesso la direzione delle trattative. Il 31 maggio 1295 invitò Federico d'Aragona a rinunciare all'isola di Sicilia e fece anche pressione sul re di Francia, che con i propri progetti metteva in pericolo i negoziati; ma soprattutto esortò Giacomo II a realizzare al più presto il suo matrimonio con la figlia di C., Bianca. Così nel giugno 1295 ad Anagni fu definita la pace con una serie di clausole particolari: Giacomo sposa Bianca; tutti gli ostaggi vengono liberati; Giacomo II restituisce a C. II i territori occupati in terraferma con le isole annesse e libera tutti i prigionieri; C. si adopera presso il papa per la revoca della scomunica e dell'interdetto lanciato contro l'Aragona e contro la Sicilia; Filippo il Bello e Carlo di Valois rinunciano all'Aragona, il papa riconosce Giacomo in tutti i diritti e i regni posseduti da Pietro III d'Aragona prima della sua scomunica; Giacomo II cede la Sicilia e le isole annesse alla Chiesa e ne revoca tutti i suoi funzionari.

Il 19 ag. 1295morì Carlo Martello preceduto di poco dalla moglie. Poco dopo i figli minori di C., liberati, fecero ritorno nel Regno. Ludovico nel 1296vestì l'abito dei francescani nellachiesa romana dell'Aracoeli, alla presenza del padre e di Bonifacio VIII e rinunciò a tutti i suoi diritti di successione nel Regno a favore del fratello Roberto. In seguito il papa lo consacrò vescovo di Tolosa. La pace, tuttavia, fu rotta già all'inizio del 1296, quando i Siciliani, nel corso di un Parlamento a Catania, elessero all'unanimità Federico d'Aragona loro re. Il 2 febbr. 1296 Roberto d'Angiò fu armato cavaliere; il 13 febbraio C. II lo nominò duca di Calabria e vicario generale del Regno. La guerra intanto si riaccese di nuovo. Il 20 ott. 1296 le navi di Federico sconfissero la flotta angioina presso Ischia. Si era dunque verificato il caso previsto nelle clausole della pace: Giacomo II doveva combattere contro i Siciliani, e anche contro il proprio fratello. Nel 1297 egli fu nominato gonfaloniere e grande ammiraglio della Chiesa. Nello stesso anno Roberto sposò la sorella di Giacomo, Violante. Ludovico d'Angiò, che aveva raggiunto Tolosa, decise di rinunciare al suo vescovato per vivere in un convento del suo Ordine, morì durante il viaggio a Roma, il 19 ag. 1298.

Le lotte degli anni successivi non decisero sul piano militare le sorti della guerra. Nell'agosto del 1298 Roberto d'Angiò, duca di Calabria, sbarcò nell'isola e poté impradonirsi di varie località sulla costa, mentre Giacomo d'Aragona pose l'assedio a Siracusa, senza tuttavia riuscire ad espugnarla. Infruttuosa rimase anche la successiva spedizione iniziata nel giugno del 1299 sempre sotto il comando di Giacomo d'Aragona e di Roberto di Calabria investito per l'occasione del titolo di vicario generale e perpetuo dell'isola di Sicilia. Il 1º dic. 1299 le truppe angioine, comandate da Filippo principe di Taranto che erano sbarcate vicino a Trapani, subirono una gravissima sconfitta presso Falconaria; il principe stesso cadde prigioniero. Queste iniziative di C. II suscitarono la più decisa opposizione di Bonifacio VIII; questi, il 9 genn. 1300 gli indirizzò una lettera, in cui deplorava aspramente il suo operato, minacciandogli la scomunica nel caso che avesse intavolato trattative con Federico III, e dichiarò nulli già in anticipo tutti i suoi eventuali accordi con Federico.

Nello stesso 1300 C. II chiese al pontefice la canonizzazione del figlio Ludovico e sempre nel 1300 iniziò anche la campagna contro la città saracena di Lucera, ordinando a Giovanni Pipino da Barletta di raderla al suolo cacciando i Saraceni insediativi da Federico II. La campagna ebbe pieno successo, e la città popolata di nuovi abitanti fu chiamata la città di Santa Maria.

Nel 1301 venne nel Regno Carlo di Valois per combattere contro la Sicilia, ma le trattative sulle modalità della spedizione si trascinarono fino al 1302; C. malgrado le grandi speranze che aveva suscitato, la campagna non ebbe il successo desiderato. Così il 31 ag. 1302 si arrivò alla pace di Caltabellotta, nella quale fu accordata a Federico d'Aragona la mano di una figlia di C. e il possesso della Sicilia vita natural durante.

In tal modo si era conclusa la guerra durata per due decenni, e C. II poté finalmente pensare ad altri progetti. Nel 1303 Bonifacio VIII mandò in Ungheria un cardinal legato, il quale assegnò il regno a Caroberto, primogenito di Carlo Martello. Già prima vi aveva rinunciato Alberto d'Austria, mentre Andrea il Veneziano era morto nel 1301. Gli Ungheresi però avevano eletto re dopo la sua morte il principe Venceslao di Boemia, e perciò si opponevano a Caroberto, il quale solo in seguito riuscì a crearsi più consistenti appoggi nel regno.

Nel 1305 Roberto duca di Calabria fu nominato capitano generale delle città guelfe di Toscana e alla testa di truppe guelfe assediò vanamente Pistoia. Nel frattempo era stato eletto a Perugia il papa francese Clemente V (5 giugno 1305), elezione certamente gradita e anche favorita da Carlo II. Il nuovo papa decise di non trasferirsi in Italia e di stabilire la sua residenza al Avignone. Per facilitare i rapporti con lui Roberto fu nominato vicario generale di Provenza e Forcalquier.

In Piemonte Manfredi di Saluzzo si era impadronito di gran parte dei possedimenti una volta in possesso di Carlo I. Tra il 1304 e il 1305 C. II riuscì a restaurarvi il dominio angioino con il passaggio dalla sua parte di numerose città della regione. Alla fine del 1304 nominò il figlio Raimondo Berengario conte di Piemonte e, dopo la sua morte improvvisa alla fine di ottobre del 1305, manda nella regione truppe, le quali, con l'appoggio di Asti, occuparono Cuneo: il 7 febbr. 1306 Manfredi di Saluzzo venne ai patti, riconoscendo le rivendicazioni angioine. Il 14 febbraio successivo il re unì la contea di Piemonte a quelle di Provenza e di Forcalquier, e da allora si intitolò anche conte di Piemonte.

Nello stesso periodo Filippo di Taranto poté acquistare il dominio sul principato di Acaia, che già il nonno Carlo I aveva rivendicato nella sua qualità di erede dei diritti della nuora, moglie del figlio Filippo morto in giovane età. Il figlio omonimo di C. II, aveva anch'egli acquistato, mediante il suo matrimonio con Caterina di Valois, diritti in Acaia e cercò dunque di consolidare il suo possesso. Tramite i figli, C. cercò dunque di estendere il suo dominio, sia al Nord sia in Oriente.

In campo economico, C. seguì, come il padre, le tradizioni sveve. Da buoni mercanti, i re angioini sapevano bene fare i conti, come dimostra la politica monetaria; C. aveva promesso a San Martino di non alterare le monete e Onorio IV, nelle sue costituzioni, aveva vietato il loro cambio troppo frequente. Il re poteva coniare nuova moneta una sola volta nel corso del suo regno, dopo aver ascoltato gli esperti, ma in realtà nel solo periodo tra il 1301 e il 1302 il peso dei carlini d'oro fu cambiato ben tre volte; nel 1303 C. II lo modificò ancora, procurandosi vantaggi temporanei, con una politica, però, che finiva per essere dannosa per l'economia del Regno. Per il resto il re cercò di esercitare un controllo positivo sulla vita economica: furono creati pesi di controllo, con i quali i bottegai dovevano confrontare i propri, e nel 1299 il re esortò esplicitamente i cittadini d'Aversa a rispettare questa disposizione, ripetuta nel 1305 ancora una volta.

Tuttavia nelle città le lotte tra fazioni impedivano un deciso sviluppo delle attività mercantili: nel 1305, ad es., Napoli fu turbata da un sanguinoso conflitto tra fazioni nobiliari. Inoltre, nelle campagne il commercio era gravemente ostacolato dalle numerose bande di briganti che controllavano molte strade. Per combattere il banditismo C. permise contro i briganti la pratica della tortura.

Per quanto riguarda le attività manifatturiere, già favorite da Federico II e Carlo I, C. II sostenne soprattutto quelle dei panni. A tale scopo si rivolse all'Ordine degli umiliati, fondato nel 1196 a Milano, che prescriveva ai suoi appartenenti il lavoro manuale, e che a Firenze esercitava la manifattura; il 23 giugno 1308 concluse un accordo con il frate Daniele, il quale si impegnò a insediare a Napoli e nei luoghi vicini frati e maestri esperti in tale arte. Nell'agricoltura il sovrano cercò anzitutto di tutelare i contadini contro gli abusi dei funzionari regi: uno dei capitoli di San Martino ordinava infatti di stabilire i confini delle foreste regie per evitare che i contadini confinanti fossero molestati dai forestari. Naturalmente l'agricoltura era considerata anche sotto l'aspetto militare: erano sottoposti a controllo specialmente gli animali utili per la guerra, come i muli e i cavalli, di cui era proibita l'esportazione, mentre quella di altri animali era libera. Nei capitoli del 1282 veniva perciò ordinato ai magistri passuum di sorvegliare severamente i confini.

Il commercio interno del Regno si svolgeva soprattutto nelle zone lungo la costa, e perciò fu stabilito nei capitoli di San Martino che ai prelati, baroni e cittadini era permesso di trasportare grano da un porto all'altro senza dover pagare pedaggi; la stazza delle navi tuttavia doveva essere modesta e dovevano essere utilizzati solo i porti previsti dal decreto. Per tutti gli altri trasporti su nave si dovevano pagare tributi che venivano fissati anno per anno, ma che qualche volta cambiavano anche durante l'anno, come avvenne per esempio, nel 1299.

Sull'esempio del padre, C. II concesse privilegi ai principali porti del Regno. Nel 1301 confermò i privilegi di Manfredonia, città che viveva soprattutto del commercio del grano. Altri porti importanti sulla costa orientale erano Trani, Barletta, Bari, Brindisi e Villanova, che durante la guerra del Vespro avevano subito le incursioni dei Siciliani. Nel 1306 C. II fece riparare il porto di Trani, diminuendo contemporaneamente i tributi della Comunità.

Tra tutte le città del Regno la più importante era Napoli, e alla sua capitale C. II dedicò cure particolari. Il porto fu ampliato; i lavori cominciarono nel 1302 sotto la direzione del protomagister Riccardo Primario da Napoli; erano controllati da una commissione di nobili e cittadini ragguardevoli e, nonostante la grande tempesta del 1305, erano quasi terminati al momento della morte del sovrano. Per finanziarli questi aveva dovuto imporre un'imposta speciale, contro la quale la cittadinanza di Napoli protestò nel 1306. Nella capitale furono anche creati nuovi quartieri vicini al mare e alla residenza regia, nei quali andavano ad abitare soprattutto i forestieri, fiorentini, pisani, marsigliesi, genovesi ed amalfitani.

Come già il padre C. II favorì la attività di mercanti stranieri. Nel 1299 permise a quelli catalani di fondare proprie case a Napoli e in "altre famose città" del Regno, dove avevano filiali anche i mercanti dell'Italia centrale e settentrionale. Nel 1301 fu concluso un accordo speciale con Venezia; alcuni mercanti veneziani avevano le proprie case a Napoli, altri commerciavano nei porti pugliesi. Esportavano dal Regno olio d'oliva, carne in salamoia, sale e grano, e importavano stoffe ed armi. Ma la potenza commerciale più importante per C. era Firenze, la quale gli aveva prestato le somme necessarie per la guerra siciliana. Già durante la prigionia era stato aiutato dagli Acciaiuoli, e tra i mercanti fiorentini attivi nel Regno vanno ricordati inoltre i Mozzi, i Bardi, i Peruzzi, gli Scali, gli Aldobrandini e i Visdomini. Dopo la pace di Caltabellotta altri impegni richiedevano denaro: l'abbellimento della capitale, l'ampliamento del suo porto, la costruzione di chiese, come S. Luigi di Aversa, S. Agostino e S. Maria Maddalena a Napoli, e della cattedrale di S. Maria a Lucera, che erano tutte chiese decorate da artisti toscani e romani. Anche le decorazioni dei palazzi di Casanova, Carbonara e Castelnuovo furono molto costose. Le trattative condotte da Carlo Martello riguardo all'Ungheria e quelle di Filippo principe di Taranto riguardo all'Acaia furono in parte finanziate da fiorentini, che, come per esempio i Peruzzi, concessero prestiti quasi illimitati ottenendo in cambio monopoli e altri privilegi; C. II e il figlio Roberto accordarono loro inoltre protezione militare. Spesso i rapporti divennero molto stretti: vari mercanti, infatti, sedevano nel Consiglio dei familiari del re.C. II non fu stimato da molte delle persone che gli erano vicine. Soprattutto suo padre e papa Bonifacio VIII, tutt'e due politici molto attivi, gli mossero rimproveri di ogni genere e spesso lo accusarono di debolezza. La sua religiosità era forse inconsueta per un uomo politico e i cavalieri probabilmente la deridevano. Ma proprio grazie al suo carattere egli riuscì di accattivarsi il consenso di buona parte della popolazione. Egli infatti, più di altri sovrani del suo secolo, rispettò i diritti dei suoi sudditi, e ancora nel suo testamento del 1308 dispose che, se la colletta generale che veniva imposta annualmente fosse risultata illegittima, si sarebbe dovuto abolirla a tutti i costi.

C. morì il 5 maggio 1309 a Napoli. Il figlio e successore Roberto scrisse che egli era vissuto "come un principe cattolico, onorevolmente ed esemplarmente".


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1287. Pietro I di Sicilia, III d'Aragona.

Pietro I di Sicilia, III d'Aragona
di Pietro Corrao - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 83 (2015)



PIETRO I di Sicilia, III d’Aragona. – Nacque nel luglio del 1240 da Giacomo I d’Aragona e dalla seconda moglie di questi, Violante d’Ungheria.

Nominato procuratore generale della Catalogna nel 1257, alla morte del fratellastro Alfonso, primogenito di Giacomo, divenne erede dei domini paterni, dai quali il padre separò il Regno di Maiorca, destinato a un altro figlio. Come erede della Corona aragonese, nel 1262 ricevette la procura generale dei domini iberici del padre. Nello stesso anno sposò Costanza, figlia di Manfredi re di Sicilia, aprendo così la strada a una possibile rivendicazione dell’eredità del Regno siciliano da parte della dinastia aragonese. Nel 1269 esercitò la Luogotenenza generale, in occasione dell’assenza del sovrano, impegnato nella crociata. La politica autonoma che sviluppò nei regni come procuratore fu successivamente all’origine di un contrasto con il padre, che lo privò della carica per un breve periodo nel 1272. Riconciliatosi con Giacomo, alla morte di questi, nel 1276, gli subentrò come re d’Aragona e Valencia e come conte di Barcellona.
La molteplicità di tali titoli è all’origine di una diversa numerazione nell’intitolazione del sovrano: Pietro risulta formalmente il terzo di tale nome nella dinastia dei re d’Aragona, ma solo il secondo nella discendenza dei conti di Barcellona. La successiva incoronazione come re di Sicilia nel 1282 aggiunse un’ulteriore opzione, essendo Pietro il primo re di questo nome a regnare nell’isola.



La lunga carriera politica come procuratore generale del padre, che nella peculiare tradizione della dinastia aragonese prevedeva amplissime responsabilità di governo e possibilità di intervento autonomo negli affari dei regni, guadagnò a Pietro una profonda esperienza negli affari politici, e probabilmente fu anche alla base dell’apertura di un nuovo fronte negli orientamenti della Corona aragonese, quello dell’espansione oltremare dei domini della dinastia, che costituì l’irruzione di un nuovo soggetto politico nel contesto nevralgico del Mediterraneo. L’esperienza politica di Pietro, tuttavia, maturò anche sui tradizionali fronti dei domini iberici. Prima di salire al trono fu infatti impegnato a fondo a fronteggiare l’instabilità del Regno valenzano, appena conquistato dal padre; in esso rimaneva viva l’opposizione saracena, e covavano anche rivalità fra l’aristocrazia di origine catalana e quella aragonese che avevano partecipato alla conquista e vi si erano insediate.




Si trattava insomma di disegnare l’assetto dei complessi e variegati domini del re d’Aragona, dopo la fase della conquista vissuta durante il regno di Giacomo I. L’opera politica di Pietro in questa direzione gli valse nella tradizione storiografica e popolare l’appellativo di ‘Grande’, che si affianca a quello di ‘Conquistatore’ dato al padre Giacomo, esprimendo così il significato attribuito ai due momenti fondativi della costruzione e dell’evoluzione politica della Corona d’Aragona. La storiografia catalana, inoltre, enfatizzando l’altra grande svolta verificatasi con Pietro nella vicenda della Corona iberica, ha voluto legare l’appellativo – con una certa ragione – anche all’impresa siciliana del 1282, che fu l’avvio di un percorso destinato a caratterizzare la fisionomia della compagine aragonese a partire dal XIII secolo, in consonanza con le tendenze espansive dell’economia commerciale di Barcellona e poi di Valencia.




Nel 1282, dopo aver energicamente pacificato nei regni iberici sia le rivalità aristocratiche, sia la ribellione dei saraceni valenzani, Pietro si impegnò nella formazione di una potente flotta e di un consistente esercito, senza che se ne intendesse chiaramente la destinazione. Obiettivo dichiarato era un intervento sulle coste settentrionali africane, dove si poteva trarre profitto dalle contrapposizioni interne fra i potentati arabo-berberi per garantire una protezione armata e una base di dominio diretto alla crescente presenza di mercanti catalani e maiorchini che da decenni operavano con profitto sulle rotte tra l’Africa settentrionale e la penisola iberica, facendo base nelle Baleari conquistate da Giacomo I.




L’orizzonte politico di quegli anni era però dominato da un’altra questione, nella quale la corte barcellonese era profondamente coinvolta per molteplici motivi. Le vicende della successione nel Regno siciliano dopo la morte di Federico II, nel 1250, erano state il primo punto nell’agenda politica delle maggiori forze operanti nell’area mediterranea: la politica aggressiva di Manfredi, l’ostilità pontificia e la ricerca di un successore di orientamento opposto erano stati i fattori che avevano condotto all’incoronazione di Carlo d’Angiò come re di Sicilia nel 1266. La resistenza di Manfredi e degli eredi federiciani, stroncata a Benevento (1266) e a Tagliacozzo (1268), aveva provocato l’esodo degli esponenti aristocratici più strettamente legati alla parte ghibellina; loro naturale destinazione era stata la corte d’Aragona, dove Costanza rappresentava un punto di riferimento legittimistico per i sostenitori della dinastia federiciana. Alla corte e nella domus di Pietro e Costanza si trovava un gran numero di aristocratici siciliani, come diversi esponenti della famiglia Lancia, Ruggero Loria, Giovanni da Procida, che ricoprivano alte cariche nell’amministrazione della domus dell’Infante e poi del re d’Aragona ed erano suoi consiglieri politici di rilievo. Le intenzioni antiangioine di questi coincidevano con una molteplicità di altri fattori, fra i quali giocavano un ruolo gli interessi mercantili delle città italiane interessate al mercato meridionale e quelli della corte bizantina di Michele Paleologo, timorosa di iniziative offensive del re angioino a partire dalla sua base mediterranea.




Nei progetti politici di Pietro, fin dal matrimonio con Costanza, trovava dunque ampio spazio una nuova prospettiva per la Corona aragonese. È estremamente verosimile che quanto rappresentato con straordinaria icasticità da un testo letterario coevo di cui Pietro è protagonista, Lu Rebellamentu di Sichilia, corrispondesse a questi orientamenti del re: chiusa da tempo l’opzione provenzale e occitana, arrestatasi la Reconquista in terra iberica, pacificati i domini della Corona aragonese, un ardito intervento in ambito mediterraneo, suggerito dai nobili siciliani interessati al ritorno in terra italiana e visto con favore dalle forze mercantili e armatoriali attratte dall’apertura di una via commerciale verso il Levante mediterraneo appariva a Pietro come una strada per trasformare ‘un picciulo sovranu’ in un protagonista della scena mediterranea e in un potente rivale dell’allora crescente egemonia francese nell’area, confermando la retorica leggendaria del valore militare della dinastia catalana.




Dopo una breve permanenza sulle coste africane, Pietro si diresse con l’armata verso la Sicilia. Nell’aprile 1282 un fronte di nobili e città aveva sfidato vittoriosamente il dominio angioino con l’insurrezione detta del Vespro siciliano, ma stentava a trovare una soluzione politica stabile che permettesse di affrontare il ritorno di Carlo e l’aperta ostilità pontificia, consolidando un ordinamento alternativo al dominio angioino. L’offerta a Pietro della Corona siciliana da parte dei ribelli a Carlo garantiva tale soluzione e rappresentava il culmine di un convergere degli interessi di cui s’è detto e delle verosimili trattative svoltesi nei circoli della corte di Pietro e di Costanza. La particolare struttura della monarchia catalano-aragonese, peraltro, garantiva la possibilità di un’unione personale del Regno ai domini iberici di Pietro e la garanzia del mantenimento della specifica tradizione istituzionale e normativa del Regno siciliano.




Incoronato nel 1282 re di Sicilia, dopo avere manifestato davanti a un Parlamento siciliano l’intenzione di rispettare il tradizionale assetto normativo del Regno e avere definitivamente abolito le collectae e altre imposizioni fiscali angioine, Pietro rimase nell’isola solo per pochi mesi, ma tenne il titolo fino alla morte, nel 1285, governando attraverso il figlio Giacomo, che ebbe la carica di luogotenente nel Regno siciliano. L’occasione della partenza dal Regno fu la sfida di Carlo d’Angiò, che prevedeva la soluzione del conflitto per il Regno siciliano attraverso un duello da tenersi a Bordeaux. In realtà, i due avversari non si incontrarono mai sul luogo prescelto, convinti entrambi di potere prevalere sul campo.




L’iniziativa siciliana di Pietro impresse una svolta decisiva alla questione apertasi con la rivolta del Vespro: l’accuratezza della preparazione della spedizione consentì al re di volgere immediatamente a suo favore la situazione militare, con una serie di vittoriosi confronti con le forze angioine, costrette a ritirarsi oltre lo stretto di Messina e a subire gli attacchi del re d’Aragona nella parte continentale del Regno, dove Pietro si impadroniva di Nicotera e di Catona in Calabria (1282-1283). Tutto ciò fu possibile a Pietro grazie all’abile utilizzo delle specifiche forze sulle quali la compagine aragonese poteva contare, e delle quali il sovrano conosceva bene le possibilità d’utilizzo grazie alla sua esperienza politica e militare in terra iberica. In primo luogo, Pietro aveva organizzato il proprio esercito costituendo peculiarissimi reparti, i cosiddetti almogaveri, composti da combattenti largamente esperti di forme di guerra non tradizionale, esponenti della società guerriera sviluppatasi nella lunga vicenda della Reconquista e del confronto con i Saraceni nella guerra permanente di frontiera. La carta militare degli almogaveri, sapientemente giocata dal re in tutte le operazioni militari in Sicilia, fu una delle maggiori chiavi del successo dell’occupazione dell’isola e dell’espulsione delle residue guarnigioni angioine (Sperlinga, Castrogiovanni, 1282-1283). In secondo luogo, fu altrettanto decisivo il ricorso del re alla forza della marineria catalana. Le decisive vittorie riportate dalla flotta aragonese fin nel golfo di Napoli (1284) furono il frutto di una lunga pratica di mare, e della capacità di convertire in valore militare l’esperienza delle marinerie iberiche formatesi nella crescente frequentazione delle rotte commerciali del Mediterraneo occidentale, in concorrenza con i mercanti musulmani. La conquista di Malta e Gozo (1283) e lo stabilimento di un caposaldo a Gerba, davanti alle coste tunisine (1284), facevano del Regno siciliano il cuore strategico del controllo del Mediterraneo meridionale. Infine, la conoscenza del Regno italiano fornita a Pietro dagli emigrati siciliani rifugiatisi alla sua corte gli consentì di sostenere lo sforzo militare con un’attenta utilizzazione delle risorse locali: un’ampia documentazione mostra nei dettagli la bilanciatissima esazione del ‘fodro’ in natura e in denaro dai centri del territorio siciliano, a testimonianza della capacità di instaurare meccanismi fiscali e logistici efficaci e compatibili con le risorse del Regno.




L’incoronazione siciliana, tuttavia, costò a Pietro l’immediata scomunica (1282), la deposizione e la privazione di tutti domini da parte di papa Martino IV, che investì dei regni iberici di Pietro il figlio del re Filippo di Francia, Carlo di Valois (1283). Si profilava così un duplice fronte di scontro, in Sicilia e alla frontiera pirenaica, con le dinastie francesi.




Il breve regno di Pietro fu un episodio fondamentale nel determinare le caratteristiche e le vicende del Regno isolano per i secoli successivi. Non soltanto perché segnò l’inizio della secolare unione dell’isola alla Corona d’Aragona prima e poi a quella di Spagna, ma perché ne delineò le caratteristiche costitutive essenziali, consolidate e sviluppate dai due figli Giacomo e Federico che gli succedettero, e dalla dinastia da questi derivata.




In primo luogo, Pietro, assumendo la corona del Regno, giurava il mantenimento in vigore delle leggi siciliane. Era un atto analogo a quello in uso nella Corona aragonese relativamente ai Fueros, le leggi particolari dei diversi regni di cui il re era titolare. In secondo luogo, Pietro era divenuto re di Sicilia in virtù dell’accettazione di un’offerta fattagli dal Regno stesso, e non per diritto ereditario o di conquista. Se queste peculiarità della posizione di Pietro erano solo implicitamente contenute nella procedura che lo portò a posporre l’incoronazione a una dichiarazione d’intenti e a un giuramento di fronte a un’assemblea del Regno, esse non mancarono di costituire un forte argomento giuridico in tutte le successive occasioni in cui fu necessario definire la posizione del Regno siciliano in seno alla Corona aragonese e spagnola.




Altra importante caratteristica del regno di Pietro fu infatti l’avvio della definizione di una struttura di tipo pattista nei rapporti fra monarchia e società del Regno. Parallelamente a un’azione in tal senso dettata dalla necessità di risolvere il rinnovato confronto con le forti aristocrazie e le importanti città dei diversi regni iberici e che sarebbe sfociata nella concessione del cosiddetto Privilegio General a garanzia delle prerogative del Regno aragonese (1284), Pietro avviava, per tramite del luogotenente Giacomo, sia l’eliminazione delle fazioni aristocratiche siciliane che erano state più tiepide nei confronti della soluzione aragonese, sia l’instaurazione di meccanismi di negoziazione e di confronto politico costante fra apparato della monarchia e corpi strutturati del Regno (Parlamento di Catania, 1283), sia la promozione di un ceto di governo siciliano capace di mantenere il consenso al nuovo potere regio. Tutte queste tendenze avrebbero trovato puntuale riscontro nella legislazione dei successivi sovrani siciliani, a partire dalla ‘costituzione’ Semel in anno di re Federico III, figlio di Pietro, ricalcata su quella promulgata dal padre in terra iberica, denominata Una vegada l’any, e relativa all’ordinamento di una regolare assemblea rappresentativa del Regno.




Dopo avere vittoriosamente respinto l’aggressione francese ai propri domini iberici, legittimata dal papa come crociata contro un nemico della Chiesa con brillanti vittorie navali (Formigues, Roses) e terrestri, in cui il re comandò personalmente le truppe (Girona, Panissars, 1285), Pietro morì nel novembre dello stesso 1285 e venne sepolto nel cenotafio reale di Santes Creus in Catalogna, lasciando per disposizione testamentaria i regni iberici al primogenito Alfonso e quello siciliano al secondogenito Giacomo. Tale regolazione della successione sarebbe però stata violata in conseguenza degli sviluppi dell’intricata questione siciliana alla morte di Alfonso (1291), quando Giacomo assunse la Corona aragonese mantenendo anche quella del Regno siciliano.




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1287. Filippo III re di Francia.

Filippo III re di Francia detto l'Ardito
di Enrico Pispisa - Enciclopedia Dantesca (1970)

Filippo III re di Francia detto l'Ardito. - Re di Francia, citato da D. in Pg VII 103 come quel nasetto che stretto a consiglio / par con colui c'ha sì benigno aspetto; è singolarmente individuato dal piccolo naso, che gli rende meno virile la faccia, quasi a significare la pochezza del carattere di lui, che morì fuggendo e disfiorando il giglio (v. 105). Ma F. ed Enrico I di Navarra, l'altro sovrano che è con lui, non si battono il petto per le loro colpe passate, bensì per la vita... viziata e lorda del rispettivo figliuolo e genero, Filippo IV il Bello. Così D., con plastica evidenza, esprime tutto il suo disprezzo per la dinastia francese che, rappresentata da individui ora vili e insignificanti, ora perfidi e depravati, osa ostacolare la divina missione dell'Impero.

Figlio di Luigi IX e di Margherita di Provenza, F. nacque a Poissy il 3 aprile 1245. Nel 1262 sposò Isabella d'Aragona e, partito Luigi IX per la crociata, lo accompagnò a Tunisi. Morto il padre durante l'impresa (1270), gli successe sul trono, ma fu consacrato soltanto il 15 agosto 1271. Intanto, nel viaggio di ritorno da Tunisi, gli era morta la moglie e F. sposò in seconde nozze Maria di Brabante (1274), che ebbe un grande ascendente su di lui e ne influenzò le decisioni. Mite di carattere, non possedeva l'intelligenza del padre, per cui si fece trascinare in imprese contrarie agl'interessi della Francia. Mantenne, per influenza della madre, relazioni amichevoli con l'Inghilterra, cui cedette alcuni territori (1279), dando così esecuzione a uno degli articoli più importanti del trattato di Parigi del 1259. Concesse anche il contado Venassino a papa Gregorio X (1274), nella speranza di avere un appoggio per la sua candidatura all'Impero. Ma l'elezione di Rodolfo d'Asburgo fece sfumare il progetto che era stato ideato da Carlo d'Angiò. L'errore più grave di F. fu l'inimicizia e la guerra col regno d'Aragona. Di questo, infatti, F. aveva bisogno nella guerra contro la Castiglia; tuttavia, per suggestione del partito favorevole a Carlo d'Angiò, che faceva capo alla regina, e per le insistenti richieste di Martino IV, sentito il consiglio delle due assemblee di Bourges e di Parigi, F., nel 1285, diede inizio all'impresa di conquista del regno d'Aragona. Dopo qualche successo iniziale, però, l'esercito francese incominciò ad essere logorato dalla guerriglia attuata da re Pietro, che riuscì ad avere definitivamente partita vinta con la battaglia navale di Las Formiguas, dove il suo ammiraglio, Ruggero di Lauria, batté e distrusse la flotta francese. L'esercito di F., allora, fu costretto alla ritirata, mentre un'epidemia di peste ne decimava i quadri. E la peste colse anche F., che morì a Perpignano il 5 ottobre 1285.

Bibl. - A. D'Ancona, Il canto VII del Purgatorio, Firenze 1901; A. Foresti, La valletta fiorita, in " Convivium " IV (1932) 801-810; A. Seroni, Purgatorio, canto VII, in " Studi d. " XXXIII (1955) 187-205; C.V. Langlois, Le règne de Philippe III le Hardi, Parigi 1887; R. Fawtier, Les Capétiens et la France, ibid 1942.