Zucchero, Taddeo
Vita di Taddeo Zucchero, pittore da Sant’Agnolo in Vado
|   Esendo duca d'Urbino Francesco Maria, nacque nella terra di Santo Agnolo in Vado, luogo di quello stato, l'anno 1529 a dì primo di settembre ad Ottaviano Zucchero pittore un figliuol maschio, al quale pose nome Taddeo, il qual putto avendo di dieci anni imparato a leggere e scrivere ragionevolmente, se lo tirò il padre appresso e gl'insegnò alquanto a disegnare. Ma veggendo Ottaviano quello suo figliuolo aver bellissimo ingegno e potere divenire altr'uomo nella pittura, che a lui non pareva essere, lo mise a stare con Pompeo da Fano, suo amicissimo e pittore ordinario; l'opere del quale non piacendo a Taddeo e parimente i costumi, se ne tornò a Sant'Agnolo, quivi et altrove aiutando al padre quanto poteva e sapeva. Finalmente, essendo cresciuto Taddeo d'anni e di giudizio, veduto non potere molto acquistare sotto la disciplina del padre, carico di sette figliuoli maschi et una femina, et anco non essergli col suo poco sapere d'aiuto più che tanto, tutto solo se n'andò di quattordici anni a Roma, dove a principio, non essendo conosciuto da niuno e niuno conoscendo, patì qualche disagio. E se pure alcuno vi conosceva, vi fu da loro peggio trattato che dagl'altri, per che accostatosi a Francesco cognominato di Sant'Agnolo, il quale lavorava di grottesche con Perino del Vaga a giornate, se gli raccomandò con ogni umiltà, pregandolo che volesse, come parente che gl'era, aiutarlo; ma non gli venne fatto, perciò che Francesco, come molte volte fanno certi parenti, non pure non l'aiutò, né di fatti, né di parole, ma lo riprese e ributtò agramente. Ma non per tanto non si perdendo d'animo, il povero giovinetto senza sgomentarsi si andò molti mesi trattenendo per Roma, o per meglio dire stentando, con macinare colori ora in questa et ora in quell'altra bottega, per piccol prezzo, e talora, come poteva il meglio, alcuna cosa disegnando. E se bene in ultimo si acconciò per garzone con un Giovampiero calavrese, non vi fece molto frutto, perciò che colui, insieme con una sua moglie, fastidiosa donna, non pure lo facevano macinare colori giorni e notte, ma lo facevano non ch'altro patire del pane; del quale acciò non potesse anco avere a bastanza, né a sua posta, lo tenevano in un paniere appiccato al palco con certi campanelli, che ogni poco che il paniere fosse tocco, sonavano e facevano la spia. Ma questo arebbe dato poca noia a Taddeo, se avesse avuto commodo di potere disegnare alcune carte, che quel suo maestraccio aveva di mano di Raffaello da Urbino. 
Per queste e molt'altre stranezze, partitosi Taddeo da Giovampiero, si  risolvette a stare da per sé et andarsi riparando per le botteghe di Roma, dove  già era conosciuto, una parte della settimana spendendo in lavorare a opere per  vivere, et un'altra in disegnando e particularmente l'opere di mano di  Raffaello, che erano in casa d'Agostino Chigi et in altri luoghi di Roma. E  perché molte volte, sopragiugnendo la sera, non aveva dove in altra parte  ritirarsi, si riparò molte notti sotto le logge del detto Chigi et in altri  luoghi simili, i quali disagi gli guastorno in parte la complessione, e se non  l'avesse la giovinezza aiutato, l'arebbono ucciso del tutto. Con tutto ciò  amalandosi e non essendo da Francesco Sant'Agnolo suo parente più aiutato di  quello che fosse stato altra volta, se ne tornò a Sant'Agnolo a casa il padre,  per non finire la vita in tanta miseria quanta quella era in che si trovava. Ma  per non perdere oggimai più tempo in cose che non importano più che tanto, e  bastando avere mostrato con quanta difficultà e disagi acquistasse, dico che  Taddeo finalmente guarito e tornato a Roma, si rimesse a' suoi soliti studii (ma  con aversi più cura, che per l'adietro fatto non aveva), e sotto un Iacopone  imparò tanto, che venne in qualche credito, onde il detto Francesco suo parente,  che così empiamente si era portato verso lui, veggendolo fatto valent'uomo, per  servirsi di lui si rapatumò seco e cominciarono a lavorare insieme, essendosi  Taddeo, che era di buona natura, tutte l'ingiurie dimenticato. E così facendo  Taddeo i disegni et ambidui lavorando molti fregi di camere e logge a fresco, si  andavano giovando l'uno all'altro. Intanto Daniello da Parma pittore, il quale  già stette molti anni con Antonio da Coreggio, et avea avuto pratica con Francesco Mazzuoli parmigiano, avendo preso a  fare a Vitto di là di Sore nel principio dell'Abruzzo una chiesa a fresco per la  capella di Santa Maria, prese in suo aiuto Taddeo conducendolo a Vitto. Nel che  fare, se bene Daniello non era il migliore pittore del mondo, aveva nondimeno  per l'età e per avere veduto il modo di fare del Coreggio e del Parmigiano, e  con che morbidezza conducevano le loro opere, tanta pratica, che mostrandola a  Taddeo et insegnandogli, gli fu di grandissimo giovamento con le parole, non  altrimenti che un altro arebbe fatto con l'operare. Fece Taddeo in quest'opera,  che aveva la volta a croce, i quattro Evangelisti, due Sibille, duoi Profeti e  quattro storie non molto grandi di Iesù Cristo e della Vergine sua madre.  Ritornato poi a Roma, ragionando Messer Iacopo Mattei gentiluomo romano con  Francesco Sant'Agnolo di volere fare dipignere di chiaro scuro la facciata d'una  sua casa, gli mise inanzi Taddeo, ma perché pareva troppo giovane a quel  gentiluomo, gli disse Francesco che ne facesse prova in due storie, e che quelle  non riuscendo, si sarebbono potute gettare per terra, e riuscendo arebbe  seguitato. Avendo dunque Taddeo messo mano all'opera, riuscirno sì fatte le due  prime storie, che ne restò Messer Iacopo non pure sodisfatto, ma stupido; onde  avendo finita quell'opera l'anno 1548, fu sommamente da tutta Roma lodata e con  molta ragione. Perciò che dopo Pulidoro, Maturino, Vincenzo da San Gimignano e Baldassarre da  Siena, niuno era in simili opere arrivato a quel segno che aveva fatto Taddeo,  giovane allora di diciotto anni; l'istorie della quale opera si possono  comprendere da queste inscrizzioni, che sono sotto ciascuna de' fatti di Furio  Camillo; la prima dunque è questa: TUSCULANI, PACE CONSTANTI, VIM ROMANAM  ARCENT; la seconda; M[ARCUS] F[URIUS) C[AMILLUS] SIGNIFERUM SECUM IN HOSTEM  RAPIT; la terza: M[ARCO] F[URIO] C[AMILLO] AUCTORE INCENSA   
URBS RESTITUITUR; la quarta: M[ARCUS] F[URIUS) C[AMILLUS] PACTIONIBUS  TURBATIS PRAELIUM GALLIS NUNCIAT; la quinta: M[ARCUS] F[URIUS] C[AMILLUS)  PRODITOREM VINCTUM FALERIO REDUCENDUM TRADIT; la sesta: MATRONALIS AURI  COLLATIONE, VOTUM APOLLINI SOLVITUR; la settima: M[ARCUS] F[URIUS] C[AMILLUS]  IUNONI REGINAE TEMPLUM IN AVENTINO DEDICAT; l'ottava: SIGNUM IUNONIS REGINAE A  VEIIS ROMAM TRANSFERTUR; la nona: M[ARC...] F[URI. ] C[AMILL...] ... [M]ANLIUS  DICT[ATOR] DECEM ... SOS ... CIOS CAPIT.   
Dal detto tempo ìnsino all'anno 1550, che fu creato papa Giulio Terzo, si  andò trattenendo Taddeo in opera di non molta importanza, ma però con  ragionevole guadagno; il quale anno 1550, essendo il Giubileo, Ottaviano padre  di Taddeo, la madre et un altro loro figliuolo andorno a Roma a pigliare il  santissimo Giubileo et in parte vedere il figliolo. Là dove stati che furno  alcune settimane con Taddeo, nel partirsi gli lasciarono il detto putto che  avevano menato con esso loro, chiamato Federigo, acciò lo facesse attendere alle  lettere: ma giudicandolo Taddeo più atto alla pittura, come si è veduto essere  poi stato vero, ne l'eccellente riuscita che esso Federigo ha fatto, lo  cominciò, imparato che ebbe le prime lettere, a fare attendere al disegno con  miglior fortuna et appoggio che non aveva avuto egli. Fece intanto Taddeo nella  chiesa di Santo Ambrogio de' Milanesi, nella facciata de l'altare maggiore,  quattro storie de' fatti di quel Santo, non molto grandi e colorite a fresco,  con un fregio di puttini e femine a uso di termini, che fu assai bell'opera, e,  questa finita, allato a Santa Lucia della Tinta, vicino all'Orso, fece una  facciata piena di storie di Alessandro Magno, cominciando dal suo nascimento e  seguitando in cinque storie i fatti più notabili di quell'uomo famoso, che gli  fu molto lodata, ancor che questa avesse il paragone a canto d'un'altra facciata  di mano di Pulidoro.   
In questo tempo, avendo Guido Baldo duca d'Urbino udita la fama di questo  giovane suo vasallo e desiderando dar fine alle facciate della capella del Duomo  d'Urbino, dove Batista Franco, come s'è detto, aveva a fresco dipinta la volta,  fece chiamare Taddeo a Urbino; il quale, lasciando in Roma chi avesse cura di  Federigo e lo facesse attendere a imparare, e parimente d'un altro suo fratello,  il quale pose con alcuni amici suoi all'orefice, se n'andò ad Urbino, dove gli  furono da quel Duca fatte molte carezze e poi datogli ordine di quanto avesse a  disegnare per conto della capella et altre cose. Ma in quel mentre, avendo quel  Duca come generale de' signori viniziani a ire a Verona et a vedere l'altre  fortificazioni di quel dominio, menò seco Taddeo, il quale gli ritrasse il  quadro di mano di Raffaello, che è, come in altro luogo s'è detto, in casa de'  signori conti da Canossa; dopo cominciò, pur per sua eccellenza, una telona  grande, dentrovi la conversione di San Pavolo, la quale è ancora così imperfetta  a Sant'Agnolo appresso Ottaviano suo padre. Ritornato poi in Urbino andò per un  pezzo seguitando i disegni della detta capella, che furono de' fatti di Nostra  Donna, come si può vedere in una parte di quelli, che è appresso Federigo suo  fratello, disegnati di penna e chiaro scuro; ma o venisse che 'l Duca non fosse  resoluto e gli paresse Taddeo troppo giovane, o da altra cagione, si stette  Taddeo con esso lui due anni, senza fare altro che alcune pitture in uno  studiolo a Pesaro et un'arme grande a fresco nella facciata del palazzo et il  ritratto di quel Duca in un quadro grande quanto il vivo, che tutte furono  bell'opere.   
Finalmente, avendo il Duca a partire per Roma per andare a ricevere il  bastone, come generale di santa Chiesa, da papa Giulio Terzo, lasciò a Taddeo  che seguitasse la detta capella e che fosse di tutto quello, che per ciò  bisognava, proveduto. Ma i ministri del Duca, facendogli come i più di simili  uomini fanno, cioè stentare ogni cosa, furono cagione che Taddeo, dopo avere  perduto duoi anni di tempo, se n'andò a Roma, dove truovato il Duca si scusò  destramente, senza dar biasimo a nessuno, promettendo che non mancherebbe di  fare quando fosse tempo. L'anno poi 1551, avendo Stefano Veltroni dal Monte  Sansavino ordine dal Papa e dal Vasari di fare adornare di grottesche le  stanze della vigna, che fu del cardinale Poggio, fuori della porta del Popolo in  sul monte, chiamò Taddeo, e nel quadro del mezzo gli fece dipignere una  Occasione, che avendo presa la Fortuna, mostra di volerle tagliare il crine con  le forbice, impresa di quel Papa, nel che Taddeo si portò molto bene. Dopo  avendo il Vasari fatto sotto il palazzo nuovo, primo di  tutti gl'altri, il disegno del cortile e della fonte, che poi fu seguitata dal  Vignola e dall'Amannato e murata da Baronino, nel dipignervi molte cose Prospero  Fontana, come di sotto si dirà, si servì assai di Taddeo in molte cose, che gli  furono occasione di maggiore bene; perciò che, piacendo a quel Papa il suo modo  di fare, gli fece dipignere in alcune stanze sopra il corridore di Belvedere  alcune figurette colorite, che servirono per fregii di quelle camere, et in una  loggia scoperta, dietro quelle che voltavano verso Roma, fece nella facciata di  chiaro scuro e grandi quanto il vivo tutte le fatiche di Ercole, che furono al  tempo di papa Pavolo Quarto rovinate, per farvi altre stanze e murarvi una  capella. Alla vigna di papa Giulio, nelle prime camere del palazzo, fece di  colori nel mezzo della volta alcune storie, e particularmente il monte Parnaso,  e nel cortile del medesimo fece due storie di chiaro scuro de' fatti delle  Sabine, che mettono in mezzo la porta di mischio principale, che entra nella  loggia, dove si scende alla fonte de l'acqua vergine, le quali opere furono  lodate e commendate molto. E perché Federigo, mentre Taddeo era a Roma col Duca,  era tornato a Urbino e quivi et a Pesaro statosi poi sempre, lo fece Taddeo dopo  le dette opere tornare a Roma per servirsene in fare un fregio grande in una  sala et altri in altre stanze della casa di Giambecari sopra la piazza di  Sant'Apostolo, et in altri fregi che fece dalla guglia di San Mauro nelle case  di Messer Antonio Portatore, tutti pieni di figure, et altre cose, che furono  tenute bellissime.   
Avendo compro Mattiuolo, maestro delle poste al tempo di papa Giulio, un sito  in campo Marzio e murato un casotto molto commodo, diede a dipignere a Taddeo la  facciata di chiaro scuro, il qual Taddeo vi fece tre storie di Mercurio  messaggero degli dii, che furono molto belle, et il restante fece dipignere ad  altri con disegni di sua mano. Intanto, avendo Messer Iacopo Mattei fatta murare  nella chiesa della Consolazione sotto il Campidoglio una capella, la diede,  sapendo già quanto valesse, a dipignere a Taddeo, il quale la prese a fare  volentieri e per piccol prezzo per mostrare ad alcuni, che andavano dicendo che  non sapeva se non fare facciate et altri lavori di chiaro scuro, che sapeva anco  fare di colori. A quest'opera dunque avendo Taddeo messo mano, non vi lavorava  se non quando si sentiva in capriccio e vena di far bene, spendendo l'altro  tempo in opere che non gli premevano quanto questa per conto dell'onore, e così  con suo commodo la condusse in quattro anni. Nella volta fece a fresco quattro  storie della Passione di Cristo di non molta grandezza con bellissimi capricci e  tanto bene condotte, per invenzione, disegno e colorito, che vinse se stesso; le  quali storie sono la cena con gl'Apostoli, la lavazione d'i piedi, l'orare  nell'orto e quando è preso e baciato da Giuda. In una delle facciate dalle bande  fece, in figure grandi quanto il vivo, Cristo battuto alla colonna, e nell'altra  Pilato che lo mostra flagellato ai giudei, dicendo «Ecce homo»; e sopra questa  in un arco è il medesimo Pilato che si lava le mani, e nell'altro arco  dirimpetto Cristo menato dinanzi ad Anna. Nella faccia dell'altare fece il  medesimo quando è crucifisso e le Marie a' piedi con la Nostra Donna tramortita,  messa in mezzo dalle bande da due Profeti, e nell'arco sopra l'ornamento di  stucco fece due Sibille, le quali quattro figure trattano della Passione di  Cristo, e nella volta sono quattro mezze figure intorno a certi ornamenti di  stucco, figurate per i quattro Evangelisti, che sono molto belle. Quest'opera,  la quale fu scoperta l'anno 1556, non avendo Taddeo più che ventisei anni, fu et  è tenuta singolare et egli allora giudicato dagl'artefici eccellente pittore.   
Questa finita gl'allogò Messer Mario Frangipane nella chiesa di San Marcello  una sua capella, nella quale si servì Taddeo, come fece anco in molti altri  lavori, de' giovani forestieri, che sono sempre in Roma e vanno lavorando a  giornate per imparare e guadagnare, ma nondimeno per allora non la condusse del  tutto. Dipinse il medesimo al tempo di Paolo Quarto in palazzo del Papa alcune  stanze a fresco, dove stava il cardinale Caraffa, nel torrone sopra la guardia  de' Lanzi, et a olio in alcuni quadrotti la Natività di Cristo, la Vergine e  Giuseppo quando fuggono in Egitto, i quali duoi furono mandati in Portogallo  dall'ambasciatore di quel re. Volendo il cardinal di Mantoa fare dipignere  dentro tutto il suo palazzo a canto all'arco di Portogallo con prestezza  grandissima, allogò quell'opera a Taddeo per convenevole prezzo; il qual Taddeo  cominciando con buon numero d'uomini, in brieve lo condusse a fine, mostrando  avere grandissimo giudizio in sapere accommodare tanti diversi cervelli in opera  sì grande e conoscere le maniere differenti per sì fatto modo, che l'opera  mostri essere tutta d'una stessa mano; insomma sodisfece in questo lavoro Taddeo  con suo molto utile al detto cardinale et a chiunche la vide, ingannando  l'opinione di coloro che non potevano credere che egli avesse a riuscire in  viluppo di sì grand'opera.   
Parimente dipinse dalle Botteghe Scure per Messer Alessandro Mattei, in certi  sfondati delle stanze del suo palazzo', alcune storie di figure a fresco, et  alcun'altre ne fece condurre a Federigo suo fratello, acciò si accommodasse al  lavorare, il quale Federigo, avendo preso animo, condusse poi da sé un monte di  Parnaso sotto le scale d'Araceli in casa d'un gentiluomo chiamato Stefano  Margani romano, nello sfondato d'una volta. Onde Taddeo, veggendo il detto  Federigo assicurato e fare da sé con i suoi proprii disegni, senza essere più  che tanto da niuno aiutato, gli fece allogare dagli uomini di Santa Maria  dell'Orto a Ripa in Roma (mostrando quasi di volerla fare egli) una capella,  perciò che a Federigo solo, essendo anco giovinetto, non sarebbe stata data già  mai. Taddeo dunque, per sodisfare a quegl'uomini, vi fece la Natività di Cristo  et il resto poi condusse tutto Federigo, portandosi di maniera, che si vide  principio di quella eccellenza che oggi è in lui manifesta. Né medesimi tempi,  al duca di Guisa che era allora in Roma, disiderando egli di condurre un pittore  pratico e valent'uomo a dipignere un suo palazzo in Francia, fu mezzo per le  mani Taddeo; onde, vedute delle opere sue e piaciutagli la maniera, convenne di  dargli l'anno di provisione seicento scudi, e che Taddeo, finita l'opera che  aveva fra mano, dovesse andare in Francia a servirlo. E così arebbe fatto  Taddeo, essendo i danari per mettersi a ordine stati lasciati in un banco, se  non fossero allora seguite le guerre che furono in Francia e poco appresso la  morte di quel Duca.   
Tornato dunque Taddeo a fornire in San Marcello l'opera del Frangipane, non  poté lavorare molto a lungo senza essere impedito, perciò che, essendo morto  Carlo Quinto imperatore, e dandosi ordine di fargli onoratissime esequie in  Roma, come a imperatore de' romani, furono allogate a Taddeo, che il tutto  condusse in venticinque giorni, molte storie de' fatti di detto imperatore e  molti trofei et altri ornamenti, che furono da lui fatti di carta pesta molto  magnifici et onorati; onde gli furono pagati per le sue fatiche, e di Federigo  et altri che gli avevano aiutato, scudi secento d'oro. Poco dopo dipinse in  Bracciano, al signor Paolo Giordano Orsini, due cameroni bellissimi et ornati di  stucchi et oro riccamente, cioè in uno le storie d'Amore e di Psiche e  nell'altro, che prima era stato da altri comminciato, fece alcune storie di  Alessandro Magno, et altre che gli restarono a fare, continuando i fatti del  medesimo, fece condurre a Federigo suo fratello, che si portò benissimo. Dipinse  poi a Messer Stefano del Bufalo, al suo giardino dalla fontana di Trievi, in  fresco le Muse d'intorno al fonte Castalio et il monte di Parnaso, che fu tenuta  bell'opera.   
Avendo gl'Operai della Madonna d'Orvieto, come s'è detto nella vita di Simone Mosca, fatto fare nelle navate della  chiesa alcune capelle con ornamenti di marmi e stucchi, e fatto fare alcune  tavole a Girolamo Mosciano da Brescia, per mezzo d'amici, udita la fama di lui,  condussero Taddeo, che menò seco Federigo, a Orvieto; dove, messo mano a  lavorare, condusse nella faccia d'una di dette capelle due figurone grandi, una  per la Vita Attiva e l'altra per la Contemplativa, che furono tirate via con una  pratica molto sicura, nella maniera che faceva le cose, che molto non studiava.  E mentre che Taddeo lavorava queste, dipinse Federigo nella nicchia della  medesima capella tre storiette di San Paolo; alla fine delle quali, essendo  amalati amendue, si partirono, promettendo di tornare al settembre; e Taddeo se  ne tornò a Roma, e Federigo a Sant'Agnolo con un poco di febbre, la quale  passatagli, in capo a due mesi tornò anch'egli a Roma. Dove la settimana santa  vegnente, nella Compagnia di Santa Agata de' fiorentini, che è dietro a Banchi,  dipinsero ambidue in quattro giorni per un ricco apparato, che fu fatto per lo  giovedì e venerdì santo, di storie di chiaro scuro, tutta la Passione di Cristo  nella volta e nicchia di quello oratorio, con alcuni Profeti et altre pitture,  che feciono stupire chiunche le vide.   
Avendo poi Alessandro cardinale Farnese condotto a buon termine il suo  palazzo di Caprarola con architettura del Vignola, di cui si parlerà poco  appresso, lo diede a dipignere tutto a Taddeo, con queste condizioni, che non  volendosi Taddeo privare degl'altri suoi lavori di Roma, fusse obligato a fare  tutti i disegni, cartoni, ordini e partimenti dell'opere, che in quel luogo si  avevano a fare, di pitture e di stucchi, che gli uomini i quali avevano a  mettere in opera fussono a volontà di Taddeo, ma pagati dal cardinale, che  Taddeo fosse obligato a lavorarvi egli stesso due o tre mesi dell'anno, et ad  andarvi quante volte bisognava a vedere come le cose passavano e ritoccare  quelle che non istessono a suo modo. Per le quali tutte fatiche gli ordinò il  cardinale dugento scudi l'anno di provisione; per lo che Taddeo avendo così  onorato trattenimento e l'appoggio di tanto signore, si risolvé a posare l'animo  et a non volere più pigliare per Roma, come insino allora aveva fatto, ogni  basso lavoro, e massimamente per fuggire il biasimo che gli davano molti  dell'arte, dicendo che con certa sua avara rapacità pigliava ogni lavoro per  guadagnare con le braccia d'altri quello ch'a molti sarebbe stato onesto  trattenimento da potere studiare, come aveva fatto egli nella sua prima  giovanezza. Dal quale biasimo si difendeva Taddeo con dire che lo faceva per  rispetto di Federigo e di quell'altro suo fratello, che aveva alle spalle e  voleva che con l'aiuto suo imparasseno.   
Risolutosi dunque a servire Farnese et a finire la capella di San Marcello,  fece dare da Messer Tizio da Spoleti, maestro di casa del detto cardinale, a  dipignere a Federigo la facciata d'una sua casa, che aveva in sulla piazza della  Dogana, vicina a Santo Eustachio, al quale Federigo fu ciò carissimo, perciò che  non aveva mai altra cosa tanto desiderato quanto d'avere alcun lavoro sopra di  sé. Fece dunque di colori in una facciata la storia di Santo Eustachio quando si  battezza insieme con la moglie e con i figliuoli, che fu molto buon'opera, e  nella facciata di mezzo fece il medesimo Santo, che cacciando vede fra le corna  d'un cervio Iesù Cristo crucifisso. Ma perché Federigo quando fece quest'opera  non aveva più che ventotto anni, Taddeo, che pure considerava quell'opera essere  in luogo publico e che importava molto all'onore di Federigo, non solo andava  alcuna volta a vederlo lavorare, ma anco talora voleva alcuna cosa ritoccare e  racconciare. Per che Federigo, avendo un pezzo avuto pacienza, finalmente  traportato una volta dalla collera, come quegli che arebbe voluto fare da sé,  prese la martellina e gittò in terra non so che, che aveva fatto Taddeo, e per  isdegno stette alcuni giorni che non tornò a casa. La qual cosa intendendo  gl'amici dell'uno e dell'altro, fecciono tanto, che si rapattumarono con questo,  che Taddeo potesse correggere e mettere mano nei disegni e cartoni di Federigo a  suo piacimento, ma non mai nell'opere che facesse, o a fresco, o a olio, o in  altro modo . Avendo dunque finita Federigo l'opera di detta casa, ella gli fu  universalmente lodata e gl'acquistò nome di valente pittore.   
Essendo poi ordinato a Taddeo che rifacesse nella sala de' palafrenieri  quegl'Apostoli, che già vi aveva fatto di terretta Raffaello, e da Paolo Quarto  erano stati gettati per terra, Taddeo fattone uno, fece condurre tutti gli altri  da Federigo suo fratello, che si portò molto bene; e dopo feciono insieme nel  palazzo di Araceli un fregio colorito a fresco in una di quelle sale.  Trattandosi poi, quasi nel medesimo tempo che lavoravano costoro in Araceli, di  dare al signor Federigo Borromeo per donna la signora donna Verginia, figliola  del duca Guido Baldo d'Urbino, fu mandato Taddeo a ritrarla, il che fece  ottimamente, et avanti che partisse da Urbino fece tutti i disegni d'una  credenza, che quel Duca fece poi fare di terra in Castel Durante per mandare al  re Filippo di Spagna. Tornato Taddeo a Roma, presentò al Papa il ritratto, che  piacque assai, ma fu tanta la cortesia di quel Pontefice o de' suoi ministri,  che al povero pittore non furono, non che altro, rifatte le spese. L'anno 1560,  aspettando il Papa in Roma il signor duca Cosimo e la signora duchessa Leonora  sua consorte, et avendo disegnato d'alloggiare loro eccellenze nelle stanze che  già Innocenzio Ottavo fabricò, le quali respondono sul primo cortile del palazzo  et in quello di San Piero e che hanno dalla parte dinanzi logge che rispondono  sopra la piazza dove si dà la benedizione, fu dato carico a Taddeo di fare le  pitture et alcuni fregi che v'andavano, e di mettere d'oro i palchi nuovi, che  si erano fatti in luogo de' vecchi consumati dal tempo. Nella qual opera, che  certo fu grande e d'importanza, si portò molto bene Federigo, al quale diede  quasi cura del tutto Taddeo suo fratello, ma con suo gran pericolo perciò che,  dipignendo grottesche nelle dette logge, cascando d'uno ponte che posava sul  principale fu per capitare male. Né passò molto, ch'il cardinale Emulio, a cui  aveva di ciò dato cura il Papa, diede a dipignere a molti giovani (acciò fosse  finito tostamente) il palazzetto, che è nel bosco di Belvedere, cominciato al  tempo di papa Paolo Quarto con bellissima fontana et ornamenti di molte statue  antiche, secondo l'architettura e disegno di Pirro Ligorio. I giovani dunque,  che in detto luogo con loro molto onore lavorarono, furono Federigo Bassocci da  Urbino, giovane di grande aspettazione, Lionardo Cungii e Durante del Nero,  ambidue dal Borgo Sansepolcro, i quali condussono le stanze del primo piano. A  sommo la scala, fatta a lumaca, dipinse la prima stanza Santi Zidi, pittore  fiorentino, che si portò molto bene e la maggior, ch'è a canto a questa, dipinse  il sopra detto Federigo Zucchero, fratello di Taddeo, e di là da questa,  condusse un'altra stanza Giovanni dal Carso Schiavone, assai buon maestro di  grottesche. Ma ancor che ciascuno dei sopra detti si portasse benissimo,  nondimeno superò tutti gli altri Federigo in alcune storie che vi fece di  Cristo, come la Transfigurazione, le nozze di Cana Galilea et il centurione  inginocchiato. E di due, che ne mancavano, una ne fece Orazio Sammacchini,  pittore bolognese, e l'altra un Lorenzo Costa mantovano; il medesimo Federigo  Zucchero dipinse in questo luogo la loggetta, che guarda sopra il vivaio, e dopo  fece un fregio in Belvedere nella sala principale, a cui si saglie per la  lumaca, con istorie di Moisè e Faraone, belle a fatto. Della qual opera ne  diede, non ha molto, esso Federigo il disegno fatto e colorito di sua mano in  una bellissima carta al reverendo don Vincenzio Borghini, che lo tiene carissimo  e come disegno di mano d'eccellente pittore. E nel medesimo luogo dipinse il  medesimo l'Angelo che amazza in Egitto i primigeniti, facendosi, per fare più  presto, aiutare a molti suoi giovani. Ma nello stimarsi da alcuni le dette  opere, non furono le fatiche di Federigo e degl'altri riconosciute come  dovevano, per essere in alcuni artefici nostri, in Roma, a Fiorenza e per tutto,  molti maligni che, accecati dalle passioni e dall'invidie, non conoscono o non  vogliono conoscere l'altrui opere lodevoli et il difetto delle proprie. E questi  tali sono molte volte cagione ch'i begl'ingegni de' giovani, sbigottiti, si  raffreddano negli studii e nell'operare.   
Nell'offizio della Ruota dipinse Federigo, dopo le dette opere, intorno a  un'arme di papa Pio Quarto, due figure maggior del vivo, cioè la Giustizia e  l'Equità, che furono molto lodate, dando in quel mentre tempo a Taddeo di  attendere all'opera di Caprarola et alla capella di San Marcello. Intanto Sua  Santità, volendo finire ad ogni modo la sala de' re, dopo molte contenzioni  state fra Daniello et il Salviati, come s'è detto, ordinò al vescovo di  Furlì quanto intorno a ciò voleva che facesse, onde egli scrisse al Vasari a dì tre di settembre l'anno 1561, che  volendo il Papa finire l'opera della sala de' re, gl'aveva commesso che si  trovassero uomini, i quali ne cavassero una volta le mani, e che perciò, mosso  dall'antica amicizia e d'altre cagioni, lo pregava a voler andare a Roma per  fare quell'opera, con bona grazia e licenzia del Duca suo signore; perciò che  con suo molto onore et utile ne farebbe piacere a Sua Beatitudine, e che acciò  quanto prima rispondesse. Alla quale lettera rispondendo, il Vasari disse che, trovandosi stare molto bene  al servizio del Duca et essere delle sue fatiche rimunerato altrimenti che non  era stato fatto a Roma da altri pontefici, voleva continuare nel servigio di sua  eccellenza per cui aveva da mettere allora mano a molto maggior sala che quella  de' re non era, e che a Roma non mancavano uomini di chi servirsi in  quell'opera. Avuta il detto vescovo dal Vasari questa risposta, e con Sua Santità  conferito il tutto, dal cardinale Emulio, che novamente aveva avuto cura dal  Pontefice di far finire quella sala, fu compartita l'opera, come s'è detto, fra  molti giovani, che erano parte in Roma e parte furono d'altri luoghi chiamati. A  Giuseppe Porta da Castel Nuovo della Carfagnana, creato del Salviati, furono date due [del]le maggiori  storie della sala; a Girolamo Siciolante da Sermoneta un'altra delle maggiori et  un'altra delle minori; a Orazio Sammacchini bolognese un'altra minore, et a Livo  da Furlì una simile; a Giambattista Fiorini bolognese un'altra delle minori. La  qual cosa udendo Taddeo e veggendosi escluso, per essere stato detto al detto  cardinale Emulio che egli era persona che più attendeva al guadagno che alla  gloria e che al bene operare, fece col cardinale Farnese ogni opera per essere  anch'egli a parte di quel lavoro, ma il cardinale non si volendo in ciò  adoperare, gli rispose che gli dovevano bastare l'opere di Caprarola e che non  gli pareva dovere che i suoi lavori dovessero essere lasciati indietro per  l'emulazioni e gare degli artefici, aggiungendo ancora che quando si fa bene  sono l'opere che danno nome ai luoghi, e non i luoghi all'opere. Ma ciò  nonostante, fece tanto Taddeo con altri mezzi appresso l'Emulio, che finalmente  gli fu dato a fare una delle storie minori sopra una porta, non potendo, né per  preghi o altri mezzi, ottenere che gli fusse conceduto una delle maggiori. E nel  vero dicono che l'Emulio andava in ciò rattenuto perciò che, sperando che  Giuseppo Salviati avesse a passare tutti, era d'animo  di dargli il restante e forse gittare in terra quelle che fussero state fatte  d'altri. Poi dunque che tutti i sopra detti ebbono condotte le lor opere a buon  termine, le volle tutte il Papa vedere; e così fatto scoprire ogni cosa, conobbe  (e di questo parere furono tutti i cardinali et i migliori artefici) che Taddeo  s'era portato meglio degl'altri, come che tutti si fossero portati  ragionevolmente; per il che ordinò Sua Santità al signor Agabrio, che gli  facesse dare dal cardinal Emulio a far un'altra storia delle maggiori. Onde gli  fu allogata la testa, dove è la porta della capella Paulina, nella quale diede  principio all'opera, ma non seguitò più oltre, sopravenendo la morte del Papa e  scoprendosi ogni cosa per fare il conclave, ancor che molte di quelle storie non  avessero avuto il suo fine. Della quale storia, che in detto luogo cominciò  Taddeo, ne abbiamo il disegno di sua mano, e da lui statoci mandato, nel detto  nostro libro de' disegni.   
Fece nel medesimo tempo Taddeo, oltre ad alcune altre cosette, un bellissimo  Cristo in un quadro, che doveva essere mandato a Caprarola al cardinal Farnese,  il quale è oggi appresso Federigo suo fratello, che dice volerlo per sé mentre  che vive. La qual pittura ha il lume d'alcuni Angeli, che piangendo tengono  alcune torce. Ma perché dell'opere che Taddeo fece a Caprarola si parlerà a  lungo poco appresso nel discorso del Vignuola, che fece quella fabrica, per ora  non ne dirò altro.   
Federigo intanto, essendo chiamato a Vinezia, convenne col patriarca Grimani  di finirgli la capella di San Francesco della Vigna rimasa imperfetta, come s'è  detto, per la morte di Battista Franco viniziano. Ma inanzi che  cominciasse detta capella adornò al detto patriarca le scale del suo palazzo di  Venezia di figurette poste con molta grazia dentro a certi ornamenti di stucco,  e dopo condusse a fresco nella detta capella le due storie di Lazzero e la  conversione di Madalena. Di che n'è il disegno di mano di Federigo nel detto  nostro libro. Appresso nella tavola della medesima capella fece Federigo la  storia de' Magi a olio; dopo fece fra Ghioggia e Monselice, alla villa di Messer  Gioambatista Pellegrini, dove hanno lavorato molte cose Andrea Schiavone e  Lamberto e Gualtieri fiaminghi, alcune pitture in una loggia, che sono molto  lodate.   
Per la partita dunque di Federigo, seguitò Taddeo di lavorare a fresco tutta  quella state nella capella di San Marcello, per la quale fece finalmente nella  tavola a olio la conversione di San Paolo; nella quale si vede fatto con bella  maniera quel Santo cascato da cavallo, e tutto sbalordito dallo splendore e  dalla voce di Gesù Cristo, il quale figurò in una gloria d'Angeli, in atto a  punto che pare che dica: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?»; sono similmente  spaventati e stanno come insensati e stupidi tutti i suoi, che gli stanno  d'intorno. Nella volta dipinse a fresco dentro a certi ornamenti di stucco tre  storie del medesimo Santo: in una quando, essendo menato prigione a Roma, sbarca  nell'isola di Malta, dove si vede che nel far fuoco se gl'aventa una vipera alla  mano per morderlo, mentre in diverse maniere stanno alcuni marinari quasi nudi  d'intorno alla barca; in un'altra è quando cascando dalla finestra uno giovane,  è presentato a San Paolo, che in virtù di Dio lo risuscita; e nella terza è la  decollazione e morte di esso Santo. Nelle facce da basso sono, similmente a  fresco, due storie grandi: in una San Paolo che guarisce uno stropiato delle  gambe, e nell'altra una disputa dove fa rimanere cieco un mago, che l'una e  l'altra sono veramente bellissime. Ma quest'opera essendo per la sua morte  rimasa imperfetta, l'ha finita Federigo questo anno e si è scoperta con molta  sua lode. Fece nel medesimo tempo Taddeo alcuni quadri a olio, che  dall'ambasciatore di quel re furono mandati in Francia.   
Essendo rimaso imperfetto per la morte del Salviati il salotto del palazzo de' Farnesi,  cioè mancando due storie nell'entrata, dirimpetto al finestrone, le diede a fare  il cardinale Sant'Agnolo Farnese a Taddeo, che le condusse molto bene a fine, ma  non però passò Francesco, né anco l'arrivò, nell'opere fatte da lui nella  medesima stanza, come alcuni maligni et invidiosi erano andati dicendo per Roma,  per diminuire con false calumnie la gloria del Salviati. E se bene Taddeo si difendeva con  dire che aveva fatto fare il tutto a' suoi garzoni e che non era in quell'opera  di sua mano se non il disegno e poche altre cose, non furono cotali scuse  accettate, perciò che non si deve nelle concorrenzie, da chi vuole alcuno  superare, mettere in mano il valore della sua virtù e fidarlo a persone deboli,  però che si va a perdita manifesta. Conobbe adunque il cardinale Sant'Agnolo,  uomo veramente di sommo giudizio in tutte le cose e di somma bontà, quanto aveva  perduto nella morte del Salviati; imperò che, se bene era superbo,  altiero e di mala natura, era nelle cose della pittura veramente  eccellentissimo. Ma tuttavia essendo mancati in Roma i più eccellenti si risolvé  quel signore, non ci essendo altri, di dare a dipignere la sala maggiore di quel  palazzo a Taddeo, il quale la prese volentieri, con speranza di avere a mostrare  con ogni sforzo quanta fusse la virtù e saper suo. Aveva già Lorenzo Pucci  fiorentino cardinal Santiquattro fatta fare nella Trinità una capella e  dipignere da Perino del Vaga tutta la volta, e fuori certi  Profeti, con due putti che tenevano l'arme di quel cardinale. Ma essendo rimasa  imperfetta e mancando a dipignersi tre facciate, morto il cardinale, que' padri  senza aver rispetto al giusto e ragionevole, venderono all'arcivescovo di Corfù  la detta capella, che fu poi data dal detto Arcivescovo a dipignere a Taddeo. Ma  quando pure per qualche cagione e rispetto della chiesa fusse stato ben fatto  trovar modi di finire la capella, dovevano, almeno in quella parte che era  fatta, non consentire che si levasse l'arme del Cardinale per farvi quella del  detto Arcivescovo, la quale potevano mettere in altro luogo e non far ingiuria  così manifesta alla buona mente di quel Cardinale. Per aversi dunque Taddeo  tant'opere alle mani, ogni dì sollecitava Federigo a tornarsene da Venezia, il  quale Federigo, dopo aver finita la capella del patriarca, era in pratica di  tòrre a dipignere la facciata principale della sala grande del consiglio, dove  già dipinse Antonio Viniziano. Ma le gare e le contrarietà  che ebbe dai pittori veniziani furno cagione che non l'ebbero né essi con tanti  lor favori, né egli parimente. In quel mentre Taddeo, avendo disiderio di vedere  Fiorenza e le molte opere che intendeva avere fatto e fare tuttavia il duca  Cosimo et il principio della sala grande che faceva Giorgio Vasari amico suo, mostrando una volta  d'andare a Caprarola in servizio dell'opera che vi faceva, se ne venne, per un  San Giovanni, a Fiorenza, in compagnia di Tiberio Calcagni, giovane scultore et  architetto fiorentino, dove oltre la città gli piacquero infinitamente l'opere  di tanti scultori e pittori eccellenti, così antichi come moderni; e se non  avesse avuto tanti carichi e tante opere alle mani, vi si sarebbe volentieri  trattenuto qualche mese. Avendo dunque veduto l'apparecchio del Vasari per la detta sala, cioè quarantaquattro  quadri grandi, di braccia quattro, sei, sette e dieci l'uno, nei quali lavorava  figure per la maggior parte di sei et otto braccia, e con l'aiuto solo di  Giovanni Strada fiamingo et Iacopo Zucchi, suoi creati, e Battista Naldini, e  tutto essere stato condotto in meno d'un anno, n'ebbe grandissimo piacere e  prese grand'animo; onde, ritornato a Roma, messe mano alla detta capella della  Trinità, con animo d'avere a vincere se stesso nelle storie che vi andavano di  Nostra Donna, come si dirà poco appresso.   
Ora Federigo, se bene era sollecitato a tornarsene da Vinezia, non poté non  compiacere e non starsi quel carnovale in quella città in compagnia d'Andrea  Palladio architetto, il quale avendo fatto alli signori della Compagnia della  Calza un mezzo teatro di legname, a uso di colosseo, nel quale si aveva da  recitare una tragedia, fece fare nell'apparato a Federigo dodici storie grandi,  di sette piedi e mezzo l'una per ogni verso, con altre infinite cose de' fatti  d'Ircano, re di Ierusalem, secondo il soggetto della tragedia; nella quale opera  acquistò Federigo onore assai per la bontà di quella e prestezza con la quale la  condusse. Dopo, andando il Palladio a fondare nel Friuli il palazzo di Civitale,  di cui aveva già fatto il modello, Federigo andò con esso lui per vedere quel  paese, nel quale disegnò molte cose che gli piacquero. Poi, avendo veduto molte  cose in Verona et in molte altre città di Lombardia, se ne venne finalmente a  Firenze, quando a punto si facevano ricchissimi apparati e maravigliosi per la  venuta della reina Giovanna d'Austria. Dove arrivato, fece, come volle il  signore Duca, in una grandissima tela, che copriva la scena in testa della sala,  una bellissima e capricciosa caccia di colori et alcune storie di chiaro scuro  per un arco, che piacquero infinitamente. Da Firenze andato a Sant'Agnolo a  rivedere gli amici e' parenti, arrivò finalmente in Roma alli sedici del  vegnente genaio, ma fu di poco soccorso in quel tempo a Taddeo: perciò che la  morte di papa Pio Quarto, e poi quella del cardinal Sant'Agnolo, interroppero  l'opera della sala de' re e quella del palazzo de' Farnesi, onde Taddeo, che  aveva finito un altro appartamento di stanze a Caprarola e quasi condotto a fine  la capella di San Marcello, attendeva all'opera della Trinità con molta sua  quiete e conduceva il transito di Nostra Donna e gli Apostoli, che sono intorno  al cataletto. Et avendo anco in quel mentre preso per Federigo una capella da  farsi in fresco nella chiesa de' preti riformati del Gesù, alla guglia di San  Mauro, esso Federigo vi mise subitamente mano.   
Mostrava Taddeo (fingendosi sdegnato per avere Federigo troppo penato a  tornare) non curarsi molto della tornata di lui, ma nel vero l'aveva carissima,  come si vide poi per gl'effetti, conciò fusse che gl'era di molta molestia  l'avere a provedere la casa (il quale fastidio gli soleva levare Federigo), et  il disturbo di quel loro fratello che stava all'orefice; pure, giunto Federigo,  ripararono a molti inconvenienti per potere con animo riposato attendere a  lavorare. Cercavano in quel mentre gl'amici di Taddeo dargli donna, ma egli,  come colui che era avezzo a vivere libero e dubitava di quello che le più volte  suole avenire, cioè di non tirarsi in casa, insieme con la moglie, mille noiose  cure e fastidii, non si volle mai risolvere; anzi, attendendo alla sua opera  della Trinità, andava facendo il cartone della facciata maggiore, nella quale  andava il salire di Nostra Donna in cielo, mentre Federigo fece in un quadro San  Piero in prigione, per lo signor Duca d'Urbino, et un altro dove è una Nostra  Donna in cielo, con alcuni Angeli intorno, che doveva essere mandato a Milano;  un altro, che fu mandato a Perugia, un'Occasione.   
Avendo il cardinale di Ferrara tenuto molti pittori e maestri di stucco a  lavorare a una sua bellissima villa, che ha a Tigoli, vi mandò ultimatamente  Federigo a dipignere due stanze, una delle quali è dedicata alla Nobiltà e  l'altra alla Gloria, nelle quali si portò Federigo molto bene e vi fece di belle  e capricciose invenzioni, e ciò finito se ne tornò a Roma alla sua opera della  detta capella conducendola, come ha fatto, a fine; nella quale ha fatto un coro  di molti Angeli e variati splendori, con Dio Padre che manda lo Spirito Santo  sopra la Madonna, mentre è dall'angelo Gabriello annunziata, e messa in mezzo da  sei Profeti maggiori del vivo e molto belli. Taddeo seguitando intanto di fare  nella Trinità in fresco l'assunta della Madonna, pareva che fosse spinto dalla  natura a far in quell'opera, come ultima, l'estremo di sua possa; e di vero fu  l'ultima; perciò che infermato d'un male che a principio parve assai leggeri e  cagionato dai gran caldi che quell'anno furono, e poi riuscì gravissimo, si morì  del mese di settembre l'anno 1566, avendo prima come buon cristiano ricevuto i  Sacramenti della Chiesa e veduto la più parte dei suoi amici, lasciando in suo  luogo Federigo suo fratello, ch'anch'egli allora era amalato. E così in poco  tempo, essendo stati levati del mondo il Buonarroto, il Salviati, Daniello e Taddeo, hanno fatto  grandissima perdita le nostre arti e particolarmente la pittura. Fu Taddeo molto  fiero nelle sue cose et ebbe una maniera assai dolce e pastosa, e tutto lontana  da certe crudezze; fu abondante ne' suoi componimenti e fece molto belle le  teste, le mani e gl'ignudi, allontanandosi in essi da molte crudezze, nelle  quali fuor di modo si affaticano alcuni per parere d'intendere l'arte e la  notomia, ai quali aviene molte volte, come avenne a colui che, per volere essere  nel favellare troppo ateniese, fu da una donniciola per non ateniese conosciuto.  Colorì parimente Taddeo con molta vaghezza et ebbe maniera facile, perché fu  molto aiutato dalla natura, ma alcuna volta se ne volle troppo servire. Fu tanto  volentoroso d'avere da sé, che durò un pezzo a pigliare ogni lavoro per  guadagnare, et insomma fece molte, anzi infinite cose degne di molta lode. Tenne  lavoranti assai per condurre l'opere, perciò che non si può fare altrimenti; fu  sanguigno, subito e molto sdegnoso, et oltre cià dato alle cose veneree, ma  nondimeno, ancor che a ciò fusse inclinatissimo di natura, fu temperato e seppe  fare le sue cose con una certa onesta vergogna e molto segretamente; fu  amorevole degli amici e dove potette giovare loro se n'ingegnò sempre. Restò  coperta alla morte sua l'opera della Trinità et imperfetta la sala grande del  palazzo di Farnese, e così l'opere di Caprarola, ma tutte nondimeno rimasero in  mano di Federigo suo fratello, il quale si contentano i padroni dell'opera che  dia a quelle fine come farà, e nel vero non sarà Federigo meno erede della virtù  di Taddeo che delle facultà. Fu da Federigo data sepoltura a Taddeo nella  Ritonda di Roma, vicino al tabernacolo dove è sepolto Raffaello da Urbino del medesimo stato, e certo  sta bene l'uno a canto all'altro, perciò che sì come Raffaello d'anni  trentasette e nel medesimo dì che era nato morì, cioè il venerdì santo, così  Taddeo nacque a dì primo di settembre 1529 e morì alli due dello stesso mese,  l'anno 1566. È d'animo Federigo, se gli fia conceduto, restaurare l'altro  tabernacolo pure nella Ritonda e fare qualche memoria in quel luogo al suo  amorevole fratello, al quale si conosce obligatissimo.   
Ora perché di sopra si è fatto menzione di Iacopo Barozzi da Vignuola e detto  che secondo l'ordine et architettura di lui ha fatto l'illustrissimo cardinal  Farnese il suo ricchissimo e reale villaggio di Caprarola, dico che Iacopo  Barozzi da Vignuola, pittore et architetto bolognese, che oggi ha 58 anni, nella  sua puerizia e gioventù fu messo all'arte della pittura in Bologna, ma non fece  molto frutto, perché non ebbe buono indirizzo da principio, et anco, per dire il  vero, egli aveva da natura molto più inclinazione alle cose d'architettura che  alla pittura, come infine allora si vedeva apertamente ne' suoi disegni et in  quelle poche opere che fece di pittura, imperò che sempre si vedeva in quella  cose d'architettura e prospettiva, e fu in lui così forte e potente questa  inclinazione di natura, che si può dire ch'egli imparasse quasi da se stesso i  primi principii e le cose più difficili ottimamente in breve tempo, et onde si  videro di sua mano, quasi prima che fosse conosciuto, belle e capricciose  fantasie di varii disegni, fatti per la più parte a requisizione di Messer  Francesco Guicciardini allora governatore di Bologna, e d'alcuni altri amici  suoi, i quali disegni furno poi messi in opera di legni commessi e tinti a uso  di tarsie da fra' Damiano da Bergamo, dell'Ordine di San Domenico in Bologna.  Andato poi esso Vignola a Roma per attendere alla pittura e cavare di quella  onde potesse aiutare la sua povera famiglia, si trattenne da principio in  Belvedere con Iacopo Melighini ferrarese, architettore di papa Paolo Terzo,  disegnando per lui alcune cose di architettura; ma dopo, essendo allora in Roma  un'accademia di nobilissimi gentiluomini e signori, che attendevano alla lezione  di Vitruvio, fra' quali era Messer Marcello Cervini, che fu poi papa, monsignor  Maffei, Messer Alessandro Manzuoli et altri, si diede il Vignuola per servizio  loro a misurare interamente tutte l'anticaglie di Roma et a fare alcune cose  secondo i loro capricci, la qual cosa gli fu di grandissimo giovamento  nell'imparare e nell'utile parimente.   
Intanto, essendo venuto a Roma Francesco Primaticcio, pittore bolognese, del quale si  parlerà in altro luogo, si servì molto del Vignuola in formare una gran parte  dell'antichità di Roma, per portare le forme in Francia e gettarne poi statue di  bronzo simili all'antiche; della qual cosa speditosi il Primaticcio, nell'andare in Francia condusse  seco il Vignuola per servirsene nelle cose di architettura e perché gl'aiutasse  a gettare di bronzo le dette statue che avevano formate, sì come nell'una e  nell'altra cosa fece con molta diligenza e giudizio. E passati duoi anni, se ne  tornò a Bologna, secondo che aveva promesso al conte Filippo Pepoli, per  attendere alla fabrica di San Petronio. Nel qual luogo consumò parecchi anni in  ragionamenti e dispute con alcuni, che seco in quei maneggi competevano, senza  avere fatto altro che condurre e fatto fare con i suoi disegni il navilio che  condusce le barche drento a Bologna, là dove prima non si accostavano a tre  miglia, della qual opera non fu mai fatta né la più utile né la migliore, ancor  che male ne fosse rimunerato il Vignuola, inventore di così utile e lodevole  impresa. Essendo poi l'anno 1550 creato papa Giulio Terzo, per mezzo del Vasari fu accommodato il Vignuola per  architetto di Sua Santità e datogli particolar cura di condurre l'Acqua Vergine,  e d'essere sopra le cose della vigna di esso papa Giulio, che prese volentieri a  suo servigio il Vignuola per avere avuto cognizione di lui quando fu legato di  Bologna. Nella quale fabrica et altre cose che fece per quel Pontefice, durò  molta fatica, ma ne fu male remunerato. Finalmente avendo Alessandro cardinale  Farnese conosciuto l'ingegno del Vignuola e sempre molto favoritolo nel fare la  sua fabrica e palazzo di Caprarola, volle che tutto nascesse dal capriccio,  disegno et invenzione del Vignuola, e nel vero non fu punto manco il giudizio di  quel signore in fare elezione d'un eccellente architettore, che la grandezza  dell'animo in mettere mano a così grande e nobile edifizio, il quale, ancor che  sia in luogo che si possa poco godere dall'universale essendo fuor di mano, è  nondimeno cosa maravigliosa per sito e molto il proposito per chi vuole  ritirarsi alcuna volta dai fastidii e tumulti della città. Ha dunque questo  edificio forma di pentagono ed è spartito in quattro appartamenti senza la parte  dinanzi, dove è la porta principale, dentro alla quale parte dinanzi è una  loggia di palmi quaranta in larghezza et ottanta in lunghezza; in su uno de'  lati è girata, in forma tonda, una scala a chiocciola di palmi dieci nel vano  degli scaglioni, e venti è il vano del mezzo che dà lume a detta scala, la quale  gira dal fondo per insino all'altezza del terzo appartamento più alto, e la  detta scala si regge tutta sopra colonne doppie, con cornici che girano in tondo  secondo la scala, che è ricca e varia, cominciando dall'ordine dorico e  seguitando il ionico, corinto e composto, con richezza di balaustri, nicchie et  altre fantasie, che la fanno essere cosa rara e bellissima. Dirimpetto a questa  scala, cioè in sull'altro de' canti che mettono in mezzo la detta loggia  dell'entrata, è un appartamento di stanze che comincia da un ricetto tondo,  simile alla larghezza della scala, e camina in una gran sala terrena, lunga  palmi ottanta e larga quaranta, la quale sala è lavorata di stucchi e dipinta di  storie di Giove, cioè la nascita, quando è [nutrito] dalla capra [Amaltea] e che  ella è incoronata, con due altre storie che la mettono in mezzo; nelle quali è  quando ell'è collocata in cielo fra le quarantaotto imagini; e con un'altra  simile storia della medesima capra, che allude, come fanno anco l'altre, al nome  di Caprarola. Nelle facciate di questa sala sono prospettive di casamenti tirati  dal Vignuola e colorite da un suo genero, che sono molto belle e fanno parere la  stanza maggiore. A canto a questa sala è un salotto di palmi quaranta, che a  punto viene a essere in sull'angolo che segue, nel quale, oltre ai lavori di  stucco, sono dipinte cose che tutte dimostrano la Primavera. Da questo salotto  seguitando verso l'altro angolo, cioè verso la punta del pentagono, dove è  cominciata una torre, si va in tre camere, larghe ciascuna quaranta palmi e  trenta lunghe; nella prima delle quali è di stucchi e pitture, con varie  invenzioni, dipinta la State, alla quale stagione è questa prima camera  dedicata; nell'altra che segue, è dipinta e lavorata nel medesimo modo la  stagione dell'Autunno, e nell'ultima, fatta in simil modo, la quale si difende  dalla tramontana, è fatto di simile lavoro l'Invernata.   
E così infin qui avemo ragionato (quanto al piano che è sopra le prime stanze  sotterranee, intagliate nel tufo, dove sono tinelli, cucine, dispense, cantine)  della metà di questo edifizio pentagono, cioè dalla parte destra, dirimpetto  alla quale, nella sinistra, sono altre tante stanze a punto e della medesima  grandezza. Dentro ai cinque angoli del pentagono ha girato il Vignuola un  cortile tondo, nel quale rispondono con le loro porte tutti gl'appartamenti  dell'edifizio, le quali porte, dico, riescono tutte in sulla loggia tonda, che  circonda il cortile intorno, e la quale è larga diciotto palmi, et il diametro  del cortile resta palmi novantacinque e cinque once. I pilastri della quale  loggia, tramezzata da nicchie che sostengono gl'archi e le volte, essendo  accoppiati con la nicchia in mezzo, sono venti, di larghezza palmi quindici ogni  due, che altretanto sono i vani degl'archi. Et intorno alla loggia negl'angoli,  che fanno il sesto del tondo, sono quattro scale a chiocciola, che vanno dal  fondo del palazzo per fino in cima per commodo del palazzo e delle stanze, con  pozzi che smaltiscono l'acque piovane e fanno nel mezzo una citerna grandissima  e bellissima, per non dire nulla de' lumi e d'altre infinite commodità, che  fanno questa parere, come è veramente, una rara e bellissima fabrica; la quale,  oltre all'avere forma e sito di fortezza, è accompagnata di fuori da una scala  ovata, da fossi intorno e da ponti levatoi fatti con bell'invenzione e nuova  maniera, che vanno ne' giardini pieni di ricche e varie fontane, di graziosi  spartimenti di verzure et insomma di tutto quello che a un villaggio veramente  reale è richiesto.   
Ora, sagliendo per la chioccia grande dal piano del cortile in sull'altro  appartamento di sopra, si trovavano finite sopra la detta parte di cui si è  raggionato, altre tante stanze, e di più la capella, la quale è dirimpetto alla  detta scala tonda principale in su questo piano. Nella sala, che è a punto sopra  quella di Giove e di pari grandezza, sono dipinte di mano di Taddeo e d'i suoi  giovani, con ornamenti ricchissimi e bellissimi di stucco, i fatti degl'uomini  illustri di casa Farnese. Nella volta è uno spartimento di sei storie, cioè di  quattro quadri e due tondi, che girano intorno alla cornice di detta sala, e nel  mezzo tre ovati accompagnati per lunghezza da due quadri minori, in uno de'  quali è dipinta la Fama e nell'altro Bellona. Nel primo de' tre ovati è la Pace,  in quel del mezzo l'arme vecchia di casa Farnese col cimiero, sopra cui è un  liocorno, e nell'altro la Religione. Nella prima delle sei dette storie, che è  un tondo, è Guido Farnese con molti personaggi ben fatti intorno, e con questa  inscrizzione sotto: GUIDO FARNESJUS URBIS VETERIS PRINCIPATUM, CIVIBUS IPSIS  DEFERENTIBUS ADEPTUS, LABORANTl INTESTINIS DISCORDIIS ClVITATI, SEDITIOSA  FACTIONE EIECTA, PACEM ET TRANQUILLITATEM RESTITUIT, ANNO 1323. In un quadro  lungo è Pietro Nicolò Farnese, che libera Bologna, con questa iscrizzione sotto:  PETRUS NICOLAUS, SEDIS ROMANAE POTENTISSIMIS HOSTIBUS MEMORABILI PBAELIO  SUPERATIS, IMMINENTI OBSIDIONIS PERICULO BONONIAM LIBERAT, ANNO SALUTIS 1361.  Nel quadro, che è canto a questo, è Pietro Farnese, fatto capitano de'  fiorentini, con questa iscrizzione: PETRUS FARNESIUS REIPUBLICAE IMPERATOR,  MAGNIS PISANORUM COPIIS ... URBEM FLORENTIAM TRIUMPHANS INGREDITUR, ANNO 1362.  Nell'altro tondo, che è dirimpetto al sopra detto, è un altro Pietro Farnese,  che rompe i nemici della Chiesa romana a Orbatello, con la sua inscrizzione. In  uno de' due altri quadri, che sono eguali, è il signor Ranieri Farnese fatto  generale de' fiorentini in luogo del sopra detto signor Pietro suo fratello, con  questa iscrizzione: RAINERIUS FARNESIUS A FLORENTINIS, DIFICILI REIPUBLICAE  TEMPORE, IN PETRI FRATRIS MORTUI LOCUM, COPIARUM OMNIUM DUX DELIGITUR, ANNO  1362. Nell'altro quadro è Ranuccio Farnese fatto da Eugenio Terzo generale della  Chiesa, con questa iscrizzione: RANUTIUS FARNESIUS, PAULI TERTII PAPAE AVUS,  EUGENlO TERTIO PONTEFICE MAXIMO ROSAE AUREAE MUNERE INSIGNITUS, PONTIFICII  EXERCITUS lMPERATOR CONSTITUITUR, ANNO CHRISTI 1435. Insomma sono in questa  volta un numero infinito di bellissime figure, di stucchi et altri ornamenti  messi d'oro. Nelle facciate sono otto storie, cioè due per facciata: nella  prima, entrando a man ritta, è in una papa Giulio Terzo, che conferma Parma e  Piacenza al duca Ottavio et al principe suo figliuolo, presenti il cardinale  Farnese, Sant'Agnolo suo fratello, Santa Fiore camarlingo, Salviati il vecchio, Chieti, Carpi, Polo e  Morone, tutti ritratti di naturale con questa inscrizione: IULIUS III PONTIFEX  MAXIMUS, ALEXANDRO FARNESIO AUCTORE, OCTAVIO FARNESIO EIUS FRATRI, PARMAM  AMMISSAM RESTITUIT, ANNO SALUTIS 1550. Nella seconda è il cardinale Farnese, che  va in Vormanzia, legato all'imperatore Carlo Quinto, e gl'escono incontra sua  maestà et il principe suo figliuolo, con infinita moltitudine di baroni e con  essi il re de' romani, con la sua inscrizione. Nella facciata a man manca  entrando, è nella prima storia la guerra d'Alemagna contra i luterani, dove fu  legato il duca Ottavio Farnese l'anno 1546, con la sua inscrizione. Nella  seconda è il detto cardinale Farnese e l'Imperatore con i figliuoli, i quali  tutti e quattro sono sotto il baldacchino portato da diversi, che vi sono  ritratti di naturale, in fra i quali è Taddeo maestro dell'opera, con una  comitiva di molti signori intorno. In una delle facce, o vero testate, sono due  storie, et in mezzo un ovato, dentro al quale è il ritratto del re Filippo con  questa inscrizzione: PHILIPPO HISPANIARUM REGI MAXIMO, OB EXIMIA IN DOMUM  FARNESIAM MERITA. In una delle storie è il duca Ottavio, che prende per isposa  madama Margherita d'Austria con papa Paulo Terzo in mezzo, con questi ritratti:  del cardinale Farnese giovane e del cardinale di Carpi, del duca Pierluigi,  Messer Durante, Eurialo da Cingoli, Messer Giovanni Riccio da Monte Pulciano, il  vescovo di Como, la signora Livia Colonna, Claudia Mancina, Settimia e donna  Maria di Mendozza; nell'altra è il duca Orazio, che prende per isposa la sorella  del re Enrico di Francia, con questa inscrizzione: HENRICUS II VALESIUS GALLIAE  REX HORATIO FARNESIO CASTRI DUCI, DIANAM FILIAM IN MATRIMONIUM COLLOCAT, ANNO  SALUTIS 1552. Nella quale storia, oltre al ritratto di essa Diana col manto  reale e del duca Orazio suo marito, sono ritratti: Caterina Medici reina di  Francia, Margherita sorella del re, il re di Navarra, il connestabile, il duca  di Guisa, il duca di Nemors, l'amiraglio principe di Condé, il cardinale di  Loreno giovane, Guisa non ancor cardinale e 'l signor Piero Strozzi, madama di  Monponsier, madamisella di Roano. Nell'altra testata rincontro alla detta, sono  similmente due altre storie, con l'ovato in mezzo, nel quale è il ritratto del  re Enrico di Francia con questa inscrizione: HENRICO FRANCORUM REGI MAXIMO  FAMILIAE FARNESIAE CONSERVATORI. In una delle storie, cioè in quella che è a man  ritta, papa Paulo Terzo veste il duca Orazio, che è inginocchioni, una veste  sacerdotale e lo fa prefetto di Roma, con il duca Pierluigi appresso et altri  signori intorno, con queste parole: PAULUS III PONTIFEX MAXIMUS HORATIUM  FARNESIUM NEPOTEM SUMMAE SPEI ADOLESCENTEM PRAEFECTUM URBIS CREAT, ANNO SALUTIS  1549. Et in questa sono questi ritratti: il cardinal di Parigi, Viseo, Morone,  Badia, Trento, Sfondrato et Ardinghelli. A canto a questa, nell'altra storia, il  medesimo Papa dà il baston generale a Pierluigi et ai figliuoli, che non erano  ancor cardinali, con questi ritratti: il Papa, Pierluigi Farnese, camarlingo,  duca Ottavio, Orazio, cardinale di Capua, Simonetta, Iacobaccio, San Iacopo,  Ferrara, signor Ranuccio Farnese giovanetto, il Giovio, il Molza e Marcello  Cervini, che poi fu papa, marchese di Marignano, signor Giovambattista Castaldo,  signor Alessandro Vitelli et il signor Giovambattista Savelli.   
Venendo ora al salotto, che è a canto a questa sala, che viene a essere sopra  alla Primavera, nella volta adorna con un partimento grandissimo e ricco di  stucchi et oro, è nello sfondato del mezzo l'incoronazione di papa Paulo Terzo  con quattro vani che fanno epitaffio in croce, con queste   
parole: PAULUS III FARNESIUS PONTIFEX MAXIMUS, DEO ET HOMINIBUS  APPROBANTIBUS, SACRA TIARA SOLEMNI RITU CORONATUR, ANNO SALUTIS 1534, III  NONARUM NOVEMBRIS. Seguitano quattro storie sopra la cornice, cioè sopra ogni  faccia la sua. Nella prima il Papa benedisce le galee a Civitavecchia per  mandarle a Tunis di Barberia l'anno 1535, nell'altra il medesimo scomunica il re  d'Inghilterra l'anno 1537, col suo epitaffio; nella terza è un'armata di galee,  che prepararono l'imperadore e' viniziani contra il Turco con autorità et aiuto  del Pontefice l'anno 1538; nella quarta quando, essendosi Perugia ribellata  dalla Chiesa, vanno i perugini a chiedere perdono l'anno 1540.   
Nelle facciate di detto salotto sono quattro storie grandi, cioè una per  ciascuna faccia, e tramezzate da finestre e porte. Nella prima è in una storia  grande Carlo Quinto imperatore, che tornato da Tunis vittorioso bacia i piedi a  papa Paulo Farnese in Roma l'anno 1535; nell'altra, che è sopra la porta, è a  man manca la pace che papa Paulo Terzo, a Bussel, fece fare a Carlo Quinto  imperatore e Francesco Primo di Francia l'anno 1538, nella quale storia sono  questi ritratti: Borbone vecchio, il re Francesco, il re Enrico, Lorenzo  vecchio, Turnone, Lorenzo giovane, Borbone giovane e due figliuoli del re  Francesco. Nella terza il medesimo Papa fa legato il cardinal di Monte al  Concilio di Trento, dove sono infiniti ritratti. Nell'ultima, che è fra le due  finestre, il detto fa molti cardinali per la preparazione del Concilio, fra i  quali vi sono quattro che dopo lui successivamente furono papi: Iulio Terzo,  Marcello Cervino, Paulo Quarto e Pio Quarto. Il qual salotto, per dirlo  brevemente, è ornatissimo di tutto quello che a sì fatto luogo si conviene.   
Nella prima camera a canto a questo salotto, dedicata al vestire, che è  lavorata anch'essa di stucchi e d'oro riccamente, è nel mezzo un sacrifizio con  tre figure nude, fra le quali è un Alessandro Magno armato, che butta sopra il  fuoco alcune vesti di pelle, et in molte altre storie, che sono nel medesimo  luogo, è quando si trovò il vestire d'erbe e d'altre cose salvatiche, che troppo  sarebbe volere il tutto pienamente raccontare. Di questa si entra nella seconda  camera, dedicata al Sonno, la quale quando ebbe Taddeo a dipignere ebbe queste  invenzioni dal comendatore Anniballe Caro, di commessione del cardinale. E  perché meglio s'intenda il tutto, porremo qui l'aviso del Caro, con le sue  proprie parole, che sono queste:  
I soggetti che il cardinale mi ha comandato che io vi dia, per le pitture  del palazzo di Caprarola, non basta che vi si dichino a parole, perché oltre  all'invenzione vi si ricerca la disposizione, l'attitudini, i colori et altre  avertenze assai, secondo le descrizioni che io truovo delle cose che mi ci  paiono al proposito; per che distendarò in carta tutto che sopra ciò mi occorre  più brevemente e più distintamente ch'io potrò. E prima, quanto alla camera  della volta piatta, che d'altro per ora non mi ha dato carico, mi pare che  essendo ella destinata per il letto della propria persona di sua signoria  illustrissima, vi si debbano fare cose convenienti al luogo e fuor  dell'ordinario, sì quanto all'invenzione, come quanto all'artifizio. Ma per dir  prima il mio concetto in universale, vorrei che vi si facesse una Notte, perché  oltre che sarebbe appropriata al dormire, sarebbe cosa non molto divulgata e   sarebbe diversa dall'altre stanze e darebbe occasione a voi di far cose belle e  rare dell'arte vostra; perché i gran lumi e le grand'ombre che ci vanno soglion  dare assai di vaghezza e di rilievo alle figure, e' mi piacerebbe che il tempo  di questa Notte fosse in su l'alba, perché le cose che vi si rapresenteranno  siano verisimilmente visibili. E per venire ai particolari et alla disposizion  d'essi, è necessario che ci intendiamo prima del sito e del ripartimento della  camera. Diciamo adunque che ella sia, come è, divisa in volta et in parete, o  facciate che le vogliamo chiamare; la volta poi in un sfondato di forma ovale  nel mezzo et in quattro peducci grandi in su' canti, i quali stringendosi di  mano in mano e continuandosi l'uno con l'altro lungo le facciate, abracciano il  sopra detto ovato. Le parte poi sono pur quattro e da un peduccio all'altro  fanno quattro lunette; e per dare il nome a tutte queste parti con le divisioni  che faremo della camera tutta, potremo nominare d'ogn'intorno le parti sue da  ogni banda. Dividasi dunque in cinque siti: il primo sarà da capo, e questo  presupongo che sia verso il giardino; il secondo, che sarà l'oposito a questo,  diremo da' piè; il terzo da man destra chiamaremo destro; sl quarto dalla  sinistra, sinistro; il quinto, poiché sarà fra tutti questi, si dirà mezzo. E  con questi nomi nominando tutte le parti, diremo come dir lunetta da capo,  facciata da piedi, sfondato sinistro, corno destro, e se alcun'altra parte ci  converrà nominare; et ai peducci, che stanno nei canti fra dua di questi  termini, daremo nome dell'uno e dell'altro. Così determinaremo ancora di sotto  nel pavimento il sito del letto, il quale dovrà esser secondo me lungo la  facciata da' piè, con la testa volta alla faccia sinistra. Or nominate le parti  tutte, torniamo a dar forma a tutte insieme, di poi a ciascuna da sé.  Primieramente lo sfondato della volta, o veramente l'ovato, secondo che il  cardinale ha ben considerato, si fingerà che sia tutto cielo; il resto della  volta, che saranno i quattro peducci con quel ricinto che avemo già detto che  abbraccia intorno l'ovato, si farà parer che sia la parte non rotta dentro dalla  camera e che posi sopra le facciate con qualche bell'ordine di architettura a  vostro modo. Le quattro lunette vorrei che si fingessero sfondate ancor esse, e  dove l'ovato di sopra rappresenta cielo, queste rappresentassero cielo, terra e  mare di fuor della camera, secondo le figure e l'istorie che vi si faranno. E  perché, per esser la volta molto stiacciata, le lunette riescano tante basse che  non sono capaci se non di picciole figure, io farei di ciascuna lunetta tre  parti per longitudine, e lassando le streme a filo con l'altezza de' peducci,  sfonderei quella di mezzo sotto esso filo, per modo che ella fusse come un  finestrone alto e mostrasse il di fuora della stanza con istorie e figure grandi  a proporzione dell'altre; e le due estremità che restano di qua e di là come  corni di essa lunetta (che corni di qui inanzi si dimandaranno), rimanessero  basse, secondo che vengono dal filo in su, per fare in ciaschedun di essi una  figura a sedere o a giacere, o dentro o di fuora della stanza, che le vogliate  far parere, secondo che meglio ritornerà; e questo che dico d'una lunetta, dico  di tutt'e quattro. Ripigliando poi tutta la parte di dentro della camera  insieme, mi parrebbe che ella dovesse esser per se stessa tutta in oscuro, se  non quanto li sfondati, così dell'ovato di sopra come de' finestroni dalli lati,  gli dessero non so che di chiaro, parte dal cielo con i lumi celesti, parte  dalla terra con fuochi che vi si faranno, come si dirà poi. E con tutto ciò  dalla mezza stanza in giù vorrei che quanto più si andasse verso il da piè, dove  sarà la Notte, tanto vi fusse più scuro, e così dall'altra metà in su, secondo  che da mano in mano più si avvicinasse al capo dove sarà l'Aurora, si andasse  tutta via più illuminando. Così disposto il tutto, veniamo a divisar i soggetti  dando a ciascheduna parte il suo.   
Nell'ovato, che è nella volta, si facci a capo di essa, come avemo detto,  l'Aurora. Questa truovo che si puol fare in più modi, ma io scenò di tutti  quello che a me pare che si possi far più graziosamente in pittura. Facciasi  dunque una fanciulla di quella bellezza che i poeti si ingegnano di esprimere  con parole, componendola di rose, d'oro, di porpora, di rugiada, di simil  vaghezze, e questo quanto ai colori e carnagione. Quanto all'abito, componendone  pur di molti uno che paia più al proposito, si ha da considerare che ella, come  ha tre stati e tre colori distinti, così ha tre nomi: Alba, Vermiglia e Rancia;  per questo gli farei una vesta fino alla cintura, candida, sottile e come  trasparente; dalla cintura infino alle ginocchia una sopraveste di scarlatto,  con certi trinci e gruppi, che imitassero quei suoi riverberi nelle nuvole  quando è vermiglia; dalle ginocchia in giù fino a' piedi di color d'oro per  rappresentarla quando è rancia, avvertendo che questa veste deve esser fessa,  cominciando dalle cosce per fargli mostrare le gambe ignude; e così la veste,  come la sopraveste, siano scosse dal vento e faccino pieghe e svolazzi. Le  braccia vogliono essere ignude ancor esse d'incarnagione pur di rose; negl'omeri  gli si facciano l'ali di varii colori, in testa una corona di rose, nelle mani  gli si ponga una lampada, o una facella accesa, o vero gli si mandi avanti un  amore che porti una face et un altro dopo, che con un'altra svegli Titone; sia  posta a sedere in una sedia indorata, sopra un carro simile, tirato o da un  Pegaso alato o da dua cavalli, che nell'un modo e nell'altro si dipigne. I  colori de' cavalli siano dell'uno splendente in bianco, dell'altro splendente in  rosso per denotargli secondo i nomi che Omero dà loro di Lampo e di Fetonte;  facciasi sorgere da una marina tranquilla, che mostri di esser crespa, luminosa  e brillante. Dietro nella facciata gli si facci dal corno destro Titone suo  marito, e dal sinistro Cefalo suo innamorato; Titone sia un vecchio tutto canuto  sopra un letto ranciato, o veramente in una culla, secondo quelli che per la  gran vecchiaia lo fanno rimbambito, e facciasi in attitudine di tenerla o di  vagheggiarla o di sospirarla, come la sua partita gli rincresce; Cefalo un  giovane bellissimo vestito di un farsetto soccinto nel mezzo, con i sua usattini  in piedi, con il dardo in mano, che abbi il ferro inorato, con un cane a lato in  modo di entrare in un bosco, come non curante di lei per l'amore che porta alla  sua Procri. Tra Cefalo e Titone, nel vano del finestrone dietro l'Aurora, si  faccino spontare alcuni pochi razzi di sole di splendore più vivo di quel  dell'Aurora, ma che sia poi impedito, che non si vegga, da una gran donna, che  li si pari dinanzi. Questa donna sarà la Vigilanza e vuol esser così fatta, che  paia illuminata dietro alle spalle dal sole che nasce e che ella per prevenirlo  si cacci dentro alla camera per il finestrone che si è detto; la sua forma sia  d'una donna alta, splendida, valorosa, con gl'occhi bene aperti, con le ciglia  ben inarcate, vestita di velo trasparente fino ai piedi, succinta nel mezzo  della persona, con una mano si appoggi a un'asta e con l'altra raccolga una  falda di gonna, stia ferma sul piè destro, e tenendo il piè sinistro sospeso,  mostri da un canto di posar saldamente e dall'altro di avere pronti i passi;  alzi il capo a mirare l'Aurora e paia sdegnata che ella si sia levata prima di  lei; porti in testa una celata con un gallo suvi, il qual dimostri di battere  l'ali e di cantare; e tutto questo dietro l'Aurora; ma davanti a lei nel cielo  dello sfondato farei alcune figurette di fanciulle l'una dietro l'altra, quali  più chiare e quali meno, secondo che elle meno o più fussero appresso al lume di  essa Aurora, per significare l'Ore, che vengono inanzi al sole et a lei. Queste  Ore siano fatte con abiti, ghirlande et acconciature da vergini, alate con le  man piene di fiori, come se gli spargessero.   
Nell'opposita parte, a piè dell'ovato, sia la Notte, e come l'Aurora  sorge, questa tramonti; come ella ne mostra la fronte, questa ne volga le  spalle; questa esca di un mar tranquillo, questa se imerga in uno che sia  nubiloso e fosco; i cavalli di quella vengano con il petto inanzi, di questa  mostrino le groppe, e così la persona istessa della Notte sia varia del tutto a  quella dell'Aurora. Abbia la carnagione nera, nero il manto, neri i capelli,  nere l'ali e queste siano aperte come se volasse; tenga le mani alte e dall'una  un bambino bianco che dorma per significare il Sonno, dall'altra un altro nero,  che paia dormire e significhi la Morte, perché de ambidua questi dicesi esser  madre; mostri di cadere con il capo inanzi fitto in un'ombra più folta, et il  ciel d'intorno sia di azzurro più carico e sparso di molte stelle. Il suo carro  sia di bronzo con le rote distinte in quattro spazii, per toccare le sua quattro  vigilie. Nella facciata poi dirimpetto, cioè da' piè, come l'Aurora ha di qua e  di là Titone e Cefalo, questa abbia l'Oceano e Atlante. L'Oceano si farà dalla  destra un omaccione con barba e crini bagnati e rabbuffati, e così de' crini  come della barba gli escano a posta posta alcune teste di delfini; accennisi  appoggiato sopra un carro tirato da balene, con i tritoni davanti con le  buccine, intorno con le ninfe, e dietro alcune bestie di mare. Se non con tutte  queste cose, almeno con alcune, secondo lo spazio che averete, che mi par poco a  tanta materia. Per Atlante facciasi dalla sinistra un monte, che abbia il petto,  le braccia e tutte le parti disopra d'uomo robusto, barbuto e muscoloso, in atto  di sostenere il cielo come è la sua figura ordinaria. Più a basso medesimamente,  incontro la Vigilanzia, che avemo posta sotto l'Aurora, si dovrebbe porre il  Sonno; ma perché mi par meglio che stia sopra il letto, per alcune ragioni,  porremo in suo luogo la Quiete; questa Quiete truovo bene che ell'era adorata e  che l'era dedicato il tempio, ma non truovo già come fosse figurata; se già la  sua figura non fosse quella della Sicurtà, il che non credo, perché la sicurtà è  dell'animo e la quiete è del corpo. Figuraremo dunque la Quiete da noi in questo  modo: una giovane di aspetto piacevole, che come stanca non giaccia, ma segga e  dorma con la testa appoggiata sopra al braccio sinistro; abbi un'asta che se gli  posi sopra nella spalla e da piè ponti in terra, e sopra essa lasci cadere il  braccio spendolone e vi tenga una gamba cavalcioni in atto di posare per ristoro  e non per infingardia. Tenga una corona di papaveri et un scettro apartato da un  canto, ma non sì che non possi prontamente ripigliarlo, e dove la Vigilanza ha  in capo un gallo che canta, a questa si puol fare una gallina che covi, per  mostrare che ancora posando fa la sua azzione.   
Dentro all'ovato medesimo, dalla parte destra, farassi una Luna. La sua  figura sarà di una giovane di anni circa diciotto, grande, di aspetto virginale,  simile ad Apollo, con le chiome lunghe, folte e crespe alquanto, o con uno di  quelli cappelli in capo che si dicano acidari, largo di sotto et acuto e torto  in cima come il corno del doge, con due ali verso la fronte, che pendano e  cuoprino l'orecchie e fuori della testa con due cornette, come da una luna  crescente, o secondo Apuleio con un tondo schiacciato, liscio e risplendente a  guisa di specchio in mezzo la fronte, che di qua e di là abbia alcuni serpenti e  sopra certe poche spighe, con una corona in capo o di dittamo, secondo i Greci,  o di diversi fiori, secondo Marziano, o di elicriso, secondo alcun altri. La  veste, chi vuol che sia lunga fino a' piedi, chi corta fino alle ginocchia,  succinta sotto le mamelle et attraversata sotto l'ombilico alla ninfale, con un  mantelletto in spalla affibbiato sul destro muscolo, e con usattini in piede  vagamente lavorati. Pausania alludendo credo a Diana, la fa vestita di pelle di  cervo; Apuleio, pigliandola forse per Iside, gli dà un abito di velo  sottilissimo di varii colori: bianco, giallo, rosso, et un'altra veste tutta  nera, ma chiara e lucida, sparsa di molte stelle con una luna in mezzo e con un  lembo d'intorno, con ornamenti di fiori e di frutti pendente a guisa di fiocchi.  Pigliate un di questi abiti, qual meglio vi torna. le braccia fate che siano  ignude, con le lor maniche larghe, con la destra tenga una face ardente, con la  sinistra un arco allentato, il quale secondo Claudiano è di corno e secondo  Ovidio di oro. Fatelo come vi pare et attaccategli il turcasso agl'omeri. Si  truova in Pausania con doi serpenti nella sinistra, et in Apuleio con un vaso  dorato, col manico di serpe, il quale pare come gonfio di veleno, e col piede  ornato di foglie di palme; ma con questo credo che vogli significare Iside; però  mi risolvo che gli facciate l'arco come disopra. Cavalchi un carro tirato da  cavalli, un nero, l'altro bianco, o se vi piacesse di variare, da un mulo,  secondo Festo Pompeio, o da giovenchi, secondo Claudiano et Ausonio, e facendo  giovenchi vogliono avere le corna molte piccole et una macchia bianca sul destro  fianco. L'attitudine della Luna deve essere di mirare sopra dal cielo dell'ovato  verso il corno dell'istessa facciata che guarda il giardino, dove sia posto  Endimione suo amante e s'inchini dal carro per baciarlo; e non si potendo per la  interposizione del ricinto lo vagheggi et illumini del suo splendore. Per  Endimione bisogna fare un bel giovane pastore, adormentato a' piè del monte  Lamio.   
Nel corno dell'altra parte sia Pane, dio de' pastori, inamorato di lei, la  figura del quale è notissima. Pongaseli una sampogna al collo e con ambe le mani  stenda una matassa di lana bianca verso la Iuna, con che fingono che si  acquistasse l'amore di lei e con questo presente mostri di pregarla che scenda a  starsi con lui. Nel resto del vano del medesimo finestrone si facci un'istoria e  sia quella de' sagrificii lemurii, che usavano fare di notte per cacciare i mali  spiriti di casa. Il rito di questi era con le man lavate e co' piedi scalzi  andare attorno spargendo fava nera, rivolgendosela prima per bocca e poi  gittandosela dietro le spalle, e tra questi erano alcuni, che sonando bacini e  tali instrumenti di rame, facevano romore. Dal lato sinistro dell'ovato si farà  Mercurio nel modo ordinario con il suo cappelletto alato, con i talari a' piedi,  col caduceo alla sinistra, con borsa nella destra, ignudo tutto, salvo con  quello suo mantelletto nella spalla, giovane bellissimo, ma di una bellezza  naturale, senza artifizio alcuno; di volto allegro, d'occhi spiritosi, sbarbato  o di prima lanuggine, stretto nelle spalle e di pel rosso. Alcuni gli pongono  l'ali sopra l'orecchie e gli fanno uscire da' capelli certe penne d'oro.  L'attitudine fate a vostro modo, pur che mostri di calarsi dal cielo per  infonder sonno, e che rivolto verso la parte del letto, paia di voler toccare il  padiglione con la verga.   
Nella facciata sinistra, nel corno verso la facciata da' piè, si potria  fare i Lari dèi, che sono due figliuoli i quali erano genii delle case private,  cioè due giovani vestiti di pelli di cani, con certi abiti soccinti e gittati  sopra la spalla sinistra per modo che venghino sotto la destra per mostrare che  siano disinvolti e pronti alla guardia di casa. Stiano a sedere l'uno a canto  l'altro, tenghino un'asta per ciascuno nella destra et in mezzo di essi sia un  cane, e disopra loro sia un piccolo capo di Vulcano, con un cappelletto in testa  et a canto con una tanaglia da fabbri. Nell'altro corno verso la facciata da  capo farei un Batto, che per avere rivelato le vacche rubate da lui, sia  convertito in sasso. Facciasi un pastor vecchio a sedere, che col braccio destro  e con l'indice mostri il luogo dove le vacche erano ascoste, e col sinistro si  appoggi a un pedone o vincastro, bastone de' pastori, e da mezzo in giù sia  sasso nero di colore di paragone in che fu convertito. Nel resto poi del  finestrone dipingasi l'istoria del sacrifizio, che faceano gli antichi ad esso  Mercurio, perché il sonno non si interrompesse. E per figurare questo bisogna  fare un altare con suvi la sua statua, a piede un fuoco e d'intorno genti che vi  gettano legne ad abruciare e che con alcune tazze in mano piene di vino, parte  ne spargano e parte ne beano.   
Nel mezzo dell'ovato, per empier tutta la parte del cielo, farei il  Crepuscolo, come mezzano tra l'Aurora e la Notte. Per significare questo, truovo  che si fa un giovanetto tutto ignudo, talvolta con l'ali talvolta senza, con due  facelle accese, l'una delle quali faremo che si accenda a quella dell'Aurora e  l'altra che si stenda verso la Notte. Alcuni fanno che questo giovanetto con le  due faci medesime cavalchi sopra un cavallo del Sole o dell'Aurora, ma questo  non farebbe componimento a nostro proposito, però lo faremo come di sopra e  volto verso la Notte, ponendogli dietro fra le gambe una gran stella, la quale  fosse quella di Venere, perché Venere e Fosforo et Espero e Crepuscolo pare che  si tenga per una cosa medesima. E da questa in fuori, di verso l'Aurora, fate  che tutte le minori stelle siano sparite, et avendo infin qui ripieno tutto il  di dentro della camera, così di sopra nell'ovato, come nelli lati e nelle  facciate, resta che venghiamo al didentro, che sono nella volta i quattro  peducci, e cominciando da quello che è sopra 'l letto, che viene a essere tra la  facciata sinistra e quella da' piè, faccisi il Sonno, e per figurare lui bisogna  prima figurare la sua casa. Ovidio la pone in Lenno e ne' Cimerii, Omero nel  mare Egeo, Stazio appresso alli Etiopi, l'Ariosto nell'Arabia; dovunque si sia,  basta che si finga un monte, qual se ne può imaginare uno, dove siano sempre  tenebre e non mai sole; a' piè di esso una concavità profonda, per dove passi  un'acqua come morta, per mostrare che non mormori, e sia di color fosco, perciò  che la fanno un ramo di Lete; dentro questa concavità sia un letto, il quale  fingendo d'essere d'ebano, sarà di color nero e di neri panni si cuopra. In  questo sia collocato il Sonno, un giovane di tutta bellezza, perché bellissimo e  placidissimo lo fanno, ignudo secondo alcuni, e secondo alcuni altri vestito di  due vesti, una bianca di sopra, l'altra nera di sotto, con l'ali in sugl'omeri,  e secondo Stazio ancora nella cima del capo. Tenga sotto il braccio un corno,  che mostri rovesciare sopra 'l letto un liquore livido per denotare oblivione,  ancora che altri lo facciano pieno di frutti; in una mano abbi la verga,  nell'altra tre vesciche di papavero; dorma come infermo, col capo e con le  membra languide e come abandonato nel dormire; d'intorno al suo letto si vegga  Morfeo, Icalo e Fantaso e gran quantità di Sogni, che tutti questi sono suoi  figliuoli. I Sogni siano certe figurette alate di bell'aspetto, altre di brutto,  come quelli che parte dilettano e spaventano; abbiano l'ali ancor essi et i  piedi storti come instabili et incerti, che se ne volino e si girino intorno a  lui, facendo come una rappresentazione con trasformarsi in cose possibili et  impossibili. Morfeo è chiamato da Ovidio artefice e fingitore di figure, e però  lo farei in atto di figurare maschere di variati mostacci, ponendone alcune di  esse a' piedi; Icalo dicano che si trasforma esso stesso in più forme, e questo  figurerei per modo, che nel tutto paresse uomo et avesse parti di fiera, di  uccello, di serpente come Ovidio medesimo lo descrive; Fantaso vogliano che si  trasmuti in diverse cose insensate, e questo si puole rappresentare ancora, con  le parole di Ovidio, parte di sasso, parte d'acqua, parte di legno. Fingasi che  in questo luogo siano due porte, una di avorio onde escano i sogni falsi, et una  di corno onde escano i veri, et i veri sieno coloriti più distinti, più lucidi e  meglio fatti; i falsi, confusi, foschi et imperfetti.   
Nell'altro peduccio, tra la facciata da' piè et a man destra, farete  Brinto, dea de' vaticinii et interpretante de' sogni. Di questa non truovo  l'abito, ma la farèi ad uso di sibilla, assisa a' piè di quell'olmo descritto da  Virgilio sotto le cui frondi pone infinite imagini, mostrando che sì come  caggiano dalle sue fronde, così gli volino d'intorno nella forma che avemo loro  data, e come si è detto, quale più chiare, quale più fosche, alcune interrotte,  alcune confuse e certe svanite quasi del tutto per rappresentare con esse i  sogni, le visioni, gli oracoli, le fantasme e le vanità che si veggono dormendo,  che fin di queste cinque sorti par che le faccia Macrobio; et ella stia come in  astratto per interpretarle, e d'intorno abbi genti, che gli offeriscono panieri  pieni di ogni sorte di cose, salvo di pesce. Nel peduccio poi tra la facciata  destra e quella di capo starà convenientemente Arpocrate, dio del silenzio,  perché rappresentandosi nella prima vista a quelli che entrano dalla porta che  viene dal camerone dipinto, avvertirà gl'intranti che non faccino strepito. La  figura di questo è di un giovane o putto più tosto di colore nero, per essere  dio degli Egizii, col dito alla bocca in atto di comandare che si taccia. Porti  in mano un ramo di persico, e se pare, ghirlanda delle sue foglie. Fingano che  nascesse debile di gambe, e che essendo ucciso, la madre Iside lo resuscitasse,  e per questo altri lo fanno disteso in terra, altri in grembo di essa madre, con  piè congiunti. E per accompagnamento dell'altre figure, io lo farei pur dritto  et appoggiato in qualche modo, o veramente a sedere come quello  dell'illustrissimo cardinale Sant'Agnolo, il quale è anco alato e tiene un corno  di dovizia. Abbia gente intorno che gli offeriscono, come era solito, primizie  di lenticchie et altri legumi e di persichi sopra detti. Altri facevano per  questo medesimo dio una figura senza faccia, con un cappelletto in testa, con  una pelle di lupo intorno, tutto coperto d'occhi e di orecchi. Fate di questi  qual vi pare.   
Nell'ultimo peduccio, tra la facciata da capo e la sinistra, sarà ben  locata Angerona, dea della segretezza, che per venire di dentro alla porta  dell'entrata medesima, amonirà quelli che escono di camera a tener segreto tutto  quello che hanno inteso e veduto, come si conviene servendo a' signori. La sua  figura è d'una donna posta sopra un altare, con la bocca legata e sigillata; non  so con che abito la facessero, ma io la rivolgerei in un panno lungo che la  coprisse tutta, e mostrarei che si ristringesse nelle spalle. Faccinsi intorno a  lei alcuni pontefici dai quali se gli sacrificava nella curia inanzi alla porta,  perché non fosse lecito a persona di revelare cosa che vi si trattasse, in  pregiudizio della republica.   
Ripieni dalla parte di dentro i peducci, resta ora a dir solamente che  intorno a tutta quest'opera mi parrebbe che dovesse essere un fregio, che la  terminasse da ogn'intorno, et in questo farei o grottesche o istoriette di  figure piccole, e la materia vorrei che fusse conforme ai soggetti già dati di  sopra e di mano in mano ai più vicini. E facendo istoriette mi piacerebbe che  mostrassero l'azzioni che fanno gl'uomini et anco gl'animali nell'ora che ci  aviam proposto. E cominciando pur da capo, farei nel fregio di quella facciata,  come cose appropriate all'Aurora, artefici, operari, gente di più sorti, che già  levate tornassero alli esercizi et alle fatiche loro, come fabbri alla fucina,  litterati alli studii, cacciatori alla campagna, mulattieri alla lor via, e  sopra tutto ci vorrei quella vecchiarella del Petrarca, che (discinta e scalza  levatasi da filare accendesse il fuoco; e se vi pare farvi grottesche di  animali, fateci degl'uccelli che cantino, dell'oche che escano a pascere, de'  galli che annunziano il giorno e simili novelle. Nel fregio della facciata da'  piè, conforme alle tenebre, vi farei gente che andassero a frugnolo, spie,  adulteri, scalatori di finestre e cose tali, e per grottesche istrici, ricci,  tassi, un pavone con la ruota che significa la notte stellata, gufi, civette,  pipistrelli e simili. Nel fregio della facciata destra, per cose proporzionate  alla Luna, pescatori di notte naviganti alla busola, negromanti, streghe e  simili: per grottesche un fanale di lontano, reti, nasse con alcuni pesci  dentro, e granchi che pascessero al lume di luna, e se (il luogo n'è capace, un  elefante inginocchioni che la adorasse; et ultimamente nel fregio della facciata  sinistra, matematici con i loro strumenti da misurare, ladri, falsatori di  monete, cavatori di tesori, pastori con le mandre ancor chiuse intorno agli lor  fuochi, e simili. E per animali vi farei lupi, volpe, scimie, cuccie, e se altre  vi sono di queste sorte maliziosi et insidiatori degl'altri animali. In questa  parte ho messo queste fantasie così a caso, per accennare di che specie  invenzioni vi si potessero fare, ma per non esser cose che abbino bisogno di  essere descritte, lasso che voi ve l'imaginiate a vostro modo, sapendo che i  pittori sono per lor natura ricchi e graziosi in trovare di queste bizzarrie. Et  avendo già ripiene tutte le parti dell'opera così di dentro come di fuori della  camera, non ci occorre dirvi altro, se non che conferiate il tutto con monsignor  illustrissimo e secondo il suo gusto, agiungendovi o togliendone quel che  bisogna, cerchiate voi dalla parte vostra farvi onore. State sano. 
Ma ancora che tutte queste belle invenzioni del Caro fussero capricciose,  ingegnose e lodevoli molto, non poté nondimeno Taddeo mettere in opera se non  quelle di che fu il luogo capace, che furono la maggior parte, ma quelle che  egli vi fece furono da lui condotte con molta grazia e bellissima maniera.   
A canto a questa, nell'ultima delle dette tre camere, che è dedicata alla  Solitudine, dipinse Taddeo, con l'aiuto de' suoi uomini, Cristo che predica  agl'Apostoli nel deserto e nei boschi, con un S. Giovanni a man ritta molto ben  lavorato. In un'altra storia, che è dirimpetto a questa, sono dipinte molte  figure, che si stanno nelle selve per fuggire la conversazione, le quali  alcun'altre cercano di disturbare tirando loro sassi, mentre alcuni si cavano  gl'occhi per non vedere. In questa medesimamente è dipinto Carlo v imperatore,  ritratto di naturale, con questa inscrizione: POST INNUMEROS LABORES OCIOSAM  QUIETAMQUE VITAM TRADUXIT. Dirimpetto a Carlo è il ritratto del Gran Turco  ultimo, che molto si dilettò della solitudine, con queste parole: ANIMUM A  NEGOCIO AD OCIUM REVOCAVIT. Appresso vi è Aristotile, che ha sotto queste  parole: ANIMA FIT, SEDENDO ET QUIESCENDO, PRUDENTIOR. All'incontro a questo,  sotto un'altra figura di mano di Taddeo, è scritto così: QUAE AD MODUM NEGOCII,  SIC ET OCII RATIO HABENDA: sotto un'altra si legge: OCIUM CUM DIGNITATE,  NEGOCIUM SINE PERICULO, e dirimpetto a questa sotto un'altra figura è questo  motto: VIRTUTIS ET LIBERAE VITAE MAGISTRA OPTIMA SOLITUDO: sotto un'altra: PLUS  AGUNT QUI NIHIL AGERE VIDENTUR, e sotto l'ultima: QUI AGIT PLURIMA, PLURIMUM  PECCAT. E per dirlo brevemente, è questa stanza ornatissima di belle figure e  ricchissima anch'ella di stucchi e d'oro.   
Ma tornando al Vignuola, quanto egli sia eccellente nelle cose  d'architettura, l'opere sue stesse che ha scritte e publicate, e va tuttavia  scrivendo, oltre le fabriche maravigliose ne fanno pienissima fede, e noi nella  vita di Michelagnolo ne diremo a quel proposito quanto occorrerà. Taddeo, oltre  alle dette cose, ne fece molte altre delle quali non accade far menzione, ma in  particolare una cappella nella chiesa degl'orefici in strada Giulia, una  facciata di chiaro scuro da S; Ieronimo e la cappella dell'altare maggiore in  Santa Sabina; e Federigo suo fratello, dove in S. Lorenzo in Damaso è la  cappella di quel Santo tutta lavorata di stucco, fa nella tavola San Lorenzo in  sulla graticola et il Paradiso aperto, la quale tavola si aspetta debba riuscire  opera bellissima. E per non lasciare indietro alcuna cosa, la quale essere possa  di utile, piacere o giovamento a chi leggerà questa nostra fatica, alle cose  dette aggiugnerò ancora questa: mentre Taddeo lavorava, come s'è detto, nella  vigna di papa Giulio, e la facciata di Matiolo delle Poste, fece a monsignore  Innocenzio, illustrissimo e reverendissimo cardinale di Monte, due quadretti di  pittura, non molto grandi; uno de' quali che è assai bello (avendo l'altro  donato) è oggi nella salvaroba di detto cardinale in compagnia d'una infinità di  cose antiche e moderne, veramente rarissime, in fra le quali non tacerò che è un  quadro di pittura capricciosissimo quanto altra cosa di cui si sia fatto infin  qui menzione. In questo quadro, dico, che è alto circa due braccia e mezzo, non  si vede, da chi lo guarda in prospettiva et alla sua veduta ordinaria, altro che  alcune lettere in campo incarnato, e nel mezzo la luna, che secondo le righe  dello scritto va di mano in mano crescendo e diminuendo, e nondimeno, andando  sotto il quadro e guardando in una sfera, o vero specchio, che sta sopra il  quadro a uso d'un picciol baldacchino, si vede di pittura e naturalissimo in  detto specchio, che lo riceve dal quadro, il ritratto del re Enrico Secondo di  Francia, alquanto maggiore del naturale, con queste lettere intorno: HENRY II  ROY DE FRANCE. Il medesimo ritratto si vede, calando il quadro abbasso e posta  la fronte in sulla cornice di sopra, guardando in giù, ma è ben vero che chi lo  mira a questo modo lo vede volto a contrario di quello che è nello specchio, il  quale ritratto, dico, non si vede, se non mirandolo come di sopra, perché è  dipinto sopra ventotto gradini sottilissimi, che non si veggiono, i quali sono  fra riga e riga dell'infrascritte parole, nelle quali, oltre al significato loro  ordinario, si legge, guardando i capiversi d'ambidue gl'estremi, alcune lettere  alquante maggiori dell'altre, e nel mezzo: HENRICUS VALESIUS, DEI GRATIA,  GALLORUM REX INVICTISSIMUS. Ma è ben vero che Messer Alessandro Taddei romano,  segretario di detto cardinale, e don Silvano Razzi, mio amicissimo, i quali mi  hanno di questo quadro e di molte altre cose dato notizia, non sanno di chi sia  mano, ma solamente che fu donato dal detto re Enrico al cardinale Caraffa quando  fu in Francia, e poi dal Caraffa al detto illustrissimo di Monte, che lo tenne  come cosa rarissima, che è veramente. Le parole adunque, che sono dipinte nel  quadro e che sole in esso si veggiono da chi lo guarda alla sua veduta ordinaria  e come si guardano l'altre pitture, sono queste: 
HEUS TU QUID VIDES NIL UT REOR   
NISI LUNAM CRESCENTEM ET E   
REGIONE POSITAM QUAE, EX   
INTERVALLO, GRADATIM UTI   
CRESCIT, NOS ADMONET UT IN   
UNA SPE FIDE ET CHARITATE TV   
SIMUL ET EGO I L L U M I N A T I   
VERBO DEI CRESCAMUS, DONEC   
AB EIUSDEM GRATIA FIAT   
LUX IN NOBIS AMPLISSIMA QUI   
EST AETERNUS ILLE DATOR LUCIS   
IN QUO ET A QUO MORTAL,ES OMNES   
VERAM LUCEM RECIPERE SI   
SPERAMUS INVANUM NON SPERABIMUS 
Nella medesima guardaroba è un bellissimo ritratto della signora Sofonisba  Angusciuola di mano di lei medesima, e da lei stato donato a papa Giulio Terzo.  E, che è da essere molto stimato, in un libro antichissimo, la Bucolica,  Georgica et Eneida di Virgilio di caratteri tanto antichi, che in Roma et in  altri luoghi è stato da molti letterati uomini giudicato che fusse scritto ne'  medesimi tempi di Cesare Augusto, o poco dopo. Onde non è maraviglia se dal  detto cardinale è tenuto in grandissima venerazione.   
E questo sia il fine della vita di Taddeo Zucchero pittore.   
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