domenica 24 maggio 2020

1287. Carlo II d'Angiò, re di Sicilia.

Carlo II d'Angiò, re di Sicilia
di August Nitschke - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 20 (1977)


 

Sentimiento Nuevo - Battiato e Alice + Ensemble Symphony Orchestra


CARLO II d'Angiò, re di Sicilia. - Nacque nel 1254 da Carlo I d'Angiò e da Beatrice contessa di Provenza. Nel 1248 era morto, subito dopo la nascita, il primogenito di nome Ludovico, di modo che C. fu l'erede dei domini paterni. Quando nel 1270 Carlo I d'Angiò, che nel 1266 aveva conquistato il Regno di Sicilia, concluse un'alleanza militare con il re Stefano d'Ungheria, fu stabilito tra l'altro che C. avrebbe sposato la figlia del re, Maria. Il giorno di Pentecoste 1272 C., che l'anno precedente era stato così gravemente ammalato che la sua guarigione sembrò un miracolo, e il fratello minore Filippo, in una solenne cerimonia svoltasi a Napoli, furono armati cavalieri. Contemporaneamente il padre investì C. del principato di Salerno, della contea di Lesina e dell'onore di Monte Sant'Angelo.

Già in precedenza, il 15 febbr. 1271, durante l'assenza del padre che si era recato a Roma, C. aveva svolto per la prima volta le funzioni di vicario generale del Regno. Dal marzo fino all'inizio di giugno 1272 ricopri nuovamente questa carica, mentre alla fine del 1275 lo stesso ufficio era stato affidato a un nipote di Carlo I, il conte Roberto di Artois, che lo esercitò fino al marzo 1276. Dal 3 marzo 1276 fino al marzo 1277 fu invece di nuovo C. a ricoprire il vicariato. In questa qualità egli si doveva occupare, come del resto gli altri vicari generali prima di lui, soltanto degli affari correnti; tutti quelli di una qualche importanza erano riservati al re, il quale continuò anche a tenere il proprio registro.

Quando nella primavera del 1282 scoppiò la grande rivolta dei Siciliani contro la dominazione angioina C. si trovava in Provenza; informato dal padre, si recò alla corte del cugino Filippo III di Francia per richiedere rinforzi, ottenuti i quali nell'ottobre fece ritorno nel Regno. Ma padre e figlio si accorsero ben presto di non essere in grado di far fronte all'avanzata di Pietro d'Aragona, il quale, chiamato nell'isola come erede della tradizione sveva essendo marito della figlia di Manfredi, Costanza, nell'agosto 1282 era sbarcato a Trapani e già nell'autunno aveva cominciato l'invasione della Calabria. Da buoni cavalieri, gli Angioini erano abituati a combattere in battaglia, in campo aperto, mentre Pietro, con i suoi fanti catalani, gli almogaveri, si muoveva anche di notte: con questa tattica riuscì ad occupare una località dopo l'altra in Calabria, assalendo spesso anche le carovane che trasportavano il denaro, senza che i Francesi potessero opporre una valida resistenza. Si arrivò infine, fra Carlo e Pietro, alla decisione di risolvere la controversia con un duello che doveva svolgersi a Bordeaux, in territorio inglese. Prima della partenza per la Francia Carlo I il 12 genn. 1283 nominò C. di nuovo vicario generale del Regno, questa volta delegando tutti i poteri al figlio, che d'ora in poi tenne anche i registri. Già il 28 gennaio il principe di Salerno convocava tutti i prelati, conti, baroni e altri feudatari a un Parlamento generale e, con una lettera, invitava contemporaneamente anche le città a mandare quattro rappresentanti ognuna. Il Parlamento si riunì nel marzo nella pianura di San Martino; le consultazioni si svolsero probabilmente separatamente con i tre Corpi invitati, i prelati, la nobiltà e le città: i risultati alla fine furono infatti pubblicati separatamente per ognuno dei tre Corpi in una cedula.

Aveva contribuito a preparare il Parlamento anche il cardinale Gerardo di Sabina, il quale il 5 giugno 1282 era stato nominato legato nel Regno di Sicilia; non partecipò personalmente ma sicuramente erano state concordate con lui le clausole riguardanti il clero. I regnicoli furono infatti tenuti a pagare la decima alle chiese, mentre il clero non era sottoposto alla giurisdizione temporale, tranne che in questioni feudali: il diritto di asilo delle chiese veniva riconfermato; ai funzionari fu proibito di acquartierarsi nelle case degli ecclesiastici senza il loro consenso, e anche in questo caso era proibita la celebrazione di processi criminali; le elezioni ecclesiastiche, nel caso che non esistessero precisi diritti di patronato, venivano protette dalle interferenze dei laici; l'esenzione fiscale del clero e gli antichi privilegi della Chiesa furono riconfermati. Quanto al sistema fiscale fu stabilito che tutta la materia doveva essere riorganizzata secondo i principi validi al tempo di Guglielmo II. Alla nobiltà e ai feudatari fu permesso di contrarre matrimonio, senza consenso del re, tranne nel casi in cui venivano dati in dote dei feudi; alla nobiltà fu riconfermato inoltre il diritto di essere giudicata dai suoi pari e il servizio militare cui era obbligata fu regolato in modo a lei favorevole. Anche ai cittadini furono concessi il diritto di poter liberamente contrarre matrimonio e garanzie contro gli abusi dei funzionari. Per il conio della moneta furono stabilite norme precise. Le tasse per il rilascio di documenti furono fissate in base al tipo di documento, e fu stabilito inoltre a quali condizioni i regnicoli dovessero contribuire alla costruzione delle navi e alla riparazione dei castelli. I mercati furono tutelati.

Le disposizioni di San Martino solo in pochi punti vanno oltre le leggi più antiche, in vigore già ai tempi di Federico II, ma bisogna tener presente che la maggior parte di esse non era stata rispettata fino ad allora. Fu una novità anche la convocazione del Parlamento: da molti anni non si erano più riunite assemblee del genere, e, se erano state convocate, la loro influenza era stata pressoché nulla. Solo a partire dal Parlamento di San Martino il re cominciò a trattare abitualmente con i rappresentanti del clero, della nobiltà e delle città del Regno il quale, governato in modo centralizzato dagli Svevi e da Carlo I d'Angiò, ricevette ora una specie di costituzione corporativa.

Nella storiografia è stata sostenuta a lungo la tesi che C. avesse concordato queste misure con il padre e che egli non fosse stato altro che un esecutore fedele dei desideri di Carlo I. Ma visto che alcune leggi andavano ben oltre le precedenti disposizioni che erano state emanate dal sovrano, il quale del resto neanche più tardi fu disposto a collaborare con i rappresentanti del Regno, si è stati poi invece indotti a pensare che C. per la prima volta abbia agito in modo autonomo. è stato rilevato che un suo documento del 13 genn. 1295, nel quale egli fa esplicito riferimento alla sua attività di vicario generale e al Parlamento di San Martino, dicendo di averne promulgato i capitoli per amore dei sudditi e per sollievo delle loro sofferenze e della loro oppressione, "ultra paternam nobis traditam potestatem", cioè andando oltre le disposizioni dategli dal padre. I capitoli di San Martino sono dunque la prima testimonianza di una politica indipendente, per lo meno nei confronti del Padre. è fuori di dubbio però che C. abbia agito con l'appoggio dei suoi consiglieri, Pietro conte di Alençon, suo cugino, Ottone conte di Borgogna, Giovanni di Montfort conte di Squillace, Adenolfo d'Aquino conte di Acerra, ed è molto propabile che anche il legato pontificio Gerardo vescovo di Sabina lo abbia spinto in questa direzione.

Due mesi dopo la fine del Parlamento C., con un'azione di sorpresa, fece arrestare i più alti ufficiali finanziari del Regno. L'ondata di arresti ebbe inizio il 17 giugno, festa del Corpus Domini, ed era conclusa già il 22 dello stesso mese; il procedimento, preparato a quanto pare da tempo, giunse del tutto inatteso per quelli che ne furono colpiti: infatti fino al 16 giugno C. aveva avuto con loro rapporti diretti. Il 22 giugno, con una lettera circolare indirizzata alle città del Regno, giustificò l'operato. Era, come diceva, sua intenzione estirpare i vizi propagatisi a causa dell'immunità goduta dai colpevoli; alla corte del re erano stati autori di tutto il male, loro che ogni giorno avevano escogitato nuove oppressioni e consigliato altre rappresaglie, e con il loro disprezzo del bene generale avevano provocato la rivolta esplosa nel Regno di Sicilia. Il denaro di cui si erano appropriati - somme ingenti - fu confiscato ed utilizzato per il pagamento e l'approvvigionamento dell'esercito e della flotta. Tre dei più alti funzionari furono condannati alla forca (Angelo della Marra, suo fratello Galgano della Marra e Lorenzo Rufolo), gli altri furono condannati al pagamento di ammende enormi. Tutto questo conferma la supposizione che C. fosse seriamente intenzionato di intervenire a favore delle popolazioni oppresse dal governo del padre. Carlo I infatti, una volta tornato nel Regno, prese le sue distanze dall'azione del figlio, facendo impiccare a sua volta il giudice Tommaso da Brindisi che aveva consigliato a C. la condanna a morte del Rufolo.

L'anno successivo, il 5 giugno 1284, poco prima del ritorno di Carlo I dalla Francia, il principe di Salerno osò attaccare la flotta aragonese comandata da Ruggiero di Lauria che incrociava nel golfo di Napoli; glielo aveva consigliato il conte di Acerra, ma sconsigliato il legato Gerardo di Sabina. Nella battaglia gli Aragonesi impiegarono metodi forse poco cavallereschi, ma che ebbero pieno successo; con sommozzatori aprirono falle nelle navi francesi facendole affondare. C. stesso dovette arrendersi a Ruggiero di Lauria con numerosi nobili del suo seguito. Dopo aver ottenuto la liberazione di Beatrice, cognata di Pietro d'Aragona, tenuta fino ad allora prigioniera a Napoli, l'ammiraglio aragonese fece ritorno a Messina, dove i rappresentanti delle città siciliane chiesero la morte di C. per vendicare la morte di Manfredi e di Corradino. Solo grazie alla mediazione della regina Costanza, moglie di Pietro d'Aragona e figlia di Manfredi, si riuscì a sottrarlo alla furia del popolo e a portarlo nel castello di Cefalù. Dopo la morte di Pietro d'Aragona avvenuta nel novembre 1285 (gli successero i figli Alfonso e Giacomo, il primo in Aragona e il secondo in Sicilia), C. fu trasferito in Catalogna, ma, prima della partenza, rinunciò ai suoi diritti sull'isola di Sicilia e sul territorio dell'arcidiocesi di Reggio; ancora nel febbraio 1287, mentre era prigioniero in Spagna, sollecitò personalmente papa Onorio IV a rispettare il cosiddetto trattato di Cefalù.

Nel frattempo, il 7 genn. 1285, era morto anche Carlo I d'Angiò, lasciando il Regno senza la guida del legittimo successore. Comunque dopo la morte del re Martino IV, che sarebbe morto anch'egli di lì a poco (28 marzo 1285), aveva assegnato, il 17 sett. 1285, giusto il testamento di Carlo I, la reggenza per il figlio ancora minorenne di C., Carlo Martello, a Roberto di Artois. Il successore di Martino IV, Onorio IV, promulgò costituzioni per l'ordinamento del Regno di Sicilia, che rafforzavano le tendenze corporative del Parlamento generale di San Martino. Ai feudatari venne data piena libertà di contrarre matrimonio con la facoltà di dare in dote anche i feudi, i quali ora diventarono ereditari in linea collaterale fino alla terza generazione; essi inoltre non furono più tenuti a prestare il servizio militare al di fuori del Regno.

Nel frattempo continuò la guerra tra Francesi e Aragonesi, e fu solo grazie alla assidua mediazione del re inglese Edoardo I che nel 1288 fu stipulato ad Oléron un accordo con le clausole seguenti: a C. sarebbe stata accordata la libertà se avesse dato in ostaggio i tre figli maggiori e 50.000 marchi d'argento come garanzia. Doveva inoltre impegnarsi a indurre Carlo di Valois a rinunciare all'Aragona, che gli era stata conferita da Martino IV, e a sollecitare il papa a revocare tutte le pene; gli furono concessi tre anni di tempo per negoziare una pace tra la Chiesa, la Francia e l'Aragona che potesse soddisfare le esigenze degli Aragonesi. Se non fosse riuscito a osservare queste condizioni egli si doveva impegnare a tornare prigioniero. Il re di Francia, Filippo il Bello, impedì subito l'esecuzione del trattato, contro il quale protestò energicamente il 15 marzo 1288 anche papa Niccolò IV. Ma Inglesi e Aragonesi continuarono a negoziare, e venne così concluso il 28 ottobre, a Canfranc, un accordo non molto diverso dal primo. Questa volta anche Edoardo I s'impegnò ad adoperarsi per l'esecuzione del trattato, al quale però Niccolò IV oppose nuovamente il suo rifiuto. Nonostante ciò C. si dichiarò pronto ad accettare le condizioni postegli e fu così liberato dalla prigionia nel novembre del 1288.

In un primo momento si fermò in Francia, sensibilmente disorientato dalla sventura che gli era capitata: chiese infatti ad Alfonso d'Aragona il permesso di intitolarsi re di Sicilia nelle trattative che si era impegnato a condurre, e Alfonso gli rispose il 26 genn. 1289 che non gli sembrava opportuno che assumesse questo titolo, visto che doveva trattare la pace anche con suo fratello Giacomo, il quale usava intitolarsi anch'egli re di Sicilia. Ma la corte francese e il papa spinsero C. a far valere i suoi diritti, e alla fine egli si trasferì in Italia e fu incoronato dal pontefice la Pentecoste del 1289 (29 maggio) nella cattedrale di Rieti, re di Sicilia e di Gerusalemme, insieme alla moglie Maria. Il 12 settembre dello stesso anno Niccolò IV dichiarò illegittimi gli accordi di Oléron e di Canfranc, perché conclusi in stato di necessità, sciogliendo C. II dal giuramento prestato. Ma questi non era affatto d'accordo con questa decisione pontificia, e già ora lo opprimeva il pensiero, di non essere in grado di indurre Carlo di Valois alla rinuncia all'Aragona e il papa a perdonare gli Aragonesi, visto che Niccolò IV faceva predicare nuovamente la crociata contro l'Aragona e più tardi anche contro la Sicilia.

Gli accordi erano stati presi solo tra Alfonso d'Aragona e C. II senza includere Giacomo di Sicilia, il quale in quello stesso periodo fece conquistare dal suo ammiraglio Ruggiero di Lauria gran parte della Calabria. Alla fine del giugno 1289 Giacomo sbarcò presso Gaeta. C., il quale nel frattempo era giunto a Napoli, decise di recarsi anch'egli a Gaeta; il 18 agosto lo troviamo infatti in mezzo alle sue truppe che assediavano i Siciliani. Non approfittò tuttavia della situazione militare abbastanza favorevole per lui, ma concluse con Giacomo una tregua della quale non informò i legati pontifici, tra i quali il futuro papa Bonifacio VIII, che gli serberà rancore per questa sua iniziativa ancora al tempo del suo pontificato.

I grandi sforzi di C. II per giungere alla pace appaiono derivare dai suoi scrupoli religiosi, e soprattutto dalla sua preoccupazione sulla sorte dei figli dati in ostaggio al re d'Aragona.

Il figlio maggiore, Carlo Martello, era nato nel 1271 a Napoli, e già quando aveva solo tre anni era stato concordato dal nonno Carlo I il suo matrimonio con Clemenza, figlia di Rodolfo d'Asburgo, portata nel 1281 in Italia; durante la prigionia del padre aveva soggiornato in Provenza, insieme ai fratelli. In un primo momento era stato destinato ad andare in Catalogna come ostaggio, ma poi venne scambiato con il fratello Raimondo Berengario: si trovava dunque in libertà. Già il 9 luglio del 1289 C. aveva ordinato ai giustizieri del Regno di invitare a Napoli i conti, baroni e rappresentanti delle città per celebrare un Parlamento generale, nel corso del quale avrebbe armato cavaliere il primogenito. Il secondogenito Ludovico, nato nel 1275, si trovava insieme a Roberto, nato nel 1278, e Raimondo Berengario come ostaggio in Catalogna. Tutta la politica di C. II mirava dunque alla liberazione dei figli, alla quale doveva servire anche la tregua di Gaeta.

Da Gaeta C. tornò a Napoli, dove, come stabilito, Carlo Martello fu armato cavaliere e nominato principe di Salerno e signore dell'onore di Monte Sant'Angelo. A Napoli confermò i capitoli di San Martino e cercò di migliorarli aggiungendovi nuove leggi allo scopo di offrire alla popolazioni maggiori garanzie contro gli abusi dei funzionari regi.

Secondo le nuove disposizioni i castellani regi non dovevano più arrogarsi poteri che andassero oltre le loro competenze e ai soldati del presidio veniva proibito di portare armi fuori del castello se non per il servizio della corte. Nessuno poteva essere arrestato senza preciso mandato del re, come non potevano essere sequestrati beni senza l'autorizzazione regia. Ai funzionari era proibito di requisire animali per il proprio uso. Un altro capitolo vietava l'occupazione da parte dei familiari regi degli alloggi assegnati loro dal maresciallo o dal suo sostituto oltre i periodi di presenza della corte contro il volere dei proprietari. Ai giustizieri e agli altri funzionari veniva nuovamente ingiunto di non accettare doni. Inoltre veniva stabilito che il maestro giustiziere e i giudici della Magna Curia si dovevano recare periodicamente nelle singole province, a questo scopo suddivise di nuovo, per indagare sugli abusi dei giustizieri e degli altri funzionari e porvi rimedio. Se c'era necessità di rimuovere dai loro uffici il giustiziere o altri funzionari, il re o il suo vicario doveva essere immediatamente informato per iscritto. Per impedire la corruzione dei giustizieri, giudici e notai furono raddoppiati i loro stipendi, pagati dal Tesoro regio.

Veniva inoltre decisa l'istituzione di due registri dove erano trascritte tutte le proprietà e i loro confini: a tali registri si doveva ricorrere in tutte le controversie riguardanti le proprietà del re, della Chiesa, dei conti e dei baroni. La tortura, usata troppo spesso dai funzionari, era limitata a pochi casi, come il crimine di lesa maestà, il brigantaggio e alcuni delitti meno comuni, e doveva essere applicata solo quando a carico dell'imputato vi fossero indizi sufficienti; venivano regolate anche la procedura da seguire in caso di arresto e di rilascio del carcerato, ed altre materie come i diritti di successione.

Nel complesso, i primi capitoli promulgati da C. II nella sua veste di re dimostrano chiaramente che egli era fermamente deciso a proseguire sulla strada imboccata già a San Martino. Aveva soprattutto l'intenzione di dare alla popolazione garanzie contro gli abusi dell'amministrazione e di punire coloro che si erano resi colpevoli di vessazioni nei confronti dei sudditi, allo scopo di mitigare il peso della dominazione francese. Tuttavia, per fare rispettare le nuove leggi, egli non si sarebbe più dovuto allontanare dal Regno, cosa impossibile finché durava la guerra con Alfonso d'Aragona e Giacomo di Sicilia: per concludere la pace e per liberare i suoi figli era costretto a continuare le sue trattative con il papa, i Francesi e gli Inglesi, doveva cioè abbandonare il suo Regno. Non si sentiva ancora sciolto dal giuramento prestato ad Alfonso per ottenere la sua liberazione, era convinto di dover tornare in prigionia, visto che non era riuscito a concludere la pace: non lo tranquillizzavano neanche le iniziative prese da Niccolò IV. Prima della partenza nominò Carlo Martello suo vicario (settembre 1289) e il cugino Roberto conte di Artois, che più tardi fu sostituito da Giovanni di Montfort conte di Squillace, capitano generale del Regno.

Il 1º nov. 1289 C. II si presentò al colle di Panizar sul confine aragonese, per tornare in prigionia. Ma nessuno lo aspettava. Si fece dunque attestare di avere rispettato le clausole del trattato, e poi si mise in viaggio per Parigi con l'intenzione di tentare ancora una volta di convincere Filippo il Bello e Carlo di Valois a concludere la pace.

Nel 1290 morì Ladislao IV d'Ungheria, l'ultimo re della dinastia degli Arpadi. La sua eredità fu rivendicata da due suoi parenti, da Andrea il Veneziano e da Maria, moglie di C., la quale il 21 settembre 1290 mandò in Ungheria i suoi procuratori per ricevere il giuramento di fedeltà dalla popolazione; intendeva salvaguardare i suoi diritti nell'interesse del figlio maggiore Carlo Martello. Ma anche il re de' Romani Rodolfo d'Asburgo rivendicava diritti sul Regno ungherese in quanto, a suo dire, feudo dell'Impero, e ne investì il figlio Alberto d'Austria. Papa Niccolò IV dal canto suo dichiarava che l'Ungheria apparteneva alla Chiesa romana, visto che la corona era stata mandata agli Ungheresi da Gregorio V, e difendeva i diritti di Carlo Martello.

Nel frattempo C. II fece una nuova proposta a Filippo il Bello: Carlo di Valois avrebbe dovuto sposare una sua figlia, alla quale avrebbe dato in dote le contee di Angiò e di Maine. La proposta alla fine fu accettata e così nel 1291, a Tarascona, si venne alla conclusione di una pace separata tra la Francia e l'Aragona con le clausole seguenti: Alfonso doveva sottomettersi al papa, che l'avrebbe perdonato, e liberare gli ostaggi; Carlo di Valois avrebbe rinunciato alle sue rivendicazioni sull'Aragona in cambio dell'Angiò e del Maine; anche Giacomo di Sicilia si doveva sottomettere al papa. Se si fosse rifiutato, Alfonso non avrebbe più sostenuto né il fratello né i Siciliani. Il negoziato si svolse nel febbraio, ma il 3 giugno 1291 sopravvenne improvvisamente la morte di Alfonso d'Aragona cui successe il fratello Giacomo, e questi tenne unite nelle sue mani la Sicilia e l'Aragona e nominò luogotenente in Sicilia il fratello Federico che vi esercitò il governo insieme con la madre Costanza e l'ammiraglio Ruggiero di Lauria. Giacomo fece subito sapere di essere pronto a negoziare, senza però sentirsi vincolato dagli accordi di Tarascona. C. venne dunque costretto a fare nuove proposte. Giacomo preferì per il momento concludere un'alleanza con la Castiglia impegnandosi a sposare Isabella, figlia di re Sancho. Gli accordi furono ratificati il 28 nov. 1291.

Il 6 genn. 1292 la regina Maria, che in quel momento si trovava insieme con il marito ad Aix-en-Provence, mandò a Napoli un diploma con cui investì il figlio Carlo Martello del regno d'Ungheria. Il 7 febbr. seguente C. informò i prelati, i grandi, i nobili e il pppolo ungherese che la moglie Maria aveva ceduto al figlio Carlo Martello il regno e li invitò a riconoscerlo come loro sovrano. Dal 17 aprile Carlo Martello cominciò a contare gli anni del suo regno in Ungheria.

Per accelerare le trattative, C. si recò di nuovo nelle vicinanze del confine aragonese, e nell'aprile del 1293 si incontrò con Giacomo a Pontoise, discutendo con lui i punti seguenti: Giacomo e Federico d'Aragona, una volta conclusa la pace, dovevano essere sciolti dalla scomunica; Filippo il Bello e Carlo di Valois rinunciavano all'Aragona in cambio della Sicilia, che Giacomo avrebbe restituito agli Angioini, entro il termine massimo di tre anni dalla conclusione della pace; gli ostaggi dovevano invece essere rilasciati subito. Ma tutte queste proposte furono di nuovo messe in discussione nelle trattative successive. Nel dicembre del 1293 C. e Giacomo II si incontrarono nuovamente e furono discussi ancora una volta i vecchi progetti: la Sicilia doveva essere restituita alla Chiesa entro tre anni, e se i Siciliani si fossero opposti all'ordine del papa, Giacomo doveva impegnarsi a muovere loro guerra. Nello stesso tempo fu progettato un legame matrimoniale tra le due famiglie reali. Gli ostaggi dovevano essere liberati subito dopo la conclusione della pace.

In seguito C. cercò di ottenere consensi per questo accordo, fermandosi dal 21 al 29 marzo 1294 a Perugia, dove i cardinali, riuniti in conclave, dichiararono di non essere autorizzati a decidere sulla questione. Si mise allora di nuovo in viaggio e, passando per Sulmona, dove fece visita all'eremita Pietro del Morrone, giunse infine a Napoli. Poco tempo dopo i cardinali elessero papa, con un voto a sorpresa, proprio Pietro del Morrone, che assunse il nome di Celestino V. è molto probabile che C. II abbia influenzato questa scelta, favorevole a lui ma certamente poco conveniente per la Chiesa: il pio eremita, pur disponendo di qualche esperienza di amministrazione, non era minimamente preparato a reggere la Chiesa romana e il Patrimonio.

Dopo l'elezione C. si mise subito in contatto con Celestino V, che non si recò a Roma, ma invitò i cardinali a raggiungerlo all'Aquila, dove si trasferirono anche C. II con il primogenito Carlo Martello. In occasione dell'ingresso del papa in città a dorso di un asino, il re e Carlo Martello gli tennero le redini. Da allora tutte le decisioni del papa furono prese sotto la sua influenza; già il 13 ag. 1294, mentre si trovava ancora all'Aquila, Celestino V nominò il protonotaro del Regno, Bartolomeo da Capua, notaio pontificio. Un'annotazione nel registro dimostra chiaramente lo scopo da lui perseguito: "Bartolomeo fu recentemente assunto a notaio pontificio su nostra proposta e con il nostro consenso e supponiamo che in quest'ufficio ci recherà servizi non minori ma maggiori di prima". Poi C. II indusse il papa a trasferirsi a Napoli anziché a Roma, nella speranza di poter influenzare più agevolmente la prossima elezione pontificia: Celestino V infatti era già molto vecchio e nel luogo dove moriva un papa di solito si riuniva il conclave. Tuttavia i cardinali, che temevano proprio quest'evenienza, gli fecero giurare di non trattenere il pontefice nel Regno all'avvicinarsi della morte. Ma durante il viaggio a Napoli, a San Germano, C. convinse il papa ad annullare con una bolla questo giuramento perché contrario al regolamento del conclave; a Napoli riuscì a far nominare a cariche pontificie altre persone di sua fiducia ed addirittura nuovi cardinali pronti a sostenere la sua politica. Celestino V revocò anche la disposizione di Niccolò III che vietava l'elezione di re e principi a senatori di Roma, ma la cosa più importante era che dava il suo consenso ai progetti di C. per la pace: infatti già dall'Aquila il 1º ott. 1294, aveva dichiarato di approvare l'accordo concluso con Giacomo II per quel che riguardava la Chiesa romana. A Celestino V si rivolse anche per chiedere il suo consenso Ludovico, il giovane figlio di C. che aveva deciso in Catalogna, dove viveva come ostaggio, di ritirarsi in convento; il papa nel 1294 gli permise di entrare nell'Ordine dei francescani.

A Napoli anche Celestino V si rese conto di essere poco atto a reggere la Chiesa e decise di dimettersi. Quando C. seppe di questa intenzione gli suggerì di trasmettere il potere pontificio a tre cardinali che l'avrebbero esercitato collegialmente, e il papa fece preparare una minuta in questo senso; ma quando il cardinale Matteo Orsini ne venne a conoscenza gli dichiarò che una cosa del genere era del tutto impossibile. Così si venne all'abdicazione di Celestino e all'elezione di Benedetto Caetani, che assunse il nome di Bonifacio VIII.

Dopo la sua elezione Bonifacio VIII trasferì la residenza pontificia da Napoli a Roma e i funzionari che C. era riuscito ad inserire nell'ammistrazione pontificia dovettero ritirarsi, ma il re dette il suo appoggio anche al nuovo papa e lo accompagnò, insieme a Carlo Martello e a Bartolomeo da Capua, fino a Roma. In occasione della sua incoronazione il 23 genn. 1295, il re e il figlio tennero le briglie del cavallo bianco sul quale Bonifacio VIII si recò a S. Pietro e servirono il papa, loro signore feudale, durante il banchetto che seguì. Il papa dal canto suo gli prorogò il pagamento del censo non pagato e da pagare nei prossimi anni.

BonifacioVIII appoggiò anche, come aveva già fatto Celestino V, i progetti di C. II per giungere alla conclusione della pace, assumendo egli stesso la direzione delle trattative. Il 31 maggio 1295 invitò Federico d'Aragona a rinunciare all'isola di Sicilia e fece anche pressione sul re di Francia, che con i propri progetti metteva in pericolo i negoziati; ma soprattutto esortò Giacomo II a realizzare al più presto il suo matrimonio con la figlia di C., Bianca. Così nel giugno 1295 ad Anagni fu definita la pace con una serie di clausole particolari: Giacomo sposa Bianca; tutti gli ostaggi vengono liberati; Giacomo II restituisce a C. II i territori occupati in terraferma con le isole annesse e libera tutti i prigionieri; C. si adopera presso il papa per la revoca della scomunica e dell'interdetto lanciato contro l'Aragona e contro la Sicilia; Filippo il Bello e Carlo di Valois rinunciano all'Aragona, il papa riconosce Giacomo in tutti i diritti e i regni posseduti da Pietro III d'Aragona prima della sua scomunica; Giacomo II cede la Sicilia e le isole annesse alla Chiesa e ne revoca tutti i suoi funzionari.

Il 19 ag. 1295morì Carlo Martello preceduto di poco dalla moglie. Poco dopo i figli minori di C., liberati, fecero ritorno nel Regno. Ludovico nel 1296vestì l'abito dei francescani nellachiesa romana dell'Aracoeli, alla presenza del padre e di Bonifacio VIII e rinunciò a tutti i suoi diritti di successione nel Regno a favore del fratello Roberto. In seguito il papa lo consacrò vescovo di Tolosa. La pace, tuttavia, fu rotta già all'inizio del 1296, quando i Siciliani, nel corso di un Parlamento a Catania, elessero all'unanimità Federico d'Aragona loro re. Il 2 febbr. 1296 Roberto d'Angiò fu armato cavaliere; il 13 febbraio C. II lo nominò duca di Calabria e vicario generale del Regno. La guerra intanto si riaccese di nuovo. Il 20 ott. 1296 le navi di Federico sconfissero la flotta angioina presso Ischia. Si era dunque verificato il caso previsto nelle clausole della pace: Giacomo II doveva combattere contro i Siciliani, e anche contro il proprio fratello. Nel 1297 egli fu nominato gonfaloniere e grande ammiraglio della Chiesa. Nello stesso anno Roberto sposò la sorella di Giacomo, Violante. Ludovico d'Angiò, che aveva raggiunto Tolosa, decise di rinunciare al suo vescovato per vivere in un convento del suo Ordine, morì durante il viaggio a Roma, il 19 ag. 1298.

Le lotte degli anni successivi non decisero sul piano militare le sorti della guerra. Nell'agosto del 1298 Roberto d'Angiò, duca di Calabria, sbarcò nell'isola e poté impradonirsi di varie località sulla costa, mentre Giacomo d'Aragona pose l'assedio a Siracusa, senza tuttavia riuscire ad espugnarla. Infruttuosa rimase anche la successiva spedizione iniziata nel giugno del 1299 sempre sotto il comando di Giacomo d'Aragona e di Roberto di Calabria investito per l'occasione del titolo di vicario generale e perpetuo dell'isola di Sicilia. Il 1º dic. 1299 le truppe angioine, comandate da Filippo principe di Taranto che erano sbarcate vicino a Trapani, subirono una gravissima sconfitta presso Falconaria; il principe stesso cadde prigioniero. Queste iniziative di C. II suscitarono la più decisa opposizione di Bonifacio VIII; questi, il 9 genn. 1300 gli indirizzò una lettera, in cui deplorava aspramente il suo operato, minacciandogli la scomunica nel caso che avesse intavolato trattative con Federico III, e dichiarò nulli già in anticipo tutti i suoi eventuali accordi con Federico.

Nello stesso 1300 C. II chiese al pontefice la canonizzazione del figlio Ludovico e sempre nel 1300 iniziò anche la campagna contro la città saracena di Lucera, ordinando a Giovanni Pipino da Barletta di raderla al suolo cacciando i Saraceni insediativi da Federico II. La campagna ebbe pieno successo, e la città popolata di nuovi abitanti fu chiamata la città di Santa Maria.

Nel 1301 venne nel Regno Carlo di Valois per combattere contro la Sicilia, ma le trattative sulle modalità della spedizione si trascinarono fino al 1302; C. malgrado le grandi speranze che aveva suscitato, la campagna non ebbe il successo desiderato. Così il 31 ag. 1302 si arrivò alla pace di Caltabellotta, nella quale fu accordata a Federico d'Aragona la mano di una figlia di C. e il possesso della Sicilia vita natural durante.

In tal modo si era conclusa la guerra durata per due decenni, e C. II poté finalmente pensare ad altri progetti. Nel 1303 Bonifacio VIII mandò in Ungheria un cardinal legato, il quale assegnò il regno a Caroberto, primogenito di Carlo Martello. Già prima vi aveva rinunciato Alberto d'Austria, mentre Andrea il Veneziano era morto nel 1301. Gli Ungheresi però avevano eletto re dopo la sua morte il principe Venceslao di Boemia, e perciò si opponevano a Caroberto, il quale solo in seguito riuscì a crearsi più consistenti appoggi nel regno.

Nel 1305 Roberto duca di Calabria fu nominato capitano generale delle città guelfe di Toscana e alla testa di truppe guelfe assediò vanamente Pistoia. Nel frattempo era stato eletto a Perugia il papa francese Clemente V (5 giugno 1305), elezione certamente gradita e anche favorita da Carlo II. Il nuovo papa decise di non trasferirsi in Italia e di stabilire la sua residenza al Avignone. Per facilitare i rapporti con lui Roberto fu nominato vicario generale di Provenza e Forcalquier.

In Piemonte Manfredi di Saluzzo si era impadronito di gran parte dei possedimenti una volta in possesso di Carlo I. Tra il 1304 e il 1305 C. II riuscì a restaurarvi il dominio angioino con il passaggio dalla sua parte di numerose città della regione. Alla fine del 1304 nominò il figlio Raimondo Berengario conte di Piemonte e, dopo la sua morte improvvisa alla fine di ottobre del 1305, manda nella regione truppe, le quali, con l'appoggio di Asti, occuparono Cuneo: il 7 febbr. 1306 Manfredi di Saluzzo venne ai patti, riconoscendo le rivendicazioni angioine. Il 14 febbraio successivo il re unì la contea di Piemonte a quelle di Provenza e di Forcalquier, e da allora si intitolò anche conte di Piemonte.

Nello stesso periodo Filippo di Taranto poté acquistare il dominio sul principato di Acaia, che già il nonno Carlo I aveva rivendicato nella sua qualità di erede dei diritti della nuora, moglie del figlio Filippo morto in giovane età. Il figlio omonimo di C. II, aveva anch'egli acquistato, mediante il suo matrimonio con Caterina di Valois, diritti in Acaia e cercò dunque di consolidare il suo possesso. Tramite i figli, C. cercò dunque di estendere il suo dominio, sia al Nord sia in Oriente.

In campo economico, C. seguì, come il padre, le tradizioni sveve. Da buoni mercanti, i re angioini sapevano bene fare i conti, come dimostra la politica monetaria; C. aveva promesso a San Martino di non alterare le monete e Onorio IV, nelle sue costituzioni, aveva vietato il loro cambio troppo frequente. Il re poteva coniare nuova moneta una sola volta nel corso del suo regno, dopo aver ascoltato gli esperti, ma in realtà nel solo periodo tra il 1301 e il 1302 il peso dei carlini d'oro fu cambiato ben tre volte; nel 1303 C. II lo modificò ancora, procurandosi vantaggi temporanei, con una politica, però, che finiva per essere dannosa per l'economia del Regno. Per il resto il re cercò di esercitare un controllo positivo sulla vita economica: furono creati pesi di controllo, con i quali i bottegai dovevano confrontare i propri, e nel 1299 il re esortò esplicitamente i cittadini d'Aversa a rispettare questa disposizione, ripetuta nel 1305 ancora una volta.

Tuttavia nelle città le lotte tra fazioni impedivano un deciso sviluppo delle attività mercantili: nel 1305, ad es., Napoli fu turbata da un sanguinoso conflitto tra fazioni nobiliari. Inoltre, nelle campagne il commercio era gravemente ostacolato dalle numerose bande di briganti che controllavano molte strade. Per combattere il banditismo C. permise contro i briganti la pratica della tortura.

Per quanto riguarda le attività manifatturiere, già favorite da Federico II e Carlo I, C. II sostenne soprattutto quelle dei panni. A tale scopo si rivolse all'Ordine degli umiliati, fondato nel 1196 a Milano, che prescriveva ai suoi appartenenti il lavoro manuale, e che a Firenze esercitava la manifattura; il 23 giugno 1308 concluse un accordo con il frate Daniele, il quale si impegnò a insediare a Napoli e nei luoghi vicini frati e maestri esperti in tale arte. Nell'agricoltura il sovrano cercò anzitutto di tutelare i contadini contro gli abusi dei funzionari regi: uno dei capitoli di San Martino ordinava infatti di stabilire i confini delle foreste regie per evitare che i contadini confinanti fossero molestati dai forestari. Naturalmente l'agricoltura era considerata anche sotto l'aspetto militare: erano sottoposti a controllo specialmente gli animali utili per la guerra, come i muli e i cavalli, di cui era proibita l'esportazione, mentre quella di altri animali era libera. Nei capitoli del 1282 veniva perciò ordinato ai magistri passuum di sorvegliare severamente i confini.

Il commercio interno del Regno si svolgeva soprattutto nelle zone lungo la costa, e perciò fu stabilito nei capitoli di San Martino che ai prelati, baroni e cittadini era permesso di trasportare grano da un porto all'altro senza dover pagare pedaggi; la stazza delle navi tuttavia doveva essere modesta e dovevano essere utilizzati solo i porti previsti dal decreto. Per tutti gli altri trasporti su nave si dovevano pagare tributi che venivano fissati anno per anno, ma che qualche volta cambiavano anche durante l'anno, come avvenne per esempio, nel 1299.

Sull'esempio del padre, C. II concesse privilegi ai principali porti del Regno. Nel 1301 confermò i privilegi di Manfredonia, città che viveva soprattutto del commercio del grano. Altri porti importanti sulla costa orientale erano Trani, Barletta, Bari, Brindisi e Villanova, che durante la guerra del Vespro avevano subito le incursioni dei Siciliani. Nel 1306 C. II fece riparare il porto di Trani, diminuendo contemporaneamente i tributi della Comunità.

Tra tutte le città del Regno la più importante era Napoli, e alla sua capitale C. II dedicò cure particolari. Il porto fu ampliato; i lavori cominciarono nel 1302 sotto la direzione del protomagister Riccardo Primario da Napoli; erano controllati da una commissione di nobili e cittadini ragguardevoli e, nonostante la grande tempesta del 1305, erano quasi terminati al momento della morte del sovrano. Per finanziarli questi aveva dovuto imporre un'imposta speciale, contro la quale la cittadinanza di Napoli protestò nel 1306. Nella capitale furono anche creati nuovi quartieri vicini al mare e alla residenza regia, nei quali andavano ad abitare soprattutto i forestieri, fiorentini, pisani, marsigliesi, genovesi ed amalfitani.

Come già il padre C. II favorì la attività di mercanti stranieri. Nel 1299 permise a quelli catalani di fondare proprie case a Napoli e in "altre famose città" del Regno, dove avevano filiali anche i mercanti dell'Italia centrale e settentrionale. Nel 1301 fu concluso un accordo speciale con Venezia; alcuni mercanti veneziani avevano le proprie case a Napoli, altri commerciavano nei porti pugliesi. Esportavano dal Regno olio d'oliva, carne in salamoia, sale e grano, e importavano stoffe ed armi. Ma la potenza commerciale più importante per C. era Firenze, la quale gli aveva prestato le somme necessarie per la guerra siciliana. Già durante la prigionia era stato aiutato dagli Acciaiuoli, e tra i mercanti fiorentini attivi nel Regno vanno ricordati inoltre i Mozzi, i Bardi, i Peruzzi, gli Scali, gli Aldobrandini e i Visdomini. Dopo la pace di Caltabellotta altri impegni richiedevano denaro: l'abbellimento della capitale, l'ampliamento del suo porto, la costruzione di chiese, come S. Luigi di Aversa, S. Agostino e S. Maria Maddalena a Napoli, e della cattedrale di S. Maria a Lucera, che erano tutte chiese decorate da artisti toscani e romani. Anche le decorazioni dei palazzi di Casanova, Carbonara e Castelnuovo furono molto costose. Le trattative condotte da Carlo Martello riguardo all'Ungheria e quelle di Filippo principe di Taranto riguardo all'Acaia furono in parte finanziate da fiorentini, che, come per esempio i Peruzzi, concessero prestiti quasi illimitati ottenendo in cambio monopoli e altri privilegi; C. II e il figlio Roberto accordarono loro inoltre protezione militare. Spesso i rapporti divennero molto stretti: vari mercanti, infatti, sedevano nel Consiglio dei familiari del re.C. II non fu stimato da molte delle persone che gli erano vicine. Soprattutto suo padre e papa Bonifacio VIII, tutt'e due politici molto attivi, gli mossero rimproveri di ogni genere e spesso lo accusarono di debolezza. La sua religiosità era forse inconsueta per un uomo politico e i cavalieri probabilmente la deridevano. Ma proprio grazie al suo carattere egli riuscì di accattivarsi il consenso di buona parte della popolazione. Egli infatti, più di altri sovrani del suo secolo, rispettò i diritti dei suoi sudditi, e ancora nel suo testamento del 1308 dispose che, se la colletta generale che veniva imposta annualmente fosse risultata illegittima, si sarebbe dovuto abolirla a tutti i costi.

C. morì il 5 maggio 1309 a Napoli. Il figlio e successore Roberto scrisse che egli era vissuto "come un principe cattolico, onorevolmente ed esemplarmente".


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1287. Pietro I di Sicilia, III d'Aragona.

Pietro I di Sicilia, III d'Aragona
di Pietro Corrao - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 83 (2015)



PIETRO I di Sicilia, III d’Aragona. – Nacque nel luglio del 1240 da Giacomo I d’Aragona e dalla seconda moglie di questi, Violante d’Ungheria.

Nominato procuratore generale della Catalogna nel 1257, alla morte del fratellastro Alfonso, primogenito di Giacomo, divenne erede dei domini paterni, dai quali il padre separò il Regno di Maiorca, destinato a un altro figlio. Come erede della Corona aragonese, nel 1262 ricevette la procura generale dei domini iberici del padre. Nello stesso anno sposò Costanza, figlia di Manfredi re di Sicilia, aprendo così la strada a una possibile rivendicazione dell’eredità del Regno siciliano da parte della dinastia aragonese. Nel 1269 esercitò la Luogotenenza generale, in occasione dell’assenza del sovrano, impegnato nella crociata. La politica autonoma che sviluppò nei regni come procuratore fu successivamente all’origine di un contrasto con il padre, che lo privò della carica per un breve periodo nel 1272. Riconciliatosi con Giacomo, alla morte di questi, nel 1276, gli subentrò come re d’Aragona e Valencia e come conte di Barcellona.
La molteplicità di tali titoli è all’origine di una diversa numerazione nell’intitolazione del sovrano: Pietro risulta formalmente il terzo di tale nome nella dinastia dei re d’Aragona, ma solo il secondo nella discendenza dei conti di Barcellona. La successiva incoronazione come re di Sicilia nel 1282 aggiunse un’ulteriore opzione, essendo Pietro il primo re di questo nome a regnare nell’isola.



La lunga carriera politica come procuratore generale del padre, che nella peculiare tradizione della dinastia aragonese prevedeva amplissime responsabilità di governo e possibilità di intervento autonomo negli affari dei regni, guadagnò a Pietro una profonda esperienza negli affari politici, e probabilmente fu anche alla base dell’apertura di un nuovo fronte negli orientamenti della Corona aragonese, quello dell’espansione oltremare dei domini della dinastia, che costituì l’irruzione di un nuovo soggetto politico nel contesto nevralgico del Mediterraneo. L’esperienza politica di Pietro, tuttavia, maturò anche sui tradizionali fronti dei domini iberici. Prima di salire al trono fu infatti impegnato a fondo a fronteggiare l’instabilità del Regno valenzano, appena conquistato dal padre; in esso rimaneva viva l’opposizione saracena, e covavano anche rivalità fra l’aristocrazia di origine catalana e quella aragonese che avevano partecipato alla conquista e vi si erano insediate.




Si trattava insomma di disegnare l’assetto dei complessi e variegati domini del re d’Aragona, dopo la fase della conquista vissuta durante il regno di Giacomo I. L’opera politica di Pietro in questa direzione gli valse nella tradizione storiografica e popolare l’appellativo di ‘Grande’, che si affianca a quello di ‘Conquistatore’ dato al padre Giacomo, esprimendo così il significato attribuito ai due momenti fondativi della costruzione e dell’evoluzione politica della Corona d’Aragona. La storiografia catalana, inoltre, enfatizzando l’altra grande svolta verificatasi con Pietro nella vicenda della Corona iberica, ha voluto legare l’appellativo – con una certa ragione – anche all’impresa siciliana del 1282, che fu l’avvio di un percorso destinato a caratterizzare la fisionomia della compagine aragonese a partire dal XIII secolo, in consonanza con le tendenze espansive dell’economia commerciale di Barcellona e poi di Valencia.




Nel 1282, dopo aver energicamente pacificato nei regni iberici sia le rivalità aristocratiche, sia la ribellione dei saraceni valenzani, Pietro si impegnò nella formazione di una potente flotta e di un consistente esercito, senza che se ne intendesse chiaramente la destinazione. Obiettivo dichiarato era un intervento sulle coste settentrionali africane, dove si poteva trarre profitto dalle contrapposizioni interne fra i potentati arabo-berberi per garantire una protezione armata e una base di dominio diretto alla crescente presenza di mercanti catalani e maiorchini che da decenni operavano con profitto sulle rotte tra l’Africa settentrionale e la penisola iberica, facendo base nelle Baleari conquistate da Giacomo I.




L’orizzonte politico di quegli anni era però dominato da un’altra questione, nella quale la corte barcellonese era profondamente coinvolta per molteplici motivi. Le vicende della successione nel Regno siciliano dopo la morte di Federico II, nel 1250, erano state il primo punto nell’agenda politica delle maggiori forze operanti nell’area mediterranea: la politica aggressiva di Manfredi, l’ostilità pontificia e la ricerca di un successore di orientamento opposto erano stati i fattori che avevano condotto all’incoronazione di Carlo d’Angiò come re di Sicilia nel 1266. La resistenza di Manfredi e degli eredi federiciani, stroncata a Benevento (1266) e a Tagliacozzo (1268), aveva provocato l’esodo degli esponenti aristocratici più strettamente legati alla parte ghibellina; loro naturale destinazione era stata la corte d’Aragona, dove Costanza rappresentava un punto di riferimento legittimistico per i sostenitori della dinastia federiciana. Alla corte e nella domus di Pietro e Costanza si trovava un gran numero di aristocratici siciliani, come diversi esponenti della famiglia Lancia, Ruggero Loria, Giovanni da Procida, che ricoprivano alte cariche nell’amministrazione della domus dell’Infante e poi del re d’Aragona ed erano suoi consiglieri politici di rilievo. Le intenzioni antiangioine di questi coincidevano con una molteplicità di altri fattori, fra i quali giocavano un ruolo gli interessi mercantili delle città italiane interessate al mercato meridionale e quelli della corte bizantina di Michele Paleologo, timorosa di iniziative offensive del re angioino a partire dalla sua base mediterranea.




Nei progetti politici di Pietro, fin dal matrimonio con Costanza, trovava dunque ampio spazio una nuova prospettiva per la Corona aragonese. È estremamente verosimile che quanto rappresentato con straordinaria icasticità da un testo letterario coevo di cui Pietro è protagonista, Lu Rebellamentu di Sichilia, corrispondesse a questi orientamenti del re: chiusa da tempo l’opzione provenzale e occitana, arrestatasi la Reconquista in terra iberica, pacificati i domini della Corona aragonese, un ardito intervento in ambito mediterraneo, suggerito dai nobili siciliani interessati al ritorno in terra italiana e visto con favore dalle forze mercantili e armatoriali attratte dall’apertura di una via commerciale verso il Levante mediterraneo appariva a Pietro come una strada per trasformare ‘un picciulo sovranu’ in un protagonista della scena mediterranea e in un potente rivale dell’allora crescente egemonia francese nell’area, confermando la retorica leggendaria del valore militare della dinastia catalana.




Dopo una breve permanenza sulle coste africane, Pietro si diresse con l’armata verso la Sicilia. Nell’aprile 1282 un fronte di nobili e città aveva sfidato vittoriosamente il dominio angioino con l’insurrezione detta del Vespro siciliano, ma stentava a trovare una soluzione politica stabile che permettesse di affrontare il ritorno di Carlo e l’aperta ostilità pontificia, consolidando un ordinamento alternativo al dominio angioino. L’offerta a Pietro della Corona siciliana da parte dei ribelli a Carlo garantiva tale soluzione e rappresentava il culmine di un convergere degli interessi di cui s’è detto e delle verosimili trattative svoltesi nei circoli della corte di Pietro e di Costanza. La particolare struttura della monarchia catalano-aragonese, peraltro, garantiva la possibilità di un’unione personale del Regno ai domini iberici di Pietro e la garanzia del mantenimento della specifica tradizione istituzionale e normativa del Regno siciliano.




Incoronato nel 1282 re di Sicilia, dopo avere manifestato davanti a un Parlamento siciliano l’intenzione di rispettare il tradizionale assetto normativo del Regno e avere definitivamente abolito le collectae e altre imposizioni fiscali angioine, Pietro rimase nell’isola solo per pochi mesi, ma tenne il titolo fino alla morte, nel 1285, governando attraverso il figlio Giacomo, che ebbe la carica di luogotenente nel Regno siciliano. L’occasione della partenza dal Regno fu la sfida di Carlo d’Angiò, che prevedeva la soluzione del conflitto per il Regno siciliano attraverso un duello da tenersi a Bordeaux. In realtà, i due avversari non si incontrarono mai sul luogo prescelto, convinti entrambi di potere prevalere sul campo.




L’iniziativa siciliana di Pietro impresse una svolta decisiva alla questione apertasi con la rivolta del Vespro: l’accuratezza della preparazione della spedizione consentì al re di volgere immediatamente a suo favore la situazione militare, con una serie di vittoriosi confronti con le forze angioine, costrette a ritirarsi oltre lo stretto di Messina e a subire gli attacchi del re d’Aragona nella parte continentale del Regno, dove Pietro si impadroniva di Nicotera e di Catona in Calabria (1282-1283). Tutto ciò fu possibile a Pietro grazie all’abile utilizzo delle specifiche forze sulle quali la compagine aragonese poteva contare, e delle quali il sovrano conosceva bene le possibilità d’utilizzo grazie alla sua esperienza politica e militare in terra iberica. In primo luogo, Pietro aveva organizzato il proprio esercito costituendo peculiarissimi reparti, i cosiddetti almogaveri, composti da combattenti largamente esperti di forme di guerra non tradizionale, esponenti della società guerriera sviluppatasi nella lunga vicenda della Reconquista e del confronto con i Saraceni nella guerra permanente di frontiera. La carta militare degli almogaveri, sapientemente giocata dal re in tutte le operazioni militari in Sicilia, fu una delle maggiori chiavi del successo dell’occupazione dell’isola e dell’espulsione delle residue guarnigioni angioine (Sperlinga, Castrogiovanni, 1282-1283). In secondo luogo, fu altrettanto decisivo il ricorso del re alla forza della marineria catalana. Le decisive vittorie riportate dalla flotta aragonese fin nel golfo di Napoli (1284) furono il frutto di una lunga pratica di mare, e della capacità di convertire in valore militare l’esperienza delle marinerie iberiche formatesi nella crescente frequentazione delle rotte commerciali del Mediterraneo occidentale, in concorrenza con i mercanti musulmani. La conquista di Malta e Gozo (1283) e lo stabilimento di un caposaldo a Gerba, davanti alle coste tunisine (1284), facevano del Regno siciliano il cuore strategico del controllo del Mediterraneo meridionale. Infine, la conoscenza del Regno italiano fornita a Pietro dagli emigrati siciliani rifugiatisi alla sua corte gli consentì di sostenere lo sforzo militare con un’attenta utilizzazione delle risorse locali: un’ampia documentazione mostra nei dettagli la bilanciatissima esazione del ‘fodro’ in natura e in denaro dai centri del territorio siciliano, a testimonianza della capacità di instaurare meccanismi fiscali e logistici efficaci e compatibili con le risorse del Regno.




L’incoronazione siciliana, tuttavia, costò a Pietro l’immediata scomunica (1282), la deposizione e la privazione di tutti domini da parte di papa Martino IV, che investì dei regni iberici di Pietro il figlio del re Filippo di Francia, Carlo di Valois (1283). Si profilava così un duplice fronte di scontro, in Sicilia e alla frontiera pirenaica, con le dinastie francesi.




Il breve regno di Pietro fu un episodio fondamentale nel determinare le caratteristiche e le vicende del Regno isolano per i secoli successivi. Non soltanto perché segnò l’inizio della secolare unione dell’isola alla Corona d’Aragona prima e poi a quella di Spagna, ma perché ne delineò le caratteristiche costitutive essenziali, consolidate e sviluppate dai due figli Giacomo e Federico che gli succedettero, e dalla dinastia da questi derivata.




In primo luogo, Pietro, assumendo la corona del Regno, giurava il mantenimento in vigore delle leggi siciliane. Era un atto analogo a quello in uso nella Corona aragonese relativamente ai Fueros, le leggi particolari dei diversi regni di cui il re era titolare. In secondo luogo, Pietro era divenuto re di Sicilia in virtù dell’accettazione di un’offerta fattagli dal Regno stesso, e non per diritto ereditario o di conquista. Se queste peculiarità della posizione di Pietro erano solo implicitamente contenute nella procedura che lo portò a posporre l’incoronazione a una dichiarazione d’intenti e a un giuramento di fronte a un’assemblea del Regno, esse non mancarono di costituire un forte argomento giuridico in tutte le successive occasioni in cui fu necessario definire la posizione del Regno siciliano in seno alla Corona aragonese e spagnola.




Altra importante caratteristica del regno di Pietro fu infatti l’avvio della definizione di una struttura di tipo pattista nei rapporti fra monarchia e società del Regno. Parallelamente a un’azione in tal senso dettata dalla necessità di risolvere il rinnovato confronto con le forti aristocrazie e le importanti città dei diversi regni iberici e che sarebbe sfociata nella concessione del cosiddetto Privilegio General a garanzia delle prerogative del Regno aragonese (1284), Pietro avviava, per tramite del luogotenente Giacomo, sia l’eliminazione delle fazioni aristocratiche siciliane che erano state più tiepide nei confronti della soluzione aragonese, sia l’instaurazione di meccanismi di negoziazione e di confronto politico costante fra apparato della monarchia e corpi strutturati del Regno (Parlamento di Catania, 1283), sia la promozione di un ceto di governo siciliano capace di mantenere il consenso al nuovo potere regio. Tutte queste tendenze avrebbero trovato puntuale riscontro nella legislazione dei successivi sovrani siciliani, a partire dalla ‘costituzione’ Semel in anno di re Federico III, figlio di Pietro, ricalcata su quella promulgata dal padre in terra iberica, denominata Una vegada l’any, e relativa all’ordinamento di una regolare assemblea rappresentativa del Regno.




Dopo avere vittoriosamente respinto l’aggressione francese ai propri domini iberici, legittimata dal papa come crociata contro un nemico della Chiesa con brillanti vittorie navali (Formigues, Roses) e terrestri, in cui il re comandò personalmente le truppe (Girona, Panissars, 1285), Pietro morì nel novembre dello stesso 1285 e venne sepolto nel cenotafio reale di Santes Creus in Catalogna, lasciando per disposizione testamentaria i regni iberici al primogenito Alfonso e quello siciliano al secondogenito Giacomo. Tale regolazione della successione sarebbe però stata violata in conseguenza degli sviluppi dell’intricata questione siciliana alla morte di Alfonso (1291), quando Giacomo assunse la Corona aragonese mantenendo anche quella del Regno siciliano.




Fonti e Bibl.: Barcellona, Archivo de la Corona de Aragón, Cancilleria Real, Pergaminos, bb. 108-117; regg. 38-58; Nicolò Speciale, Historia sicula ab anno MCCLXXXII ad annum MCCCXXXVII, in R. Gregorio, Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, I, Palermo 1791; Historiae Sabae Malaspinae continuatio ab anno MCCLXXVI ad MCCLXXXV, ibid., II, Palermo 1792; De rebus regni Siciliae (9 settembre 1282 - 26 agosto 1283). Documenti inediti estratti dall’Archivio della Corona d’Aragona, Palermo 1882 (rist. anast. Palermo 1982); Codice diplomatico dei re aragonesi di Sicilia, I, (1282-1290), a cura di G. La Mantia, Palermo 1917 (rist. anast. a cura di V. D’Alessandro, Palermo 1990); Lu rebellamentu di Sichilia lu quali hordinau e fichi fari misser Iohanni di Prochita contra lu re Carlu, narrato da Anonimo messinese del secolo XIII, in Due cronache del Vespro in volgare siciliano, a cura di E. Sicardi, RIS, XXXIV, Bologna 1917; Bartholomaei de Neocastro, Historia Sicula, aa.1250-1293, a cura di G. Paladino, in RIS, XIII, 3, Bologna 1921; Saba Malaspina, Rerum Sicularum libri VI ab anno Christi MCCL ad annum MCCLXXVI, RIS, VII, Città di Castello 1938; Bernat Desclot, Crónica, a cura di M. Coll i Alentorn, I-V, Barcellona 1949-1951; Salimbene de Adam, Cronica, a cura di G. Scalia, I-II, Bari 1966; Jeronimo Zurita, Anales de Aragón, a cura di A. Canellas Lopez, I-IX, Zaragoza 1976-1989; Ramon Muntaner, Crónica, a cura di M. Gustá, I-II, Barcellona 1979; Giovanni Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, I-II, Parma 1990-1991; Bernat Desclot, Libre del rei en Pere, a cura di S.M. Cingolani, Barcelona 2010; Lu rebellamentu di Sichilia, a cura di M. Barbato, Palermo 2010.


O. Cartellieri, Peter von Aragon und die sizilianische Vesper, Heidelberg 1904; F. Giunta, Aragonesi e catalani nel Mediterraneo, I-II, Palermo 1953-1956, passim; F. Soldevila, Pere el Gran, Barcelona 1950-1962 (Barcelona 1995); S. Runciman, The Sicilian Vespers, Cambridge 1958 (tr. it. Bari 1997), passim; D.J. Geaneakoplos, Emperor Michael Palaeologus and the West, Harvard 1959 (trad. it. Palermo 1985), passim; L. Puglisi, Le nozze di Costanza di Sicilia e Pietro III d’Aragona, in Archivio Storico Siciliano, s. 3, X (1959), pp. 199-214; F. Soldevila, Vida del Pere el Gran i Alfons el Liberal, Barcelona 1963; M. Amari, La guerra del Vespro siciliano, a cura di F. Giunta, Palermo 1969 (I ed. 1842), passim; H. Wieruszowski, Politics and culture in medieval Spain and Italy, Roma 1971, pp. 173-278; L. Gonzales Anton, Las Uniones aragonesas y las Cortes del Reino (1283-1301), I-II, Zaragoza 1975, passim; F. Giunta, Il Vespro e l’esperienza della ‘Communitas Sicilie’. Il baronaggio e la soluzione catalano-aragonese. Dalla fine dell’indipendenza al viceregno spagnolo, in Storia della Sicilia, a cura di R. Romeo, III, Napoli 1980, pp. 305-407; La società mediterranea all’epoca del Vespro. Atti dell’XI Congresso di Storia della Corona d’Aragona, 1982, I-IV, Palermo 1983-1984 passim; S. Tramontana, Gli anni del Vespro. L’immaginario, la cronaca, la storia, Bari 1989, passim; P. Corrao, Corona d’Aragona ed espansione catalano-aragonese: l’osservatorio siciliano, in Europa e Mediterraneo tra Medioevo e prima Età Moderna: l’osservatorio Italiano, a cura di S. Gensini, Pisa 1992, pp. 255-280; D. Abulafia, The Western Mediterranean Kingdoms (1200-1500), London-New York 1997 (trad. it. Roma Bari 1999), passim; P. Corrao, Da Federico a Federico. Trasformazione degli assetti istituzionali del regno di Sicilia fra XIII e XIV secolo, in Gli inizi del diritto pubblico, da Federico I a Federico II, a cura di D. Quaglioni - G. Dilcher, Bologna 2009, pp. 387-401; S.M. Cingolani, Pere el Gran. Vida, actes i paraula, Barcelona 2010.

1287. Filippo III re di Francia.

Filippo III re di Francia detto l'Ardito
di Enrico Pispisa - Enciclopedia Dantesca (1970)

Filippo III re di Francia detto l'Ardito. - Re di Francia, citato da D. in Pg VII 103 come quel nasetto che stretto a consiglio / par con colui c'ha sì benigno aspetto; è singolarmente individuato dal piccolo naso, che gli rende meno virile la faccia, quasi a significare la pochezza del carattere di lui, che morì fuggendo e disfiorando il giglio (v. 105). Ma F. ed Enrico I di Navarra, l'altro sovrano che è con lui, non si battono il petto per le loro colpe passate, bensì per la vita... viziata e lorda del rispettivo figliuolo e genero, Filippo IV il Bello. Così D., con plastica evidenza, esprime tutto il suo disprezzo per la dinastia francese che, rappresentata da individui ora vili e insignificanti, ora perfidi e depravati, osa ostacolare la divina missione dell'Impero.

Figlio di Luigi IX e di Margherita di Provenza, F. nacque a Poissy il 3 aprile 1245. Nel 1262 sposò Isabella d'Aragona e, partito Luigi IX per la crociata, lo accompagnò a Tunisi. Morto il padre durante l'impresa (1270), gli successe sul trono, ma fu consacrato soltanto il 15 agosto 1271. Intanto, nel viaggio di ritorno da Tunisi, gli era morta la moglie e F. sposò in seconde nozze Maria di Brabante (1274), che ebbe un grande ascendente su di lui e ne influenzò le decisioni. Mite di carattere, non possedeva l'intelligenza del padre, per cui si fece trascinare in imprese contrarie agl'interessi della Francia. Mantenne, per influenza della madre, relazioni amichevoli con l'Inghilterra, cui cedette alcuni territori (1279), dando così esecuzione a uno degli articoli più importanti del trattato di Parigi del 1259. Concesse anche il contado Venassino a papa Gregorio X (1274), nella speranza di avere un appoggio per la sua candidatura all'Impero. Ma l'elezione di Rodolfo d'Asburgo fece sfumare il progetto che era stato ideato da Carlo d'Angiò. L'errore più grave di F. fu l'inimicizia e la guerra col regno d'Aragona. Di questo, infatti, F. aveva bisogno nella guerra contro la Castiglia; tuttavia, per suggestione del partito favorevole a Carlo d'Angiò, che faceva capo alla regina, e per le insistenti richieste di Martino IV, sentito il consiglio delle due assemblee di Bourges e di Parigi, F., nel 1285, diede inizio all'impresa di conquista del regno d'Aragona. Dopo qualche successo iniziale, però, l'esercito francese incominciò ad essere logorato dalla guerriglia attuata da re Pietro, che riuscì ad avere definitivamente partita vinta con la battaglia navale di Las Formiguas, dove il suo ammiraglio, Ruggero di Lauria, batté e distrusse la flotta francese. L'esercito di F., allora, fu costretto alla ritirata, mentre un'epidemia di peste ne decimava i quadri. E la peste colse anche F., che morì a Perpignano il 5 ottobre 1285.

Bibl. - A. D'Ancona, Il canto VII del Purgatorio, Firenze 1901; A. Foresti, La valletta fiorita, in " Convivium " IV (1932) 801-810; A. Seroni, Purgatorio, canto VII, in " Studi d. " XXXIII (1955) 187-205; C.V. Langlois, Le règne de Philippe III le Hardi, Parigi 1887; R. Fawtier, Les Capétiens et la France, ibid 1942.

1287. Roberto II, conte d'Artois.

ROBERTO II conte d'Artois, detto l'Illustre o il Nobile
di G. Buo. - Enciclopedia Italiana (1936)

ROBERTO II conte d'Artois, detto l'Illustre o il Nobile. - Figlio postumo del precedente, nato a Mansura nel 1250, ebbe per tutore il patrigno conte di Saint-Pol. Dallo zio S. Luigi fu creato cavaliere il 26 maggio 1267 e partecipò alla crociata di Tunisi. Il cugino Filippo III si servì di lui nel 1275 per reprimere l'insurrezione dei Navarresi contro la regina Bianca. Nel 1282 R. II sostenne la causa di suo zio Carlo I d'Angiò in Italia e dal 1285 al 1289 governò il regno di Napoli durante la prigionia del cugino Carlo II. Nel 1296, partecipò nella Guienna alla guerra contro gl'Inglesi, poi, nel 1297, alla guerra contro il conte di Fiandra, alleato degl'Inglesi: la battaglia di Furnes (13 agosto 1297) fu in gran parte opera sua. Filippo il Bello si servì di R. nel 1302, in occasione della rivolta dei Fiamminghi. Egli cadde ucciso l'11 luglio nella battaglia di Courtrai. R. II aveva sposato successivamente nel 1262 Amicie de Courtenai, dalla quale ebbe Mahaut, che gli succedette, e Filippo di Conches; nel 1277, due anni dopo la morte d'Amicie, aveva sposato Agnese di Borbone e nel 1298 Margherita d'Avesnes, le quali ultime non gli diedero nessun figlio.

1287. Bianchi Gherardo.

BIANCHI, Gerardo
di Peter Herde - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 10 (1968)

BIANCHI (Albus, Blancus), Gerardo. - Nacque probabilmente tra il 1220 e il 1225 a Gainago, presso Parma: il nome dei suoi genitori, Alberto e Agnese, è ricordato nell'iscrizione di un affresco, contemporaneo, del battistero di Parma. Si può affermare senza alcun dubbio che studiò diritto canonico e diritto romano: la sua successiva attività nella cancelleria pontificia prova infatti come egli fosse buon conoscitore delle due discipline. Forse, assieme con Simone di Brion, il futuro papa Martino IV, fu allievo del famoso giurista Uberto da Bobbio, durante il secondo periodo di insegnamento di quest'ultimo a Parma (1237-1245); si spiegherebbero in tal modo gli stretti legami tra Simone e il B., attestati da Salimbene da Parma.

Il B. iniziò la sua carriera nella Curia pontificia come cappellano e scrittore di Innocenzo IV (come cappellano è attestato per la prima volta nel 1245): certamente dovette questo posto alla raccomandazione di un suo zio, il notaio pontificio Alberto di Parma, la cui famiglia aveva stretto buoni rapporti con Obizzo Fieschi, parente del papa e vescovo di Parma dal 1194 al 1224. In aggiunta ai proventi derivantigli dai suoi incarichi nella cancelleria, ottenne dal pontefice numerose prebende in Ungheria, in Francia e a Parma, dove fu per un certo periodo "scolastico" del duomo. Questi benefici dovevano procurargli entrate considerevoli dal momento che poté prestare 200 libbre di tornesi a Innocenzo IV, bisognoso di denaro al momento della ricerca di un suo candidato quale successore di Federico II per il regno di Sicilia; la somma gli venne restituita più tardi da Alessandro IV.

Se il 12 apr. 1264 Urbano IV concedeva ad altri i benefici ungheresi del B., credendolo morto, questi evidentemente non si trovava allora presso la Curia. Due anni prima, per incarico dello stesso papa, era stato "cursor" in Germania, dove aveva portato una comunicazione del pontefice al vescovo Tommaso di Squillace.

Sotto i successori del suo protettore Innocenzo IV la carriera del B. subì un arresto (lo stesso avveniva per Alberto di Parma): sotto Clemente IV e Gregorio X non si trova, infatti, alcun riferimento al B. nei registri pontifici, ed è soltanto da un registro angioino, ora perduto, che sappiamo che egli era ancora scrittore pontificio e rettore della chiesa di S. Martino ad Aquino. Soltanto sotto Innocenzo V ottenne l'importante ufficio di "auditor litterarum contradictarum" e, probabilmente durante la vacanza seguita alla morte di Giovanni XXI (dal 20 maggio al 25 nov. 1277), compose o fece comporre a Viterbo un formulario, comprendente sessantun documenti, preziosa testimonianza dell'attività e dei compiti dell'ufficio dell'"audientia publica", o dell'"audientia litterarum contradictarum". Di questo stesso periodo sono i primi stretti rapporti del B. con Carlo I d'Angiò: il 15 febbr. 1277 riceveva dal re una lettera in cui si ordinava ai funzionari dei Regno di trattarlo come consigliere reale.

Questi legami con i Francesi e i buoni rapporti con Simone di Brion devono aver costituito in quegli anni un impedimento per la sua carriera presso la Curia. Infatti il nuovo papa Niccolò III, eletto il 25 nov. 1277, era romano (Giovanni Gaetano Orsini) e sgradito a Carlo d'Angiò; la sua elezione era stata possibile soltanto per il passaggio al partito italiano nel collegio cardinalizio del francese Guglielmo di Bray, cardinale prete di S. Marco, passaggio violentemente rimproveratogli in una lettera da Carlo; nei confronti di questo Niccolò III condusse effettivamente una politica molto più indipendente dei suoi predecessori, sebbene i rapporti restassero ufficialmente immutati. Ma il B., che né sotto Urbano IV né sotto Clemente IV aveva ottenuto alcuna promozione, si mostrò poi, specialmente durante le legazioni siciliane, tutt'altro che radicale partigiano dei Francesi, sebbene come parmense egli fosse guelfo.

Il suo carattere tendente ai compromessi e all'accomodamento lo portò sempre a tenere una posizione in certa misura autonoma, a evitare prese di posizione estreme, e a tenersi fuori dalle contese che agitavano il collegio cardinalizio, nelle quali tuttavia spesso dovette piegare al patteggiamento e al disimpegno. Niccolò III dovette cogliere in lui questa tendenza all'accordo, se lo creò cardinale prete dei SS. Apostoli il 12 marzo 1278. Ma, oltre a ciò, abbiamo qualche elemento per pensare che il B., durante il conclave di Viterbo, avesse esercitato la sua influenza di "auditor" a favore dell'Orsini; pochi mesi prima, infatti, sotto Giovanni XXI, aveva preso parte alle riforme per la restaurazione della libertà dell'elezione papale, riforme introdotte per iniziativa dell'Orsini, ed era stato inoltre membro della commissione incaricata di punire i notai e i procuratori ribelli che avevano disturbato l'elezione durante il precedente conclave. Tra i cappellani del nuovo cardinale troviamo il celebre canonista Guido da Baisio, che per riconoscenza gli dedicò il suo famoso Rosarium.

All'inizio il B. ebbe incarichi di ordinaria amministrazione, come la risoluzione di vertenze circa alcune elezioni episcopali; la missione più importante di questi primi anni riguardò le trattative di pace tra Filippo III di Francia e Alfonso X di Castiglia. Nel maggio del 1278 il cardinale partecipò al concistoro riunito da Niccolò III per l'incoronazione imperiale di Rodolfo d'Asburgo; nell'estate - nello stesso periodo in cui Simone di Brion era cardinale legato in Francia - il pontefice lo mandò a Tolosa e a Bordeaux insieme col cardinale Gerolamo da Ascoli e con Giovanni di Vercelli, patriarca eletto di Gerusalemme; ma la legazione del B. non ebbe alcun risultato. Al ritorno dalla Francia, nell'estate del 1279, visitò la sua città natale, Parma, che, alcuni anni dopo (1282), riusciva a far liberare dalla scomunica e dall'interdetto che il cardinale Latino Malabranca aveva decretato per una rivolta della popolazione contro l'inquisitore e contro i domenicani. Si è pensato, e con ragione, che nel conclave del 1280-81 il B. abbia abbandonato il partito degli Orsini e sia passato al gruppo degli Angioini votando a favore di Martino IV, ma questo cambiamento di parte deve essere considerato più come una manifestazione di amicizia nei confronti di Simone di Brion che come una decisa presa di posizione a favore del partito francese: comunque per riconoscenza il nuovo pontefice innalzò il cardinale prete dei SS. Apostoli a cardinale vescovo di Sabina (probabilmente il 12 apr. 1281).

Lo scoppio dei Vespri siciliani, il 30 marzo 1282, segnò una nuova svolta nella vita del B.: il 5 giugno Martino IV lo nominò legato per il Regno di Sicilia, in un momento cioè in cui Carlo d'Angiò stava tentando di fronteggiare la rivolta con una serie di riforme (10 giugno 1282) e, quando queste finirono per rivelarsi inefficaci, con la forza.

Il re raccolse il suo esercito a Catona sulla penisola, di fronte a Messina, dove egli andò di persona il 6 luglio e dove, contemporaneamente o poco dopo, deve essersi recato anche il Bianchi. Il 25 luglio gli Angioini, attraversato lo stretto, approdarono a sud di Messina presso il monastero di S. Maria Roccamadore e attaccarono la città, nella quale Alaimo da Lentini aveva organizzato la difesa. Prima dell'attacco vero e proprio il B., d'accordo con il re e con gli assediati, si recò nella città per un tentativo di mediazione: fu accolto amichevolmente e Alaimo gli consegnò persino le claves terre e con questo gesto simbolico lo investì, in quanto rappresentante del papa, della città e dell'isola. Ma il legato non poté accettare la proposta dei Messinesi di sottomettersi alla Chiesa ed essere governati da un rappresentante del papa, né poté accettare altre proposte di compromesso, secondo le quali il re avrebbe dovuto insediare un italiano come governatore e ritirare le truppe di occupazione francesi, giacché sia il papa sia Carlo d'Angiò esigevano una resa senza condizioni. Così il B. dovette lasciare la città senza aver concluso nulla, ma, sebbene egli avesse rappresentato gli interessi del papa e del re angioino, non venne tuttavia identificato con gli odiati Francesi; al contrario, dovette lasciare un buon ricordo nell'isola, come testimonia il cronista Niccolò Speciale, parlando della sua seconda legazione in Sicilia nell'anno 1299.

Inaspritasi la lotta dopo lo sbarco nell'isola di Pietro d'Aragona (che il B. del resto aveva conosciuto nel luglio del 1279; perciò il re aveva tentato di servirsi di lui come intermediario, pregandolo in una lettera del 6 dic. 1281 di adoperarsi in suo favore presso il papa), i due pretendenti stabilirono, provocando la costernazione del papa, di decidere la cosa in duello, di ricorrere cioè a un giudizio di Dio, proibito dal diritto canonico, e del resto nel sec. XIII quasi completamente in disuso; in realtà nessuna delle due parti aveva intenzione di farlo svolgere effettivamente, come prova la commedia recitata più tardi a Bordeaux: si voleva soltanto guadagnare tempo.

Il cardinale legato, che evidentemente non aveva potuto impedire la cosa, si mise in viaggio con Carlo dAngiò verso il nord probabilmente a metà gennaio, se il 28 febbr. 1283 si trovava a Capua. Il re, passando da Roma e Firenze, proseguiva per la Francia; il 12 gennaio aveva nominato vicario generale nel Regno suo figlio Carlo di Salerno, da lui poco stimato, e che lasciò quindi sotto la sorveglianza di suo fratello Roberto di Artois e di altri parenti. Col legato erano state discusse probabilmente quelle riforme che il principe promulgò il 30 marzo al Parlamento di San Martino (a est di Palmi) e che risultarono vantaggiose soprattutto alla Chiesa e alla nobiltà. Sembra che il B. si sia trattenuto nella parte settentrionale del Regno fino al ritorno di Carlo di Salerno e dell'esercito a Napoli; in questo periodo egli si dedicò a molti piccoli incarichi affidatigli dal papa. A metà gennaio del 1284 era molto probabilmente al seguito del principe di Salerno, in cammino per la Puglia. Per il mese di marzo il B. aveva indetto a Melfi un sinodo del clero residente al di là del Faro; il 28 dello stesso mese promulgava le costituzioni sinodali.

Esse presentano particolare interesse, perché, oltre a contenere decisioni, comuni a quelle di altri sinodi, intorno a questioni morali riguardanti clero e laici, e circa la difesa dei beni della Chiesa e della libertà delle elezioni ecclesiastiche, si interessano della Chiesa greca in Italia meridionale, che il B. aveva avuto modo di conoscere durante il suo soggiorno nel territorio di Messina e a Reggio. In diretto riferimento alle costituzioni del secondo concilio di Lione (1274), al canone 9 del quarto Concilio lateranense (1215) e ad una decretale di Innocenzo III (X 3. 3. 6), si stabiliva che tutti i chierici del Regno inserissero nei loro libri liturgici il filioque nel Credo, e che le competenti autorità ecclesiastiche insediassero nelle diocesi a popolazione mista greco-latina un clero adatto per ambedue le comunità; il sinodo inoltre vietò che chierici di famiglia latina, sposatisi dopo avere ricevuto gli ordini minori e poi passati al rito greco, potessero ricevere gli ordini maggiori e nello stesso tempo continuare la vita matrimoniale, come invece veniva permesso al clero greco della Chiesa romana. Ma il sinodo di Melfi era stato indetto anche con un altro scopo, di cui non si trova traccia nelle costituzioni: il finanziamento della guerra contro gli Aragonesi con le decime di tutte le entrate ecclesiastiche del Regno per i due anni successivi. Questa decima fu votata dal clero presente, approvata dal papa e riscossa da Carlo di Salerno.

Finito il sinodo, il cardinale tornò immediatamente a Napoli dal principe, il quale, contro il suo parere, il 5 giugno 1284 uscì dal porto per distruggere le basi della flotta aragonese, che, sotto il comando di Ruggero di Lauria, bloccava il porto di Napoli; nell'azione veniva catturato dagli Aragonesi. Il legato riuscì a controllare una rivolta scoppiata a Napoli e nei dintorni, definitivamente domata da Carlo I d'Angiò, tornato per mare l'8 giugno. Fallito un tentativo di sbarco in Sicilia e di assedio a Reggio, all'inizio di agosto il sovrano andò in Puglia, dove alla fine del 1284 si trovava anche il B., che nel frattempo aveva eseguito altri incarichi di amministrazione ecclesiastica ordinaria ricevuti da Martino IV.

Dopo la morte di Carlo I (7 genn. 1285) il B. insieme col fratello del defunto, Roberto di Artois, fu incaricato dell'amministrazione del Regno, dal momento che il successore al trono era ancora prigioniero, e negli anni successivi ebbe parte notevole nella difesa e nella riforma del Regno. Alla morte di Martino IV (28 marzo 1285) non prese parte all'elezione del successore, Onorio IV, il romano Giacomo Savelli, che, proseguendo fondamentalmente la politica del suo predecessore, pur non essendo come lui legato al regime francese nell'Italia meridionale, prese immediatamente contatto con il legato. Il 17 sett. 1285 il papa promulgò le celebri costituzioni per la riforma del Regno (Constitutiones super ordinatione Regni Sicilie), nell'elaborazione delle quali il B. aveva avuto una parte decisiva, come affermò esplicitamente Onorio IV, e per l'applicazione delle quali egli si impegnò a fondo. Ma in seguito il pontefice doveva cassare alcune misure di minore importanza prese dal B., cosa che prova che nei rapporti con il suo legato non regnava più un accordo totale.

Il B. non prese parte neanche all'elezione di Niccolò IV (15 febbr. 1288). Con la liberazione di Carlo di Salerno e la sua incoronazione a re di Sicilia da parte del papa, avvenuta a Rieti il 29 maggio 1289, terminò la sua legazione e la sua reggenza nel Regno. Ma nuovi incarichi lo attendevano: Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello di Francia, che Martino IV aveva investito del regno di Aragona, ne tentò la conquista e anche in Sicilia si riaccese la guerra. Preoccupato per le notizie provenienti dalla Terra Santa, il papa tentò una mediazione e il 23 marzo 1290 inviò Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII, e il B. come legati in Francia. Accanto alla definizione di questioni interne alla Chiesa, in particolare del contrasto tra gli Ordini mendicanti e il clero secolare intorno alla confessione, si svolsero, nel febbraio del 1291 a Tarascona, tra Carlo II di Sicilia e ambasciatori aragonesi e inglesi, trattative di pace, che però non portarono ad alcuna soluzione. Non è completamente chiaro il ruolo del B. nel lungo conclave che portò all'elezione di Celestino V il 5 luglio 1294: non essendo romano ed essendo stato inoltre raramente presso la Curia negli anni precedenti, egli non entrò per nulla nel conflitto tra gli Orsini e i Colonna; votò per Pietro del Morrone, ma subito dopo, come Benedetto Caetani, gli consigliò l'abdicazione. Oscura la posizione da lui tenuta nel conclave del 23-24 dic. 1294, dal quale uscì eletto Bonifacio VIII.

Durante il suo pontificato il B., ormai alle soglie della vecchiaia, non fu una figura di primo piano. Con la sua abilità diplomatica seppe rimanere estraneo al conflitto con i Colonna e insieme mantenere buoni rapporti con l'ambizioso Caetani. Nella guerra tra Inghilterra e Francia fu favorevole, con Matteo di Acquasparta, al partito fiammingo e fu per questo ricompensato con 200 fiorini l'anno. Dalle relazioni degli ambasciatori di Giacomo II d'Aragona sappiamo che egli assunse, come legato, una posizione indipendente nei confronti di Bonifacio VIII.

Ancora una volta il vecchio cardinale di Sabina fu chiamato a una missione importante, allorché dopo che il papa aveva ratificato il 20 giugno 1295 il trattato di pace tra Carlo II e Giacomo II - con il quale quest'ultimo rinunziava ai suoi diritti sulla Sicilia - i Siciliani elessero loro re il fratello minore di Giacomo, Federico. Unitisi Carlo e Giacomo nel tentativo di scacciare Federico, il duca Roberto di Calabria, futuro re di Sicilia, e Filippo di Taranto sbarcarono in Sicilia; presso di loro il papa inviò il B. come legato pontificio per sostenere ancora una volta la politica angioina con misure ecclesiastiche. Il 19 ott. 1299 il B. giungeva a Milazzo per mare, recandosi poi presso Roberto a Catania. Di lì a due anni, dopo la conclusione di una tregua, il 20 dic. 1301 si imbarcò per Napoli da dove raggiunse Roma. Secondo le relazioni degli ambasciatori aragonesi, prese posizione sia contro Carlo II sia contro Roberto di Calabria, schierandosi a favore di Federico III di Sicilia. Doveva prendere parte anche alle ultime discussioni sul problema siciliano, ma non poté vedere la conclusione della pace di Caltabellotta (19 apr. 1302), nella quale, e non senza suo merito, Federico fu riconosciuto re dell'isola di Sicilia (Trinacria). Le fatiche dell'ultima legazione avevano provato le forze del quasi ottantenne cardinale: poco dopo il suo ritorno a Roma si ammalò gravemente e a Roma morì il 1º marzo 1302.

Il giorno seguente fu sepolto nella basilica lateranense, dove aveva ricoperto la carica di arciprete. Il papa non prese parte alla cerimonia, ma fra i portatori del feretro furono Carlo II e altri personaggi importanti. La sua tomba, eretta in un primo tempo nel mezzo della navata centrale davanti all'altare di S. Maria Maddalena, da lui stesso consacrato nel 1297, fu poi spostata tra le due prime cappelle della navata di sinistra, ove ancora oggi si può vedere il disadorno monumento funebre, recante un'iscrizione in lettere gotiche maiuscole.

Fonti e Bibl.: Il formulario del B. del 1277 è stato pubbl. da P. Herde, in Archiv für Diplomatik, XIII(1967), pp. 264-312. La prima ediz. integrale delle costit. sinodali di Melfi è quella curata da P. Herde, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXI(1967), pp. 45-53: excerpta in E. Martène-U. Durand,Veterum scriptorum... amplissima collectio, VII, Parisiis 1733, pp. 283-287; I. D. Mansi,Sacr. concil. nova et ampl. collectio, XXIV, Venetiis 1780, pp. 570-575; Pontificia commissio ad redigendum codicem iuris canonici orientalis,Fontes, 3, V, 2, a cura di A. L. Tautu, Città del Vaticano 1964, pp. 114 s., n. 60.

Numerosi documenti ined. del B. nell'Arch. Segr. Vat., arm. XXXV, vol. 137, ff. 51 r, ss. (cfr. K. Rieder,Das sizilian. Formel- und Ämterbuch des Bartholomaus von Capua, in Römische Quartalschrift, XX[1906], pp. 3 ss., e G. M. Monti,Dal Duecento al Settecento, Neapolis 1925, pp. 51 ss.); Syllabus membranarum ad Regiae Siciliae Archivum pertinentium, I, 2, Napoli 1842,ad Indicem; C. Höfler,Albert von Beham und Regesten Pabst Innocenz IV., Stuttgart 1847, pp. III n. 28, 114 n. 30; Les registres d'Innocent IV, a cura di E. Berger, Paris 1884-1921,ad Indicem; Les registres de Boniface VIII, a cura di A. Thomas, M. Faucon, G. Digard e R. Fawtier, Paris 1884-1935,ad Indicem; I. Carini,Gli archivi e le bibl. di Spagna in rapporto alla storia d'Italia in generale e di Sicilia in particolare, II, Palermo 1884, p. 44; Les registres de Nicolas IV, a cura di E. Langlois, Paris 1886-1893,ad Indicem; Les registres d'Honorius IV, a cura di M. Prou, Paris 1888,ad Indicem; J. Teige,Beiträge zur Gesch. der Audientia litterarum contradictarum, Prag 1897,passim; Cod. dipl. barese, I-XVII, Bari-Trani 1897-1943,ad Indices; Les registres de Nicolas III, a cura di J. Gay e S. Vitte, Paris 1898-1938,ad Indicem; Les registres d'Urbain IV, a cura di J. Guiraud, Paris 1889-1958,ad Indicem; Les registres de Martin IV, a cura di F. Olivier Martin, Paris 1901-1935,ad Indicem; Les registres d'Alexandre IV, a cura di C. Bourel de la Roncière, Paris 1895-1959,ad Indicem; Acta Aragonensia, a cura di H. Finke, I, Berlin und Leipzig 1908, pp. 73, 113; L. Auray-R. Poupardin,Catal. des manuscrits de la coll. Baluze, Paris 1921, p. 462; Cod. dipl. barlettano, a cura di S. Santeramo, Barletta 1924-1962,passim; F. Schillmann,Die Formularsammlung des Marinus von Eboli, I, Rom 1829, nn. 3366-3425; Cod. dipl. salernitano del sec. XIII, II,La guerra del Vespro sicil. nella frontiera del Principato, a cura di C. Carucci, Subiaco 1934,ad Indicem; Doc. vat. relativi alla Puglia, I,Doc. tratti dai registri vat. (da Innocenzo III a Nicola IV), a cura di D. Vendola, Trani 1940,ad Indicem; B. Mazzoleni,Gli atti perduti della cancelleria angioina, II, Roma 1942, p. 68 n. 464; I registri della cancelleria angioina, a cura di R. Filangieri, XVI, Napoli 1962, p. 169 n. 571; F. Russo,La guerra del Vespro in Calabria nei docc. vaticani, in Arch. stor. per le prov. napoletane, LXXX (1962), pp. 193 ss.; Nicolaus Specialis,Historia Sicula, in L. A. Muratori,Rer. Italic. Script., X, Mediolani 1727, pp. 1014 s.; Saba Malaspina,Rerum Sicularum historia, I. VIII, cc. 9 ss. e passim, in G. Del Re,Cronisti e scrittori sincroni napoletani, II, Napoli 1868, pp. 339 ss.; Chronicon Parmense, in Rer. Italic. Script., 2 ediz., IX, 9, a cura di G. Bonazzi, pp. 35, 82; Bartholomaeus de Neocastro,Historia Sicula,ibid., XIII, 3, a cura di G. Paladino,passim; Due cronache del Vespro in volgare siciliano del sec. XIII,ibid., XXXIV, 1, a cura di E. Sicardi,passim; Salimbene de Adam,Chronicon, a c. di G. Scalia, Bari 1966, pp. 744, 746, 760, 864, 867, 923; Matthaeus de Afflictis,In utriusque Siciliae Neapolisque sanctiones et constitutiones novissima praelectio, II, Venetiis 1580, p. 149 b; F. Ughelli-N. Coleti,Italia Sacra, I, Venetiis 1717, coll. 172 s.; G. Grimaldi,Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, II, Lucca 1733, p. 386; I. Affò,Mem. degli scrittori e letter. parmigiani, I, Parma 1789, pp. 245 ss.; V. Forcella,Iscrizioni delle chiese e d'altri edifici di Roma…, VIII, Roma 1876, pp. 15 n. 17, 17 n. 20; M. Amari,La guerra del Vespro Siciliano, Milano 1886, I, pp. 240 ss.; II, pp. 37 ss.; L. Cadier,Essai sur l'admin. du royaume de Sicile sous Charles Ier et Charles II d'Anjou, Paris 1891, pp. 53 ss.; B. Pawlicki,Papst Honorius IV., Münster i. Westf 1891, pp. 10 ss.; O. Schiff, Studien zur Gesch. Nikolaus IV., Berlin 1897, pp. 17 ss.; H. Finke,Aus den Tagen Bonifaz. VIII., Münster i. Westf. 1902, pp. 9 ss., XX ss., XLV, LIII ss.; A. Demski,Papst Nikolaus III., Münster i. Westf. 1903, pp. 38 ss.; O. Cartellieri,Peter von Aragon und die sizilian. Vesper, Heidelberg 1904,ad Indicem; R. Sternfeld,Der Kardinal Johann Gaetan Orsini (Papst Nokolaus III) 1244-1277, Berlin 1905, pp. 300 ss.; Id.,Das Konklave von 1280 und die Wahl Martins IV. (1281), in Mitt. des Iust. für österreich. Geschichtsforsch., XXXI (1910), pp. 13, 42; F. X. Seppelt,Studien zum Pontifikat Coelestins V., Berlin-Leipzig 1911, pp. 1 ss.; E. H. Rohde,Der Kampf um Sizilien in den Jahren 1291-1302, Berlin und Leipzig 1913,passim; Ch. J. Hefele-H. Leclercq,Histoire des Conciles, IV, 1, Paris 1914, pp. 293 s.; L. Testi,Le baptistère de Parme…, Firenze 1916, pp. 262 s.; R. Morghen,Il cardinale Matteo Rosso Orsini, in Arch. della R. Soc. rom. di storia patria, XLVI (1922), pp. 271 ss.; F. Ruffini,Dante e il protervo decretalista innominato (Monarchia III. III. 10), in Mem. della R. Acc. delle Scienze di Torino, s. 2, LXVI (1922),passim; R. Fantini,Il cardinale G. B., in Arch. stor. per le prov. parmensi, n. s., XXVII (1927), pp. 231 ss.; T. S. R. Boase,Boniface VIII, London 1933,ad Indicem; G. Digard,Philippe le Bel et le Saint-Siège, Paris 1936, pp. 45 ss.; E. Sthamer,Das Amtsbuch des sizilischen Rechnungshofes, Burg bei Magdeburg 1942, p. 78; A. Mercati,Saggi di storia e letteratura, I, Roma 1951, pp. 116 ss.; E. G. Léonard,Les Angevins de Naples, Paris 1954,ad Indicem; S. Runciman,The Sicilian Vespers, Cambridge 1958,ad Indicem; F. Baethgen,Ein Pamphlet Karls I. von Anjou zur Wahl Papst Nikolaus III., München 1966, pp. 1 ss.; F. Liotta, App. per una biografia del canonista Guido da Baisio,arcidiacono di Bologna, in Studi senesi, s. 3, XIII (1964), pp. 18 s.; P. Herde,Die Legation des Kardinalbischofs Gerhard von Sabina während des Krieges der Sizilischen Vesper und die Synode von Melfi (28 März 1284), in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXI(1967), pp. 1-53; Id.,Ein Formelbuch Gerhards von Parma mit Urkunden des Auditor litterarum contradictarum aus dem Jahre 1277, in Archiv für Diplomatik, XIII(1967), pp. 225-312; Id.,Beiträge zum päpstlichen Kanzlei- und Urkundenwesen im 13. Jahrhundert, Kallmünz 1968, pp. 33-36. Negli ultimi tre lavori si trova ulteriore bibliografia.

sabato 23 maggio 2020

1284.

1284. Ruggero abb(at)e da a Manfredo Giffone,   archidiacono di Mont(eleo)ne - iurisd(itio)ne abbatiale le chiese (corr. da di Mile) - di S. a Maria e S. Clemente d’Arena. 
(ACGR. Sez. Mileto, ms. 070, note di Calcagni, f...)

1753. Bivona. Fonti.

1753. "Lettere del Duca di Monteleone circa la servitù  che pretendeva imporre alle terre della mensa badiale deviando parte delle acque del fiume Trainiti onde condurle al Castello di Bivona".
(ASN. Archivio Abbazia di Mileto, codice n°... )

1701. Bivona. Fonti.

1701. 04. 12. Monteleone,    sede rappresentanza vicariato Mast. 
Questione della colonna. Diego Calcagni. Colonna spedizione:   stipula contratto di trasporto da spiaggia Bivona a Ripa Grande,    Roma,    via feluca,    fra Diego Calcagni,    S. J. ,    vicario,    e Francesco Lauro ed Antonio Mieci (?),    del Piano di Sorrento,    proprietari dell’imbarcazione,    per il prezzo di ducati 40. Molto interessanti raffigurazioni grafiche identificative particolarità colonna in atto stipula pattuizioni trasbordo.  

1689. Bivona Fonti.

1689 marzo 09. Monteleone, collegio S. I. , residenza vicariale. 
Giuseppe TRANFO, vicario, a non indicato rettore CG. Ricevute missive, si giustifica con argomentazioni varie, attinenti a : - Giardino di BIVONA; SETA; PUTIGNANO, p(adre); CAVALLO; MAGAZZINO: dettaglia sulla situazione del fatiscente vecchio magazzino abbaziale e sull'improrogabile necessità acquisto immobile per nuovo, di cui allega planimetria.

Ricevute due missive del rettore, una del 19 febbraio, altra inserta ma di data non citata, si giustifica con argomentazioni varie, attinenti a :

-GIARDINO [Giardino di Bivona]: nominati due arbitri, uno per seta, altro per orto, per una questione che - se oscuramente esposta - sembrerebbe concernere approvvigionamento d'acqua indispensabile per una "industria".
E tale industria - lì - non può essere che... 

-SETA: soddisfatto per aver risolto problemi inerenti, come sopra, espone profitti.

-PUTIGNANO, p(adre): già scrisse sulla predica dello stesso; motiva ora non poterne maggiormen te dire, in attesa che provinciale ritorni da  Napoli e gliene conceda licenza. 

-CAVALLO:
richiesto spiegazione risponde affermativamente:
ha sì acquistato un cavallo, ma, trattandosi  di  ...polledro  è da  tenersi  in falso l'accusa aver egli cavallo  ...di maneggio...
Motiva esser uso di cavallo a fine comodità per vicariato; espone  profitto e prassi: vicari predecessori ne tenevano in stalla ben 4. Egli si è limitato a 2. [... ma che bravo!] 

-MAGAZZINO:
dettaglia sulla situazione del fatiscente vecchio magazzino abbaziale e sull'improrogabile necessità acquisto immobile per nuovo, di cui allega planimetria.
Giustamente nota  tergale  specifica  esser  su  questo  argomento la  maggior parte della lettera.
-abbazia tiene in affitto da collegio S.I. Monteleone tre locali per uso: magazzino e stalla: due locali per il primo, uno per l'altra.
-ubicazione dei tre nell'ala del collegio prospiciente l'asse stradale: Dalla Croce, a S.Michele... , oggi via Scesa del Gesu', quindi  ...lungo il muro del collegio....
-secondo legenda ...le tre stanze che si serve l'abbadia per  magazzini  e  stalla...oltre che sono cadenti devono finirsi di gettare, per fabbricare e venire alla fabbrica nuova...
-preoccupazione maggiore per il magazzino:  ...è cadente... viene sostenuto da due travi da fuori che ci fan di continuo temere...se non cade oggi, po trà cadere tra breve...
-necessiterebbe ...gettar tutto a terra e fabbricare al disegno (...) non potendosi accomodare in verun modo....
-ora, pur se il collegio sarebbe in obbligo di provvedere, pagando la abbazia ben 17 scudi e  mezzo annui, di fitto, è anche da considerarsi esser quest'obbligo ...caso disperato stante la penuria di questo collegio di Monteleone, e l'esser applicato alla fabbrica della chiesa...

Premesso quanto sopra e considerate sia prescrizioni gerarchia che impongono acquisti in ...siti pubblici, e strade frequentate..., sia locale situazione urbanistica che non rende disponibile altro nelle immediate pertinenze del collegio medesimo, come anche comodità dello stabile prescelto, nonché il conseguente danno nel caso di non volersi perfeziona re acquisto, lo indica su base planimetria e sua legenda.
-Dalle quali si desume essere uno stabile sito in angolo del quadrivio formato dagli indicati assi stradali "Da fontana grande a Piazza mercanti" -"Dalla Croce, a S.Michele".
In planimetria detto quadrivio è indicato M.
-l'angolo dello stabile è nella stessa indicato F.
Analogamente F sono designati i tre locali in cui è suddiviso il fondo in oggetto.
Uno d'essi, spazioso e pari in profondita' alla larghezza degli altri due, sembrerebbe, dalla schematizzazione grafica, essere arcuato in zona mediana.
-la stessa rappresenta un fondo formato da quattro settori: 
due hanno accesso dalla Strada principale (da fontana a piazza), terzo e quarto (che formano unico grande fondo, come detto) da quella che 
dalla Croce ascende a S.Michele.
Il locale d'angolo ha 2 accessi, od uno e finestra, sulle due strade
-Legenda ci informa che il fondo in oggetto sarebbe ...fondo della corte [ducale], dove si paga di censo ogni anno d(uca)ti 13 e questo sito sarebbe ottimo per comodità dell'abbadia e si desidera pigliare se da Roma verrà approvato."
-Medesima fonte ci ragguaglia sulle distanza intercorrenti tra i due stabili : da angolo collegio, su quadrivio, indicato a, e prospiciente quello dello stabile in oggetto, designato F: palmi 38, pari a mt....   ; 
da medesimo angolo F, ad ingresso collegio ...a la nostra portaria a...: palmi 58, pari a m....
-competente Roma, Curia Generalizia. alla stessa si chiede autorizzazione acquisto.
FINE


1689-1699. Bilanci dell'abbazia.  

1689. Bilancio 1689. Nota tergale: 1689. Febraro. Bilancetto.