giovedì 7 maggio 2020

1998. Anna Maria D'ACHILLE, Pietro di Oderisio

di A.M. D'Achille - Enciclopedia dell' Arte Medievale (1998)

PIETRO di Oderisio

Scultore romano appartenente alla famiglia di tradizione 'cosmatesca' degli Oderisi (Claussen, 1987), attivo alla fine del 13° secolo.

La messa a fuoco di questo artista è assai problematica sia per la mancanza di documentazione storica sia, soprattutto, per il pessimo stato di conservazione delle opere che gli sono attribuite sulla base di epigrafi per lo più mutile o perdute. Il numero delle sculture che ruota attorno al nome di P., così come l'arco cronologico e geografico della sua attività, è inoltre molto ampio, tanto che, se l'autografia dei monumenti fosse dimostrabile con sicurezza, nel marmoraro romano andrebbe ravvisata una delle principali personalità artistiche di fine Duecento.

Punto di partenza per la ricostruzione dell'attività di P. è il monumento funebre di papa Clemente IV (m. nel 1268), attualmente nel braccio sinistro del transetto di S. Francesco alla Rocca a Viterbo, ma originariamente collocato nella chiesa viterbese di S. Maria di Gradi, quasi unanimemente attribuito all'artista sulla base della testimonianza di Papebroch (1688); questi, fornendo la prima ampia descrizione del sepolcro, cita la scritta che si trovava sul fondo, sotto la curvatura dell'arco, "Petrus Oderisii sepulchri fecit hoc opus", già allora solo parzialmente leggibile e andata poi distrutta. La testimonianza successiva, degli inizi del sec. 18°, quella della Cronologia Gradensis, attribuita a Francesco Maria Salmini, identifica invece nel Petrus della scritta il presunto committente dell'opera, Pietro di Montbrun, arcivescovo di Narbona.Il monumento di Clemente IV costituisce un punto di snodo fondamentale nello sviluppo della tipologia sepolcrale in Italia, giacché presenta elementi innovativi come la struttura a baldacchino, la figura giacente e la contrapposizione iconografica tra la morte e la vita eterna che doveva essere rappresentata sulla parete di fondo; alla scelta di questo tema non dovette essere estraneo l''ambito domenicano' in cui l'opera fu prodotta (Monferini, 1969). Oggi il sepolcro - dopo una serie di complesse vicende che ne hanno profondamente alterato la struttura (D'Achille, 1990) - si presenta composto da un basamento mosaicato a motivi cosmateschi con due pilastrini esagonali agli angoli; da un sarcofago di reimpiego - che attualmente mostra la fronte romana un tempo poggiata alla parete, ma che originariamente presentava anch'esso la decorazione a dischi e mosaici andata quasi completamente distrutta durante la seconda guerra mondiale - su cui è posta la figura del pontefice dal volto realistico di straordinaria intensità, realizzato forse su una maschera funebre (Keller, 1935); da un baldacchino trilobo archiacuto con gattoni, anteriormente sostenuto da due colonnine decorate 'a spina di pesce', che poggiano sui pilastrini ai lati del basamento; infine, dal sarcofago con un'altra figura giacente, identificata con il nipote del pontefice, Pierre Le Gros, generalmente considerata un'aggiunta posteriore di alcuni decenni. Del sepolcro, secondo Claussen (1987), doveva far parte, per lo meno nel progetto iniziale, anche un leone proveniente da S. Maria di Gradi, da assegnare dunque a P. (Viterbo, Mus. Civ.).La datazione del monumento è problematica per la complessa vicenda del seppellimento del pontefice, conteso tra i Canonici della cattedrale e i Domenicani di S. Maria di Gradi, che si risolse definitivamente solo nel 1276. I documenti spesso contraddittori di quegli anni non autorizzano conclusioni definitive, ma in via ipotetica l'opera si può collocare intorno alla metà degli anni settanta (D'Achille, 1989; 1996).Il fatto che si debba proprio a P. - appartenente a una di quelle famiglie di marmorari romani specializzati solo nelle produzione di suppellettile liturgica (v. Cosmati) - l'introduzione in Italia sia del baldacchino gotico sia della figura giacente (oltretutto in una rappresentazione realistica ancora sconosciuta in Europa) costituisce effettivamente un problema critico complesso. Se Bauch (1971; 1976) lo risolse attribuendo a P. solo il sarcofago e ad Arnolfo tutte le altre parti (un'ipotesi questa decisamente respinta da Romanini, 1969; 1983; 1986), la maggior parte della critica (a partire da Rossi, 1889) ha spiegato le 'novità gotiche' con un viaggio dell'artista in Inghilterra, avvenuto forse dopo un passaggio in territorio francese, identificando in lui il firmatario dell'arca di Edoardo il Confessore (m. nel 1066) a Westminster.

Di fatto nell'abbazia di Westminster - ricostruita da Enrico III a partire dal 1245 come chiesa dell'incoronazione e sepolcreto della famiglia reale inglese - esiste un gruppo di opere collegabili all'attività di maestri romani, reclutati personalmente, durante i suoi viaggi in Italia, dall'abate Richard de Ware, che, come si legge sulla sua tomba nella stessa abbazia, importò lapides de Urbe. Si tratta del pavimento del presbiterio di fronte all'altare maggiore, che reca la firma Odericus; dell'arca che doveva sostenere un grande scrigno con le reliquie di Edoardo il Confessore, siglata da un Petrus qualificato come Romanus civis, e del monumento funebre di Enrico III (m. nel 1272).

L'arca di Edoardo, voluta da Enrico III, fatta demolire da Enrico VIII e ricostruita negli anni 1556-1560, si presenta oggi come un imponente parallelepipedo con tre lati aperti da profonde nicchie trilobe e archiacute (che nella parete di fondo presentavano una ricca decorazione cosmatesca), al di sopra delle quali corre una fascia orizzontale a specchi rettangolari, spartiti geometricamente in dischi e rombi raccordati da fasce musive; il quarto lato è costituito da una lastra rettangolare (forse quanto resta dell'altare; Perkins, 1938, p. 18), con analoga decorazione geometrica e musiva; agli angoli colonnine tortili sostengono un architrave aggettante.Attualmente le analogie che quest'opera presenta con il monumento viterbese si limitano ad alcuni dettagli quali il motivo 'a cinghia di trasmissione' (Claussen, 1987; 1990), presente all'interno delle nicchie del monumento di Edoardo e nel basamento del sepolcro papale, dove peraltro i rapporti proporzionali sono leggermente diversi, e all'uso della decorazione a chevron (forse repertorio comune di motivi cosmateschi; Binski, 1990). Nella struttura complessiva i due monumenti sembrano invece molto diversi ed è possibile, come sottolineano Gardner (1973; 1990; 1992) e Binski (1990), contrari all'identità tra i due artisti, trovare non a Roma, ma in Inghilterra i precedenti tipologici dell'opera di Westminster.

Di fondamentale importanza per l'identificazione del Petrus di Westminster con P. sarebbe anche la collocazione cronologica dell'arca, che è a tutt'oggi una questione aperta (Gardner, 1973; 1990; 1992; Claussen, 1987; 1990). Infatti, l'iscrizione in lettere romane intarsiate in vetro blu, che un tempo correva sulla fascia della cornice, oggi non è più visibile se non per pochi frammenti; se la lettura diffusasi dal sec. 18° e generalmente accettata ("Anno milleno Domini cum sexageno et bis centeno cum completo quasi deno hoc opus est factum quod Petrus duxit in actum Romanus civis"), che riferisce l'opera di P. alla fine degli anni sessanta, potrebbe trovare conferma nella traslazione delle reliquie di s. Edoardo, avvenuta il 13 ottobre 1269, e nella consacrazione della nuova abbazia nello stesso anno, la versione riportata nel sec. 15° da Richard Sporley, monaco di Westminster e storico degli abati e dei priori della casa, con la variante septuageno al posto di sexageno (Londra, BL, Cotton Claud. A. VIII, c. 59v), che sembra spostare la datazione del monumento di un decennio (Binski, 1990), riapre la discussione. Su quest'opera peraltro tacciono i documenti, abbastanza esaurienti sulle altre commissioni artistiche di Enrico III (Building Accounts, 1971), e invece ancora nel 1290 è documentato un pagamento per tre colonne di marmo (Binski, 1990).

Anche per il sepolcro di Enrico III - collocato per volontà dello stesso re di fronte all'arca di Edoardo il Confessore e costituito da un largo basamento, che presenta nel lato che guarda l'arca tre aperture, sopra al quale è posto uno stretto sarcofago, ornato da lastre di porfido e dai consueti motivi cosmateschi, dove nel 1291 fu posta l'effigie del defunto - è stato fatto il nome del marmoraro romano. Monferini (1969) ipotizza una sua realizzazione da parte di P. negli stessi anni dell'arca di Edoardo (intorno al 1269); Claussen (1987; 1990), sulla base di dati documentari e del confronto stilistico con il monumento funebre di Adriano V nel S. Francesco alla Rocca di Viterbo e con l'altare del Presepe di Arnolfo in S. Maria Maggiore a Roma, riferisce l'opera a una seconda ondata di influsso romano, distante dalla prima di circa un ventennio e direttamente collegata alla bottega di Arnolfo, a capo della quale, poté essersi trovato ancora una volta P.; Binski (1990), infine, seppure in termini più sfumati non esclude l'attribuzione.

L'ipotesi di un'attività di P. all'interno della bottega di Arnolfo è in ogni caso legata all'iscrizione "+Hoc opus/fecit Arnolfus/cum suo soci/o Petro" del ciborio romano di S. Paolo f.l.m., del 1285; va segnalata, però l'opinione di Keller (1934), secondo il quale proprio la menzione di P. - caso unico nel corpus arnolfiano - escluderebbe la sua appartenenza alla bottega. Se in passato nel 'socio' è stato visto Pietro Cavallini (Vertue, 1779; Moreschi, 1840) - che per alcuni studiosi dei secc. 18° e 19° è anche il Petrus di Westminster (Vertue, 1779; Walpole, 1888) - la maggioranza della critica, a partire in via ipotetica da Rossi (1889) e con certezza da Muñoz (1921), riconosce P. in modo più o meno deciso nel collaboratore di Arnolfo, sulla base dell'omonimia e della massiccia decorazione musiva presente nell'opera. Tuttavia, se da un lato il termine 'socio' sembra indicare un rapporto pressoché paritario tra i due artisti, dall'altro il maggior rilievo dato al nome di Arnolfo potrebbe contrastare con la fama che P. doveva avere acquisito in quanto autore di un sepolcro papale (se non addirittura attivo per la casa regnante inglese). È comunque difficile, all'interno del ciborio, in cui oltre ai due artisti furono attive le rispettive botteghe (Romanini, 1969), distinguere le parti che sicuramente spettano al collaboratore (Keller, 1934-1935; de Francovich, 1940; Romanini, 1969; 1983) e ancor più confrontare queste con l'unica opera pervenutaci dell'artista e cioè con la figura giacente di Clemente IV, che è evidentemente un unicum.L'ipotesi di una collaborazione tra Arnolfo e P. è stata estesa ad altre opere quali il monumento funebre di Guglielmo De Braye nel S. Domenico di Orvieto, realizzato da Arnolfo nel 1282, e quello (certo non arnolfiano) di Adriano V nel S. Francesco alla Rocca di Viterbo.A Viterbo, nella stessa chiesa di S. Francesco, è invece molto probabile che sia da attribuire a P. il monumento funebre del prefetto di Roma Pietro di Vico (m. nel 1268), oggi collocato nella parete interna ovest del transetto sud, ma un tempo situato, come quello di Clemente IV, in S. Maria di Gradi. L'affermazione che l'autore del sepolcro sia lo stesso del monumento papale, presente già nelle fonti più antiche (Papebroch, 1688; Salmini, Cronologia; Bussi, 1742), è stata generalmente accettata dalla critica e sembra confermata dall'analogia della struttura dei due basamenti. Tuttavia lo stato di frammentarietà in cui il monumento è pervenuto rende impossibile uno stringente confronto stilistico (D'Achille, 1996).Il ricordo di un'epigrafe con il nome Petrus Oderisius ha consentito di collegare a P. il monumento funebre del conte Ruggero d'Altavilla (m. nel 1101) e di sua moglie Eremburga nell'abbazia della SS. Trinità di Mileto in Calabria. Di esso sopravvive solo un grande sarcofago, che secondo la tradizione locale costituiva l'originaria sepoltura di Ruggero, conservato dal 1845 nel Mus. Naz. di Napoli. Tuttavia, nulla si può dire sulla datazione e sull'aspetto dell'opera, sommariamente descritta da Calcagni (1699) come collocata inter duas marmoreas columnas, seriamente danneggiata dal terremoto del 1659, ricostruita nel 1698 e definitivamente distrutta, con l'intera abbazia, dal terremoto del 1783. Da una pianta della chiesa di Ottavio Micosanto, del 1581 (Roma, Pontificio Collegio Greco, ACG, vol. 83, f. A), si ricava solo che il sarcofago era poggiato al muro a metà della navata laterale sud (Claussen, 1987). L'iscrizione che riferisce il nome dell'autore - oggi perduta, ma ancora esistente nel sec. 18° e trascritta da numerose fonti del tempo (Negri Arnoldi, 1972) - era secondo Cimaglia (1762) in due anelli concentrici, all'esterno dei quali nome e titolo del defunto figuravano in riquadri cruciformi (tale testimonianza sembra confermata dall'incisione inserita in Relazione, 1783, che dà notizia del ritrovamento del sarcofago del conte Ruggero) e recitava "Hanc sepulturam fecit Petrus Oderisius magister Romanus in memoriam hoc quicumque leges dic sit ei requies"; la frase andrebbe integrata con quanto era inciso nei bracci della croce e cioè "Rogerii/comitis/Calabriae et/Siciliae".La supposta presenza di P. a Mileto ha indotto Negri Arnoldi (1972) a ipotizzare un'attività dell'artista nel Meridione, individuabile, seppure in via congetturale, nel monumento funebre, oggi pesantemente alterato, dell'arcivescovo Filippo Minutolo (m. nel 1301) nel duomo di Napoli, che a suo avviso rivela alcune affinità con quello di Clemente IV (mosaici della cassa, andamento roccioso del panneggio dei giacenti, realismo dei volti). A tale attività sarebbero da collegare sia il diffondersi dell'influsso arnolfiano in questi territori sia quello di influenze meridionali a Roma. Il fatto che Filippo Minutolo fosse presente a Viterbo nel 1271, quando era in costruzione la tomba di Clemente IV, e che il suo monumento mostri punti di contatto anche con il sepolcro di Guglielmo De Braye potrebbe rendere l'ipotesi dello studioso in qualche modo verosimile. Di minor conto sono invece altre attribuzioni a P. avanzate in passato dalla critica.Anche se la figura di P. risulta ancora per tanti aspetti enigmatica, si può concordare con Claussen (1987) quando afferma che si tratta di uno dei più importanti artisti romani del sec. 13° e che la sua opera è espressione della radicale trasformazione dell'opus Romanum in opus Francigenum.

Bibliografia:

Fonti inedite. - F.M. Salmini, Cronologia Gradensis seu Conventus Sanctae Mariae ad Gradus de Viterbio (ms. del 1706), Roma, Arch. Generale Domenicano, XIV, Lib. C, parte I.

Fonti edite. - Building Accounts of Henry III, a cura di H.M. Colvin, Oxford 1971; D. Papebroch, Conatus chronico-historicus ad Catalogum Romanorum Pontificum a S. Petro ad Innocentium XI, in AASS Propylaeum Maii, 1688, pp. 53-55; D. Calcagni, Historia Chronologica brevis Abbatiae Sanctissimae Trinitatis Mileti, Messina 1699 (rist. in G. Occhiato, La Trinità di Mileto nel romanico italiano, Cosenza 1994, pp. 244-249); F. Bussi, Istoria della città di Viterbo, Roma 1742; N.M. Cimaglia, Della natura e sorte della Badia della SS. Trinità e S. Angelo di Meleto, Napoli 1762; G. Vertue, Account of Edward the Confessor's Monument, Archaeologia 1, 1779, pp. 32-39; Relazione della Commissione della Reale Accademia delle Scienze di Napoli, Napoli 1783.

Letteratura critica. - L. Moreschi, Descrizione del tabernacolo che orna la confessione della basilica di S. Paolo sulla via Ostiense, Roma 1840; H. Walpole, Anectodes of Painting in England with some Account of the Principal Artists, London 1888, I, p. 16ss.; G. Rossi, Ricerche sull'origine e scopo dell'architettura archiacuta. Mausoleo di Clemente IV, Siena 1889; A. Muñoz, Roma di Dante, Milano 1921; Toesca, Medioevo, 1927, pp. 206, 208-209, 863; s.v. Petrus Oderisii, in Thieme-Becker, XXVI, 1932, p. 505; H. Keller, Der Bildhauer Arnolfo di Cambio und seine Werkstatt, JPreussKS 55, 1934, pp. 205-228; 56, 1935, pp. 22-43; A. Perkins, Westminster Abbey: its Workshop and Ornaments, I, London 1938; G. de Francovich, Studi recenti sulla scultura gotica toscana: Arnolfo di Cambio, Le Arti 2, 1940, pp. 236-251; Toesca, Trecento, 1951, pp. 363-365; A. Monferini, Pietro d'Oderisio e il rinnovamento tomistico, in Momenti del marmo. Scritti per i duecento anni dell'Accademia di Belle Arti di Carrara, Roma 1969, pp. 39-63; A.M. Romanini, Arnolfo di Cambio e lo "stil novo" del gotico italiano, Milano 1969 (rist. anast. Firenze 1980); K. Bauch, Anfänge des figürlichen Grabmals in Italien, MKIF 15, 1971, pp. 227-258; F. Negri Arnoldi, Pietro d'Oderisio, Nicola da Monteforte e la scultura campana del primo Trecento, Commentari 23, 1972, pp. 12-30; J. Gardner, Arnolfo di Cambio and Roman Tomb Design, BurlM 115, 1973, pp. 420-439; E. Carli, Il gotico (La scultura italiana), Milano 19742 (1967), p. 93; K. Bauch, Das mittelalterliche Grabbild. Figürliche Grabmäler des 11. bis 15. Jahrhundert in Europa, Firenze-Berlin-New York 1976, pp. 141-153; A.M. Romanini, Arnolfo e gli "Arnolfo" apocrifi, in Roma anno 1300, "Atti della IV Settimana di studi di storia dell'arte medievale dell'Università di Roma 'La Sapienza', Roma 1980", a cura di A.M. Romanini, Roma 1983, pp. 27-72; I. Herklotz, "Sepulcra" e "Monumenta" del Medioevo. Studi sull'arte sepolcrale in Italia, Roma 1985 (19902); M. Mercalli, Arnolfo di Cambio e ''socius Petrus'', Ciborio (1285), Roma, S. Paolo fuori le mura, in Roma 1300-1875. La città degli Anni Santi. Atlante, a cura di M. Fagiolo, M.L. Madonna, cat. (Roma 1985), Milano 1985, p. 72; A.M. Romanini, Il ritratto gotico in Arnolfo di Cambio, in Europäische Kunst um 1300, "XXV. Internationaler Kongress für Kunstgeschichte, Wien 1983", VI, WienKöln-Graz 1986, pp. 203-209; P.C. Claussen, Magistri Doctissimi Romani. Die römischen Marmorkünstler des Mittelalters (Corpus Cosmatorum I) (Forschungen zur Kunstgeschichte und christlichen Archäologie, 14), Stuttgart 1987; A.M. D'Achille, Sulla datazione del monumento funebre di Clemente IV a Viterbo: un riesame delle fonti, AM, s. II, 3, 1989, pp. 85-91; id., Il monumento funebre di Clemente IV in S. Francesco a Viterbo, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien, "Akten des Kongresses ''Scultura e monumento sepolcrale del tardo Medioevo a Roma e in Italia'', Roma 1985", a cura di J. Garms, A.M. Romanini, Wien 1990, pp. 129-142; P.C. Claussen, Pietro di Oderisio und die Neuformulierung des italienischen Grabmals zwischen ''Opus Romanum'' und ''Opus Francigenum'', ivi, pp. 173-200; J. Gardner, The Cosmati at Westminster: some Anglo-Italian Reflexions, ivi, pp. 201-216; P. Binski, The Cosmati at Westminster and the English Court Style, ArtB 72, 1990, pp. 6-34; J. Gardner, The Tomb and the Tiara. Curial Tomb Sculpture in Rome and Avignon in the Later Middle Ages, Oxford 1992; A.M. D'Achille, Le sepolture medievali, in Santa Maria di Gradi, a cura di M. Miglio, Viterbo 1996, pp. 129-159.

[Da: http://www.treccani.it/enciclopedia/pietro-di-oderisio_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/ ]

2001. MALATERRA. Goffredo Malaterra.

2001. Francesco PANARELLI, Goffredo Malaterra

di Francesco Panarelli - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GOFFREDO Malaterra. - G. è autore di una cronaca in quattro libri che, nella sua edizione più recente, è intitolata De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius. Di lui, attivo alla fine del secolo XI, sappiamo solo quanto egli stesso afferma; in particolare egli si presenta come "frater Gaufredus, ab antecessoribus Malaterra agnomen trahens, felici [ed. Pontieri: "infelici"] curso mundano […] habito, ad felicitatis quietis Mariae cum Lazaro fratre resuscitari" (p. 3), riferendosi a un prolungato, e non meglio precisato, impegno nel secolo, seguito dalla pace della scelta di vita monastica.

Una tradizione storiografica diffusa, ma priva di riscontri, vuole che G. provenisse dal monastero normanno di St-Évroult, lo stesso che ospitò Orderico Vitale. Questi nella Historia ecclesiastica ricorda tra le sue fonti che "Goisfredus monachus cognomento Malaterra hortatu Rogerii comitis Siciliae elegantem libellum nuper edidit"; il mancato accenno da parte di Orderico a una qualifica di confratello per G., nonché il silenzio in proposito dello stesso G., che neppure parla di una sua monacazione in Normandia, non lasciano margini per la identificazione della prima comunità monastica di Goffredo. È invece certa la sua origine normanna, confermata tanto dall'appellativo Malaterra (ben inserito nella tradizione onomastica normanna), quanto dal tono complessivo dell'opera, che presuppone una totale identificazione dell'autore con la gente normanna: a loro è costantemente riservato il termine "nostri", mentre i "Longobardi" (p. 14), come gli "Apulienses" (pp. 14 s.) e i "Calabrenses" (p. 22), per non parlare dei "Graeci" (p. 40), sono tutti "genus semper perfidissimum". Anche a proposito dei suoi spostamenti in Italia G. è laconico, affermando soltanto "a transmontanis partibus venientem, noviter Apulum factum, vel certe Siculum" (p. 3); se ne può dedurre che in un primo tempo G. si fermò nel Mezzogiorno peninsulare (esclusa la Calabria), indicato dal termine "Apulia", e in un secondo momento si spostò in Sicilia. Nulla si dice quindi delle soste nei monasteri della Ss. Trinità di Venosa, di S. Eufemia e della Ss. Trinità di Mileto, tradizionalmente a lui attribuite. Sicura è soltanto la sua appartenenza al monastero di S. Agata di Catania di cui era abate il vescovo di Catania Angerio, destinatario della epistola dedicatoria del De rebus gestis. Si può ipotizzare che G. sia giunto in Sicilia dopo il dicembre 1091, quando Angerio, nell'organizzare la diocesi e il monastero catanesi, si preoccupò anche di radunare "monachorum turbam non modicam" (p. 90), al cui interno è lecito collocare Goffredo.

Dallo stesso prologo si desume anche la stretta vicinanza di G. agli ambienti di corte e alla persona del conte Ruggero I. Da questo G. aveva ricevuto precedenti e non precisati benefici e a lui attribuisce direttamente la committenza dell'opera e l'insistenza per una sua rapida conclusione. La trascrizione finale del privilegio del luglio 1098 con il quale il pontefice Urbano II affidava a Ruggero I le funzioni di legato apostolico in Sicilia lascia anche intendere che G. aveva accesso a parte della documentazione di corte; null'altro si può stabilire su eventuali fonti narrative a sua disposizione. La stesura dell'opera va collocata in data non di molto posteriore al 1098, anno conclusivo della narrazione. Infatti, pur parlando della crociata e della adesione di Boemondo all'impresa, G. non dice pressoché nulla delle sorti di questo, né degli sviluppi dell'intera crociata. Ancora, in tutta l'opera non si accenna mai al conte Ruggero I (m. giugno 1101) come defunto, né alle questioni relative alla sua successione. L'unico appiglio per una datazione posteriore potrebbe essere costituito dalla notizia datata 1098: "se impregnavit comitissa Adelasia de comite Rogerio" (p. 105). Con essa si allude a Ruggero II, attribuendo alla sua nascita un particolare rilievo. In realtà si tratta di una glossa confluita malamente nel testo, sia per l'errore nella datazione (la nascita di Ruggero II va posta quasi certamente al dicembre 1095), sia per l'attribuzione del titolo di conte, che implicherebbe l'avvenuta morte di Ruggero I e dell'erede Simone. Al contrario per G. l'erede di Ruggero I è sempre il primogenito del matrimonio con Adelaide, cioè Simone (m. 1105).

Un problema aperto è costituito dall'indicazione errata dell'anno per molti avvenimenti: tendenzialmente si computa un anno in meno, ma senza coerenza. Lo stesso G. si scusa delle possibili discrepanze cronologiche ("si seriatim minus ordinate, secundum tempora, quibus facta sunt quae adnotantur", p. 3) attribuendole alle fonti orali cui si è spesso affidato; ma questa giustificazione non regge quando si tratta di avvenimenti relativi alla Sicilia e ad anni recenti. Non bisogna sottovalutare allora la corruzione del testo tramandato, né escludere la possibilità che le notazioni cronologiche siano state inserite in un secondo tempo da G. o addirittura da altri in maniera non pertinente (Houben).

Il De rebus gestis si apre con una epistola dedicatoria rivolta al vescovo Angerio, sotto la cui protezione il confratello G. si pone. L'opera infatti era stata commissionata dal "principe" (così intitolato nel prologo e saltuariamente negli ultimi due libri) Ruggero I, ma l'autore teme nell'esporla a pubbliche letture. Due sono i punti a suo parere deboli, che potrebbero essere attaccati da eventuali "aemulis": per un verso la scarsa conoscenza diretta degli avvenimenti narrati, con una conseguente ampia fiducia accordata a fallibili "relatoribus", per l'altro la "incultiori poëtria", che discende però da una esplicita richiesta del principe committente. Scriverà dunque "plano sermone et facili ad intelligendum" (p. 1), malgrado sia in grado di "pomposius eructare"; ma il quasi rammarico di dover scrivere in una prosa semplice riemerge periodicamente nel testo, a cominciare dall'abbozzo di resa metrica del sommario del primo libro che si arresta con la esortazione, malinconicamente rivolta a se stesso, "rhitmus cesset, prosa dicat" (p. 5). Una nuova dichiarazione di umiltà apre il III libro (p. 57), dove però la poesia si alterna alla prosa con costanza prosimetrica, tanto da far pensare a una composizione in tempi diversi dei due ultimi libri. Una seconda sezione del prologo si rivolge "omnibus quibus per universam Siciliam episcopale vel clericale nome assignatur" (p. 4). Per loro, sulla scorta di una citazione di Sallustio (ma andrebbero ancora accertate altre fonti classiche dell'opera), G. ripercorre le motivazioni che avevano spinto il conte Ruggero I a cercare qualcuno che fermasse sulla carta la memoria delle sue gesta. La ripetizione concettuale di quanto esposto precedentemente, il coinvolgimento di altri destinatari e una certa involuzione espositiva lasciano sorgere qualche sospetto sulla genuinità di questa parte, bilanciato però dalla consonanza stilistica e tematica con il resto dell'opera.

Il primo libro - ricco di scene tra il grottesco e il fumettistico, che evocano una sorta di Urwelt normanno popolato da uomini dalla forza inverosimile - si apre con una breve sintesi della preistoria del popolo normanno basata chiaramente sui ricordi personali dello scrittore: di qui per esempio l'errata attribuzione a Ludovico II dell'investitura di Rollone. Il cerchio della narrazione si stringe rapidamente intorno a Tancredi di Altavilla e ai suoi figli che "communi consilio" decisero di trasferirsi in cerca di fortuna in Italia, con una descrizione della conquista del Mezzogiorno. Elusi i primi anni della presenza normanna nel Mezzogiorno, al di là delle battaglie (Olivento e Montepeloso), il primo episodio chiave viene individuato nell'incresciosa battaglia di Civitate, con la sconfitta e l'imprigionamento di papa Leone IX nel 1053 (1052 per G.), dove i Normanni ricevettero comunque in premio l'investitura pontificia dei territori conquistati e ancora da conquistare, con una prima inclusione della stessa Sicilia (e G. è l'unico a farne parola). Subito dopo è Roberto, giunto poco dopo il 1046 in Calabria, a calamitare l'attenzione, e nulla si tace dei suoi magri e gagliardi inizi, tra razzie e rapimenti di persona. La sua stella si risollevò d'un colpo con la successione al fratello Unfredo nel 1056, mentre contestualmente comparve in Calabria l'ultimo dei fratelli Altavilla, Ruggero. Ben presto si manifestarono le prime tensioni tra i fratelli (originate da un misto di invidia e timore da parte del Guiscardo), che rappresentano una costante ciclica nei rapporti tra i due. La pace si fondò sulla decisione di Roberto di garantire al fratello metà delle terre di Calabria. A Reggio, conquistata nel 1060 (1059 per G.), ebbe luogo l'acclamazione di Roberto a duca, senza alcun cenno alla investitura melfitana del pontefice Niccolò II. Due aneddoti chiudono il libro, quasi a recuperare il filo iniziale della fortuna della stirpe degli Altavilla e a introdurre la materia del secondo libro: l'epopea di Ruggero I in terra di Sicilia avviata nel 1060, contro i musulmani dell'isola.

Nel secondo libro G. è particolarmente attento a porre in luce il ruolo fondamentale di Ruggero I, che dal 1061 si fermò stabilmente in Sicilia a Troina, trascinandovi anche la giovane moglie, Giuditta di Évreux. Proprio il desiderio di garantire un consono status alla giovane moglie avrebbe spinto, stando a G., Ruggero I a una pericolosa guerra fratricida per reclamare quanto pattuito a suo tempo con Roberto. Dopo la pace con il duca e la vittoria contro i Saraceni sul fiume Cerami (1063), nel 1065 (1064 per G.), cominciarono gli attacchi contro Palermo, mentre nel 1068 (1067 per G.) il Guiscardo attaccava Bari. I due assedi vengono narrati a intreccio da G., ma l'accelerazione della campagna viene attribuita all'arrivo di Ruggero nelle acque di Bari, il cui effetto fu la resa dei Baresi nel 1071 (1070 per G.). Nel dicembre dello stesso anno anche Palermo era in mano latina, e G. è attento a ricordare che duca e conte restaurarono l'antica sede arcivescovile, già trasformata in moschea, e reinsediarono l'arcivescovo greco che la città ancora ospitava. Quanto alla divisione delle terre di Sicilia, G. lascia intendere che tutta l'isola era destinata a Ruggero I, con la riserva per il duca del Val Demone (senza far qui menzione di Messina e Palermo). Il libro si chiude però sulle note dolenti della morte - sia pure eroica e frutto dell'inganno - del nipote del duca e del conte, quel Serlone al quale, insieme con Arisgoto di "Puteolis", dice G., era destinata addirittura una metà dei possessi siciliani, per concorde volontà del duca e del conte.

Il terzo libro è dedicato alla narrazione parallela delle gesta dei due fratelli, con una certa confusione cronologica nelle vicende relative al Guiscardo e alla presa di Salerno. Ma se Ruggero I avanzava in Sicilia, ancor più grandiosi erano i progetti di Roberto: la conquista di Bisanzio. G. lascia intendere che il deposto imperatore Michele VII comparso a corte del Guiscardo era un impostore, ma dice chiaramente che il duca, battendosi perché egli stesso "imperator fieret" (p. 65), era indifferente alla questione. Nel 1081 partì la spedizione greca del Guiscardo, con la rapida presa di Corfù e di Valona. Fu però solo il tradimento del custode della torre maggiore di Durazzo a permettere la presa di questa città; un'azione per la quale non una parola di biasimo sfugge al cronista. Quasi contemporaneamente a Catania invece il saraceno Benthuman tradì la fiducia di Ruggero I e aprì le porte della città a Benavert, signore di Siracusa: lui sì che "traditionis nomen sibi perpetuo vindicavit" (p. 75), e infatti fu ben ripagato dallo stesso Benavert, che lo fece uccidere. Roberto intanto abbandonava i suoi disegni orientali per rispondere alle richieste d'aiuto di Gregorio VII, assediato in Roma dalle truppe di Enrico IV; nel 1084 (ma 1083 in G.) le truppe normanne cinsero d'assedio e misero a sacco Roma, ai cui cittadini G. riserva aspri versi di biasimo. Per contrasto, non manca di rimarcare trionfalmente come, mentre il padre scacciava Enrico IV da Roma, Boemondo poneva in fuga l'altro imperatore, Alessio, presso Valona. Al culmine della gloria, il 1085 (ma 1084 per G.) si rivela un "annus horribilis": segnato dall'eclissi, vede scomparire Gregorio VII, Guglielmo il Conquistatore e lo stesso Guiscardo, spentosi nei Balcani e sepolto a Venosa. La grandiosa chiusa funebre del libro viene in parte guastata dal codicillo finale, che anticipa la contesa tra i due eredi, i fratellastri Boemondo e Ruggero Borsa, quest'ultimo infine debole vincitore.

Nell'ultimo libro, sostituito il Guiscardo dalla scialba figura del figlio, giganteggia Ruggero I, con la capitolazione nel 1086 (ma 1085 per G.) della stessa Siracusa, seguita a ruota da Agrigento ed Enna, mentre a ricompensa dell'aiuto più volte prestato il duca Ruggero I gradualmente rinunciò ai suoi diritti su terre e città di Calabria e Sicilia. È a questo punto che secondo G. si realizzò un mutamento in Ruggero I, che da avido conquistatore si trasformò in pacifico amministratore delle sue terre, amante della giustizia e soprattutto "Deo devotus", trasformazione consolidatasi col compimento della conquista (p. 94). Di qui l'avvio di una sistematica campagna per la ricostituzione della rete delle istituzioni ecclesiastiche latine dell'isola, con un catalogo delle nuove fondazioni vescovili (Agrigento, Mazara, Siracusa, Catania). Anche il neoeletto pontefice Urbano II individuò in Ruggero I un degno interlocutore, tanto da recarsi personalmente in Sicilia per incontrarlo. Nella relativa pace G. si sofferma sulle vicende familiari del conte, come il terzo matrimonio, quello con Adelaide del Vasto, o il triste destino dei suoi figli, Goffredo e Giordano, la cui perdita venne in parte colmata dalla nascita di un altro figlio maschio, Simone. Nel 1096, durante l'assedio della riottosa Amalfi, G. registra la comparsa dei pellegrini armati, segnati dalla croce e volti alla riconquista dei Luoghi Sacri, con l'adesione dell'irrequieto Boemondo. I paragrafi finali dell'opera segnano però il trionfo di Ruggero I: in lui si realizzano i piani divini, con una netta diversione rispetto a qualsiasi interesse per la crociata. Se già le navi appesantite dai prigionieri cristiani liberati dopo la presa di Malta risultavano miracolosamente più leggere che all'andata (p. 95), ancor più esplicita fu l'avventura del vescovo Arduino che, attaccato dai pirati, chiese e ottenne l'aiuto divino adducendo i meriti di Tancredi d'Altavilla e l'essere egli allora al servizio di suo figlio Ruggero: si aprì così la via per una beatificazione della "stirps" degli Altavilla. Ben si coordina la chiusa dell'opera, dedicata alla soluzione della questione della legazia: a Ruggero e ai suoi discendenti venne difatti riconosciuto l'esercizio delle prerogative dei legati pontifici e, per dare il massimo risalto a questa concessione, G. inserì la trascrizione per intero del privilegio (1098) concesso dal papa e che solo da lui ci è stato trasmesso.

L'intera opera è, come già ricordato, fortemente legata all'esaltazione del ruolo svolto nella storia dai Normanni. Questo è evidente fin dall'apertura, quando vengono tratteggiate le virtù che li contraddistinguono, anticipando quelle che verranno poi declinate nel corso della narrazione (p. 8); sono qualità estreme, che rasentano l'eccesso e rischiano di trasformarsi in doti negative, degne di biasimo, il cui tratto meglio caratterizzante nella sua ambiguità coincide proprio con la aviditas / avaritia, molla inesauribile delle conquiste normanne. Ma l'aviditas degli Altavilla è sorretta dalla strenuitas, vero "mos insitus" della stirpe e motore della loro felice sorte. Anche l'immagine classica della "rotalis fortuna" (pp. 37, 43) finisce per occupare un posto secondario, così come non determinante è la stessa "providentia": il buon esito delle imprese normanne è un segno manifesto della benevolenza con cui l'occhio divino si volge verso i cavalieri nordici (pp. 8 s.). Più complesso diventa il discorso quando si passa a parlare dell'impresa di Sicilia, anche se una germinale esaltazione dei valori religiosi si ha solo a Cerami, quando Ruggero I giunse ad arringare i suoi ricordando i meriti dei "christiane militiae tyrones", mentre compariva sul campo a dare man forte un cavaliere celeste (s. Giorgio), e sulla stessa lancia di Ruggero I si materializzava un vessillo con croce; il suggello finale venne dalla benedizione pontificia e dal conseguimento del vessillo di S. Pietro. È questo il momento in cui, anche nei toni di G., la campagna di Sicilia si avvicina maggiormente a una guerra santa, a una sorta di crociata. Nel resto della narrazione infatti è predominante una concezione quasi utilitaristica dei rapporti con la religione, tanto nella campagna contro gli infedeli, quanto in quella contro i cristiani d'Oriente. La descrizione e la spiegazione offerte da G. della decisione di Boemondo di unirsi ai crociati non potrebbero essere più esplicite nel dissipare ogni dubbio su eventuali slanci e afflati religiosi. Le ragioni che G. adduce sono nell'ordine: la volontà di arrecare danno al fratello con l'abbandono di un assedio ben avviato (tesi che G. rigetta); il desiderio di soggiogare l'Impero d'Oriente; la tentazione costituita da tanti armati in movimento e privi di un princeps in grado di guidarli e coordinarli. Solo in ultimo compare il voto, una volta assunta la croce, di non attaccare più terre cristiane sino a che non siano state occupate quelle dei pagani.

Edizioni. La cronaca ha avuto una discreta diffusione manoscritta nel corso del Medioevo, tanto da essere oggetto di un volgarizzamento per mano di fra Simone da Lentini nel 1358 (cfr. La conquesta di Sichilia fatta per li Normandi…, a cura di G. Rossi-Taibbi, Palermo 1954). Stampata per la prima volta a Saragozza nel 1578 a opera di Girolamo Zurita, l'unica edizione critica è quella a cura di E. Pontieri, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, in Rer. Ital. Script., 2a ed., V, 1 (1925-28), sulle carenze della quale - aggravate dal ritrovamento di nuovi testimoni - si vedano le osservazioni di G. Resta, Per il testo di Malaterra e di altre cronache meridionali, in Studi per il CL anno del liceo-ginnasio T. Campanella, Reggio Calabria s.d. (ma 1964), pp. 399-456, e di O. Capitani, Motivazioni peculiari e linee costanti della cronachistica normanna dell'Italia meridionale: secc. XI-XII, in Atti dell'Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna. Rendiconti, LXXV (1976-77), pp. 59-91. Brani tradotti sono presenti in P. Delogu, I Normanni in Italia. Cronache della conquista e del Regno, Napoli 1984, pp. 37-39, 44 s., 52 s., 56 s., 65-88, 93, 109 s., 112-120, 126-128.

Fonti e Bibl.: Ordericus Vitalis, Historia ecclesiastica, a cura di M. Chibnall, II, Oxford 1969, p. 100; F. Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie, I, Paris 1907, pp. XXXVI s.; E. Jamison, The Sicilian Norman Kingdom in the mind of Anglo-Norman contemporaries, in Annual Italian Lectures of the British Academy, XXIV (1938), pp. 7 s.; A. Nitschke, Beobachtungen zur normannischen Erziehung im 11. Jahrhundert, in Archiv für Kulturgeschichte, XLIII (1961), pp. 265-298; E. Pontieri, G. M. storico del gran conte Ruggero, in Id., Tra i Normanni dell'Italia meridionale, Napoli 1964, pp. 211-282; S. Fodale, Comes et legatus Siciliae, Palermo 1970; J. Deer, Papsttum und Normannen: Untersuchungen zu ihren lehnsrechtlichen und kirchenpolitischen Beziehungen, Köln 1972, pp. 107-125; G.M. Cantarella, La fondazione della storia nel Regno normanno di Sicilia, in L'Europa dei secoli XI e XII fra novità e tradizione: sviluppi di una cultura, a cura di P. Zerbi - L. Prosdocimi - G. Picasso, Milano 1989, pp. 171-196; V. D'Alessandro, Il problema dei rapporti fra Roberto il Guiscardo e Ruggero I, in Roberto il Guiscardo e il suo tempo. Atti delle Prime Giornate normanno-sveve, Bari… 1973, Bari 1991, pp. 101-115; S. Fodale, Il gran conte e la Sede apostolica, in Ruggero il gran conte e l'inizio dello Stato normanno. Relazioni e comunicazioni delle Seconde Giornate normanno-sveve, Bari… 1975, Bari 1991, pp. 25-42; M. Oldoni, Mentalità ed evoluzione della storiografia normanna fra l'XI e il XII secolo in Italiaibid., pp. 166-174; P. Delogu, La "militia Christi" nelle fonti normanne dell'Italia meridionale, in "Militia Christi" e crociata nei secoli XI-XIII. Atti dell'Undecima Settimana di studio, Mendola … 1989, Milano 1992, pp. 145-165; B. Vetere, Il senso dello Stato nella storiografia meridionale: da G. M. a Pietro da Eboli, in Unità politica e differenze nel Regno di Sicilia, a cura di C.D. Fonseca - H. Houben - B. Vetere, Galatina 1992, pp. 27-61; G.M. Cantarella, "Historia non facit saltus"? Gli imprevisti normanni, in I re nudi. Congiure, assassini, tracolli ed altri imprevisti nella storia del potere. Atti del Convegno… Fondazione E. Franceschini, Certosa del Galluzzo … 1994, a cura di G.M. Cantarella - F. Santi, Spoleto 1995, pp. 9-38; K.B. Wolf, Making history. The Normans and their historians in eleventh-century Italy, Philadelphia 1995, pp. 142-171; G. Ferraù, La storiografia come ufficialità, in Lo spazio letterario del Medioevo, I, Il Medioevo latino, III, La ricezione del testo, Roma 1995, pp. 677 s.; G.M. Cantarella, La frontiera della crociata: i Normanni nel Sud, in Il concilio di Piacenza e le crociate, Piacenza 1996, pp. 225-246; H. Houben, Adelaide del Vasto nella storia del Regno normanno di Sicilia, in Id., Mezzogiorno normanno-svevo, Napoli 1996, pp. 81-113; H. Taviani-Carozzi, La terreur du monde. Robert Guiscard et la conquête normande en Italie, Paris 1996, pp. 17-23; R. Bünemann, Robert Guiskard, 1015-1085. Ein Normanne erobert Süditalien, Köln-Wien-Weimar 1997, ad ind.; M. Oldoni, I luoghi della cultura orale, in Centri di produzione della cultura nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle Giornate normanno-sveve, Bari  1995, a cura di G. Musca, Bari 1997, pp. 373-387; S. Tramontana, I luoghi della produzione storiograficaibid., pp. 21-40; Rep. fontium hist. Medii Aevi, IV, pp. 643 s.; Lexikon des Mittelalters, IV, coll. 1142 s.

[Da: http://www.treccani.it/enciclopedia/goffredo-malaterra_(Dizionario-Biografico)/ ]












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Gennaro TOSCANO. Aubin-Louis Millin et la Calabre médiévale: les monuments funéraires de Mileto, Tropea et Gerace.

Gennaro TOSCANO
Aubin-Louis Millin et la Calabre médiévale: les monuments funéraires de Mileto, Tropea et Gerace

L’archéologue et historien de l’art francais Aubin-Louis Millin (1759-1818) gagna l’Italie à l’automne 1811 et, pendant près de deux ans, sillonna le pays.1 Son itinéraire fot planifié avec un soin presque obsessionnel, notamment gràce aux informations que lui fournirent ses correspondants dispersés dans les diffé- rentes villes et régions d’Italie.

Plus qu’un voyage de formation dans la tradition du Grand Tour - l’archéologue avait 52 ans ! -, son périple fut avant tout un voyage officiel, une mission d’‘inspection patrimoniale’ effectuée pour le compte du gouvernement fran?ais dans des territoires qui étaient devenus depuis quelques années propriétés de l’empire napoléonien. 
L’érudit avait deux objectifs principaux: étudier et documenter les nombreux ‘monuments inédits’, avec l’idée de publier un nouveau voyage pittoresque de la péninsule; vérifier attentivement leurs conditions de conservation afin de signaler aux autorités compétentes tous les cas nécessitant une intervention de restauration.

Avec ce voyage, Millin révolutionna les habitudes du Grand Tour. Son attention se porta non seulement sur les monuments antiques mais aussi sur ceux du Moyen Age, de la Renaissance et de la période baroque, et à la différence de ses prédécesseurs il sut s’éloigner des sentiers battus et s’aventurer dans les régions les plus reculées, et donc inexplorées, du Royaume de Naples, tels la Calabre, la Basilicate, le Molise et les Abruzzes.























 








































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