giovedì 24 febbraio 2011

Elena Pontiggia (a cura di), Adolfo Wildt e i suoi allievi Fontana, Melotti, Broggini e gli altri, Catalogo Mostra Brescia, 23 gennaio-25 aprile 2000, Skira, 2000.

Adolfo Wildt





Ill da: Elena Pontiggia (a cura di), Adolfo Wildt e i suoi allievi Fontana, Melotti, Broggini e gli altri, Catalogo Mostra Brescia, 23 gennaio-25 aprile 2000, Skira, 2000, pp. 236 - Lingua: Italiano - ISBN-13: 9788881186372 - ISBN: 8881186373.

(copertina)

(ved. Bibliografia, n° 22).


Sommario dell'opera
Adolfo Wildt. L'anima e la sua veste (Elena Pontiggia), p. 11.
Wildt e lo stile decò (Rossana Bossaglia), p. 33.
Adolfo Wildt: le grandi Giornate di Dio e dell'Umanità (Lorella Giudici), p. 35.
Catalogo delle opere (a cura di Elena Pontiggia), p. 39.
Schede tecniche (a cura di Lorella Giudici), p. 173.
Apparati, p. 181.
Biografia di Adolfo Wildt (a cura di Elena Pontiggia), p. 183.
Antologia di scritti (a cura di Lorella Giudici), p. 205.
Momenti di critica wildtiana (a cura di Lorella Giudici), p. 215.
Biografie degli allievi (a cura di Lorella Giudici), p. 221.
Bibliografia (a cura di Lorella Giudici), p. 225.







Adolfo Wildt, Vir temporis acti, 1911, opera dispersa.
(foto d'epoca Emilio Sommariva)

(Ill da: Elena Pontiggia (a cura di), Adolfo Wildt e i suoi allievi, cit.)



Elena PontiggiaAdolfo Wildt
Uomo antico, 1911, Bronzo, h 56 x 42 cm (cat. n. 5)
"Intorno al 1911 Wildt scolpisce un grandioso busto oggi disperso: Vir temporis acti, l'uomo del tempo passato. È la potente figura di un soldato che si percuote con lo staffile, simbolo della mortificazione ascetica, ma anche della durezza delle epoche passate, delle lacrime e del sangue di cui gronda ogni storia. In lui, però, si racchiude un'incontenibile energia vitale, simboleggiata dai capezzoli a forma di fiore. (1)
Anche il Vir, al pari del Crociato, è un emblema dell'uomo che soffre ma che, nonostante la sofferenza, lotta per il proprio ideale, conduce il suo sacrum bellum, come testimonia silenziosamente la spada al suo fianco. Tra la frusta e l'elsa, fra la violenza subita e quella inferta, è certo la prima a prevalere. Ma la grandezza dell'eroe non consiste nella vittoria. Consiste, evangelicamente e wagnerianamente, nella nobiltà del sacrificio.
Il volto (che Wildt considera anche come opera autonoma, dandole il nome di Uomo antico) esaspera l'anatomia visionaria avviata dall'Autoritratto, mostrando l'avvenuta assimilazione dell'espressionismo tedesco. Così le vaste arcate sopraccigliati si sollevano sopra il fondo gorgo degli occhi, i muscoli della fronte si aggrottano convulsamente, le vene del collo si gonfiano come se colassero. A questo stravolto paesaggio facciale fanno riscontro particolari innaturalmente decorativi, come l'andamento ondulato dei capelli, la corolla dei capezzoli o l'elaborato fregio della spada. Ma la grazia dei ritmi ornamentali e l'enfasi della resa anatomica hanno uno stesso fine: concorrono in modo uguale e contrario ad allontanare la figura dal realismo, a forzare la verità della natura in nome della verità della forma.
Si mescolano nell'opera echi classici (il Giove di Otricoli, il Laocoonte) e secessionisti. In particolare i motivi decorativi dei capelli e della spada fanno pensare al guerriero del Fregio di Beethoven di Klimt. Tutto l'espressionismo di Wildt, del resto, si avvicina a certi esiti "barbarici" degli scultori della Secessione: ad Andri, ad esempio. Questa affinità, però, non si traduce in similitudini precise, perché la singolare mescolanza, in Wildt, di classicità, simbolismo ed espressionismo, e soprattutto l'ostinato mestiere che lo porta all'altissima definizione della forma, non ha riscontro nel primitivismo sbozzato di artisti come Andri, appunto, o come Mestrovich, a cui Wildt fu spesso accostato.
La spada isolata, poi, persegue un'intuizione formale che l'artista svilupperà in altre opere, dalla Madre adottiva all'Anima dei Padri. E' l'idea della funzione plastica della linea, della scultura come pura geometria bidimensionale. Sotto le apparenze di uno scudo, di una spada o di un nastro, Wildt introduce una nozione di scultura come "disegno nello spazio" (per usare l'espressione di Gonzales), di cui faranno tesoro i suoi allievi. Acquistato nel 1912 dal Museo di Konigsberg, Vir temporis acti è ora disperso. Rimangono, in collezioni private, i particolari del busto e alcuni esemplari della testa".Elena Pontiggia, op. cit., Catalogo delle opere. Scheda n° 5, p. 48)

(Nota 1)
"Ricorda Ojetti: "S'era davanti al torturato marmo del Vir temporis acti, schiavo o guerriero, con una spada al fianco e uno staffile sulla spalla, - Perché i seni di quel tetro gigante finiscono in un fiorellino a sei petali? - Perché? - mi risponde il Wildt - Dal capezzolo esce il fiore del latte e della vita" [Ojetti 1926, (2), p. 462]. Scriveva invece Salvaneschi nel 1913: "La spada conficcata accanto al torso nudo vuol rappresentare lo spirito cavalleresco dell'epoca: il segno di tortura gettato sulle spalle vuol spiegare l'ignoranza che avvolgeva il popolo" [Salvaneschi 1913, (2), p. 2]". (Ibid.)


Adolfo Wildt Uomo antico, 1911.
(Ill da: Elena Pontiggia (a cura di), Adolfo Wildt e i suoi allievi, cit.)





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SEZIONE
I libri di Losfeld


Adolfo Wildt





Ill da: Elena Pontiggia (a cura di), Adolfo Wildt e i suoi allievi Fontana, Melotti, Broggini e gli altri, Catalogo Mostra Brescia, 23 gennaio-25 aprile 2000, Skira, 2000, pp. 236 - Lingua: Italiano - ISBN-13: 9788881186372 - ISBN: 8881186373.









Adolfo Wildt, Vir temporis acti, 1911, opera dispersa.
(foto d'epoca Emilio Sommariva)

(Ill da: Elena Pontiggia (a cura di), Adolfo Wildt e i suoi allievi, cit.)




Adolfo Wildt Uomo antico, 1911.
(Ill da: Elena Pontiggia (a cura di), Adolfo Wildt e i suoi allievi, cit.)












Dolci Presenze del Viandante seguono l'Ombra in questo Silenzio popolato di Assenza.

Viaggiare. Dentro. Fuori.

Occhi. Lago di Nuvole.





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martedì 22 febbraio 2011

Byron. George Gordon Byron, Manfred. Versione di Carmelo Bene.

George Gordon Byron, Manfred

(Versione italiana e riduzione di Carmelo Bene)

"Spirito: Che vuoi? /

Voce altro Spirito: Che vuoi? /

Manfred: Tu non mi puoi rispondere. Chiama i morti! / La mia domanda è a loro! /

Voce altro Spirito: Grande Arhiman, la tua volontà / consente ai desideri di questo mortale? /

Arhiman: Sì. /

Voce altro spirito: Chi vuoi disseppellire? /

Manfred: Una che non ha tomba. Evoca Astarte. /

Voce Nemesi: Ombra, Spirito chiunque tu sia, / che serbi ancora, in tutto o in parte, / la forma della nascita, l'involucro / d'argilla che ritornò alla terra, / riappari! ... /

Riporta con te / quello che tu portavi: cuore e forma / sottrai ai vermi l'aspetto che fu tuo / Appari. Appari. Appari! /

(Glaciale Silente Apparizione Ectoplasma Astarte)

Manfred:
- Possibile che questa sia la morte? / Le guance sono rosse. Ma ora / vedo, non è un colore vivo, / ma stranamente febbrile; / il rosso innaturale che l'autunno imprime / sulle foglie morte. /
... È Lei! ... La stessa ... Oh Dio! /
Ch'io debba raggelare nel guardarla? ... /
Astarte! ... Perdonami ... o dannami!... /
Io non posso, ma ditele di parlare! /


Voce Nemesi:
- Per quel potere che ha infranto la tomba / che ti rinchiudeva, / rispondi a questi che ti ha parlato! /
Parla a chi ti ha evocato. /

Manfred: Tace. Questo silenzio mi risponde. /

Voce Nemesi:
- Il mio potere si ferma qui.
Principe / dell'aria, tu solo puoi. Comandale / di parlare. /

Arhiman:
- Spirito, obbedisci a questo scettro! /

Nemesi:
- Tace sempre. Non è del nostro ordine. / Appartiene ad un altro potere.
Mortale, / la tua ricerca è vana /

Manfred:
- Odimi, odimi, Astarte, / amata, parlami!
Tanto ho sofferto / e soffro ancora tanto. Guardami /
La tua fossa non ti ha mutato tanto / quant'io son mutato per te. /
Troppo mi amasti, come io ti amai. /
Non eravamo fatti per torturarci così, / quantunque fosse il più empio dei peccati / amarci come noi ci amammo ... /
Dimmi che tu non mi detesti ... /
Che io sconto il castigo per entrambi, / che tu sarai del numero beato, / e io morrò ... Perché finora tutto / quel che odio cospira a incatenarmi / all'esistenza, a una vita che mi esclude / dall'immortalità, dove il futuro / è simile al passato.
Non ho tregua. /
Non so che cosa chiedere o cercare. /
Sento soltanto quello che tu sei / e io sono. Ma, prima di morire / vorrei udire di nuovo quella voce / che era la mia musica. /





Parlami!
Ti ho invocato nelle notti / serene, ho spaventato gli uccelli / addormentati tra i silenziosi rami, / per chiamare te ... /
Ho risvegliato i lupi montani / ho appreso alle caverne a riecheggiare / invano il nome tuo adorato; tutto / rispose, tranne la tua voce.

Parlami! /
Ho errato sulla terra e non ho mai / trovato a te l'uguale.

Parlami! /
T'ho cercato tra le stelle a venire, / ho contemplato il cielo inutilmente, / senza trovarti mai.
Parlami!
Guarda, / i demoni a me attorno, hanno pietà / di me che non li temo ed ho pietà / per te soltanto.

Parlami!
Sdegnata, / se vuoi, ma parlami! ...
Dimmi / non so che cosa, ma che io ti senta / una volta ancora ... /

Fantasma d'Astarte:
- Manfredi! /

Manfred:
- Parla, continua! Io vivo in questo suono. / È la tua voce. /

Fantasma d'Astarte:
- Manfredi; domani avranno termine / le tue sventure terrene. Addio. /

Manfred:
- Ancora una parola: ho il tuo perdono? /

Fantasma d'Astarte:
- Addio. /

Manfred:
- Dimmi: ci rivedremo ancora? /

Fantasma d'Astarte:
- Addio. /

Manfred:
- ... Pietà ... Dimmi che m'ami. /

Fantasma d'Astarte:
- Manfredi! / /

(Glaciale come pervenuto, il Fantasma d'Astarte scompare)



caricamenti (simonzio2)




[Lord George Gordon Byron - Schumann, Manfred (Versio italica, riduzione, interpretazione di Carmelo Bene. Con la partecipazione di Lydia Mancinelli. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala. 1980. Abstract].






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lunedì 21 febbraio 2011

Ocampo. Silvina Ocampo, Viaggio dimenticato.




"Silvina Ocampo aveva trent’anni quando pubblicò con “Viaje olvidado” la sua opera prima. Chi conosce libri come “La furia” e “Autobiografìa de Irene”, faticherà non poco a riconoscervi la stessa autrice. Diverso l’impianto narrativo, qui appena disegnato e talora del tutto implicito, e diverso soprattutto lo stile, ricco di metafore ed analogie poetiche".

Introduzione
di Lucio D’Arcangelo
Silvina Ocampo aveva trent’anni quando pubblicò con “Viaje olvidado” la sua opera prima. Chi conosce libri come “La furia” e “Autobiografìa de Irene”, faticherà non poco a riconoscervi la stessa autrice. Diverso l’impianto narrativo, qui appena disegnato e talora del tutto implicito, e diverso soprattutto lo stile, ricco di metafore ed analogie poetiche.

«Ho sempre voluto scrivere, — dice la Ocampo, — Per tutto un periodo mandavo ai miei amici lettere in cui inventavo sentimenti. Erano lettere d’amore e di odio». «Forse in queste lettere di adolescente — commenta Enrique Pezzoni — c’è già la chiave della sua opera futura: non confessione, come si potrebbe pensare dalla veemenza con cui narra le sue avventure spirituali, ma il proprio sentire come oggetto di studio: non una netta distinzione tra il bello e il brutto, tra il vile e il nobile, ma una curiosa coincidenza degli opposti».

Ciò nonostante, sarebbe un errore presentare questo libro come l’incunabolo di un successo o di una maturità letteraria. Ci sono scrittori i cui libri acquistano peso e valore soltanto nell’ambito di una work in progress, altri che configurano nella loro opera una sorta di ostinata regressione, ripetendo continuamente lo stesso libro; altri infine che come i pittori hanno i loro «periodi» più o meno apprezzati, ma sicuramente non intercambiabili. Credo che la Ocampo appartenga a quest’ultima categoria, per la quale ogni opera acquisisce una propria, irriducibile individualità.
La straordinaria bellezza, l’incanto di queste pagine si spiegano soltanto con una freschezza di sensazioni difficilmente pensabile fuori dalla giovinezza o dai suoi barlumi. Prosa e poesia, narrativa e metafora, convivono in un linguaggio specialissimo che la Ocampo non ripeterà in nessun altro libro. “Viaggio dimenticato” deve sicuramente il suo fascino a ciò che non è detto ed è solo adombrato, a ciò che sta dietro il racconto: immagini, sequenze o flash dotati di una strana forza, che come nei sogni non significano propriamente, ma alludono a qualcosa di remoto, che probabilmente abbiamo perduto per sempre. Ma unitamente a ciò c’è la poetica capacità di recuperare gli strati più antichi, e più verdi, del proprio essere: dove la gioia, la felicità, ed anche il loro contrario, la pena, il dolore, si manifestano con la violenza e la gratuità delle antiche epifanie.
Così, se “Il padiglione dei laghi” riconduce a momenti di infantile meraviglia, “Siesta al cedro” sperimenta, precocemente, l’indifferenza di cui è circondata la morte. In “La testa attaccata al vetro”, Il venditore di statue e “Il passaporto perduto”, il fantastico ha la consistenza dei sogni, o degli incubi: si nutre di presagi funesti, inimmaginabili crudeltà e lascia appena intravedere, come nel primo racconto, un velato simbolismo. Altre volte sono gli equivoci quotidiani, le sottili astuzie della vita, ad alimentare il racconto, come in “Speranza a Flores” e “Il vestito verde oliva”, o le fatalità più cieche, quelle che in “Soffitto di lucernari” e “Il ritratto fatto male”, fanno esplodere crimini domestici a lungo covati, descritti quasi in punta di penna.

Se in “Via Sarandì” il destino si compiace di atroci simmetrie, in “Notturno” ed “Eladio Rada” il significato d’una vita è racchiuso in un gesto, ossessivamente ripetuto, che finisce per suggellarne la fine. Il mistero dei rapporti interpersonali, sempre imprevedibili e mai definibili nella loro complessità, domina “Il cavallo morto” e “Il mare”, racconti che come tanti altri presentano figure femminili sfuggenti ed enigmatiche, ma non per questo meno esemplari.
Ma il senso più profondo del libro sta nel racconto che gli dà il titolo “Viaggio dimenticato”. Una bambina, a cui hanno detto che i neonati vengono da Parigi, cerca di ricordare inutilmente quel viaggio prenatale. Ma quando le viene svelato il segreto della nascita, la madre diventa per lei quasi un‘estranea. La cesura tra mondo adulto ed infanzia è vista dalla parte di quest’ultima, ed è propriamente questo «sguardo» à rebours che ci fa vedere, negli interstizi della realtà, quell’altro lato delle cose, che può essere gratificante ma anche terribile.
(Lucio D’Arcangelo)


Silvina Ocampo,
Viaggio dimenticato


"Voleva ricordarsi del giorno in cui era nata e aggrottava tanto le sopracciglia che ad ogni istante le persone grandi l’interrompevano per farle spianare la fronte. Perciò non poteva mai arrivare al ricordo della sua nascita.

Prima di nascere i bambini erano immagazzinati in un grande negozio a Parigi. Le madri li ordinavano e a volte andavano loro stesse a comprarli. Avrebbe desiderato vederle svolgere il pacchetto ed aprire la scatola dove erano i bebè, ma non era mai stata chiamata in tempo nelle case dei neonati. Arrivavano tutti innervositi dal viaggio; non potevano respirare bene nella scatola, e perciò erano così rossi e piangevano senza posa, arrotolando le dita dei piedi.

Ma lei era nata una mattina a Parigi facendo nidi per gli uccelli. Quel giorno non ricordava di essere uscita di casa, aveva la sensazione di aver fatto un viaggio senza auto né carrozza, un viaggio pieno di ombre misteriose, e di essersi svegliata in un sentiero di alberi con odore di casuarinas, dove si era trovata improvvisamente a fare nidi per gli uccelli. Gli occhi di Micaela, la sua bambinaia, la seguivano come due guardiani. La costruzione dei nidi non era facile; erano di varie stanze: ci dovevano essere camera da letto e cucina. Il giorno dopo, quando tornò a Palermo, cercava i nidi sul sentiero delle casuarinas. Non ne restava nessuno. Era sul punto di piangere quando la bambinaia disse: «Gli uccellini si sono portati i nidi sugli alberi, perciò questa mattina sono così contenti». Ma sua sorella, che intollerabilmente aveva tre anni più di lei, rise, le indicò con il guanto di filo il giardiniere di Palermo che aveva un occhio storto e spazzava la strada con una scopa di rami grigi. Insieme con le foglie morte spazzava l’ultimo nido. E lei in quel momento ebbe voglia di rimettere, come se udisse il rumore delle amache del giardino di casa.

E poi, il tempo era passato da quel giorno allontanandola disperatamente dalla sua nascita. Ogni ricordo era una bambina diversa, ma che aveva il suo stesso volto. Ogni anno che compiva si allungava il girotondo delle bambine che non arrivavano a darsi la mano intorno a lei.
Finché un giorno, giocando nello studio, la figlia dell’autista francese le disse con parole atroci, piene di sangue: «I bambini stanno dentro la pancia delle madri e quando nascono escono dall’ombelico», e non so che altre parole oscure come peccati erano sgorgate dalla bocca di Germaine, che a dirle neppure impallidì.

Allora cominciarono a nascere bambini da tutte le parti. Nella famiglia non erano mai nati tanti bambini. Le donne portavano globi enormi nella pancia e ogni volta che le persone grandi parlavano di qualche neonato bebè, un fuoco intenso le si diffondeva in volto e le faceva abbassare la testa al suolo in cerca di qualcosa, un anello, un fazzoletto che non era caduto. E tutti gli occhi si volgevano verso di lei come fanali illuminando la sua vergogna.

Una mattina, mentre, appena uscita dal bagno, guardava la bambinaia che puliva con l’asciugamano la schiuma dello scolo, confidò a Micaela il suo terribile segreto, ridendo. La bambinaia si arrabbiò molto e le assicurò di nuovo che i bebè venivano da Parigi. Provò un po’ di sollievo.

Ma quando arrivava la notte, un’angoscia mista ai rumori della strada saliva in tutto il suo corpo. La notte non poteva dormire, anche se sua madre la baciava molte volte prima di andare a teatro. I baci avevano perduto il loro potere.

Fu dopo molti giorni e molte ore lunghe e nere all’orologio enorme della cucina, nei corridoi deserti della casa, dietro le porte piene di persone grandi che parlavano in segreto. Sua madre se la fece sedere in grembo nella stanza in cui si vestiva e le disse che i bambini non vengono da Parigi. Le parlò di fiori, le parlò di uccelli; e tutto ciò si mescolava ai terribili segreti di Germaine. Ma lei sostenne disperatamente che i bambini venivano da Parigi.

Un momento dopo, quando sua madre disse che andava ad aprire la finestra e l’aprì, il suo volto era cambiato totalmente sotto il cappello con le piume: era una signora in visita a casa sua. La finestra era più chiusa di prima e quando sua madre disse che il sole era bellissimo, vide il cielo nero della notte dove non cantava un solo uccello".


 ***
OCAMPO, SILVINA, recensione di Campra, R., L'Indice 1990, n. 3.
"L'opera dell'argentina Silvina Ocampo viene spesso offuscata da molteplici riflessi: quello della sorella Victoria Ocampo, fondatrice della prestigiosa rivista "Sur"; del marito, lo scrittore Bioy Casares; dell'amico Borges... E così come si suol parlare di Bioy Casares a partire da Borges, è facile cadere nella tentazione di parlare di Silvina Ocampo a partire da questi due nomi consacrati della letteratura fantastica rioplatense. Tanto più che le storie di questi tre libri si possono ascrivere senza dubbi al genere fantastico, o almeno a alcune delle sue varietà meno ovvie: sono storie di improvvise trasformazioni, di scomparse inspiegabili, di fantasmi impertinenti, di vendette nascoste e impercettibili terrori. Un altro riflesso forse ingannevole nasce dal tono educatamente na'f nel quale queste storie si presentano, una specie di atmosfera lieve e familiare, che ci rassicura finché diventa troppo tardi: allora siamo prigionieri, e scopriamo che non si trattava di innocenza bensì di perversione, una perversione così sottilmente celata che il fatto stesso di identificarla equivale a una confessione di complicità da parte nostra.
Una delle forme di questo mascheramento è la brevità dei racconti, più che racconti situazioni, e talvolta neanche questo, appena un cenno allo smaliziato lettore di storie fantastiche come "Il cappello metamorfico", in "E così via", un lettore capace di collocare la narrazione in un sistema quello degli 'oggetti magici', e di prevederne così gli sviluppi, e infine di farne a meno. Accettazione dell'inenarrabilità del mondo? Volontà di frammentazione da parte del narratore? Una specie di pigrizia? Oppure un voler affidare al lettore non solo la costruzione di un senso, ma anche la supposizione dei fatti? Si sentirà attratto da questi libri chi subisce il fascino dell'incompiuto, dell'aperto, dell'indecifrabile: sono storie che apparentemente non sfociano da nessuna parte, se non nel fatto stesso di essere raccontate.
Per questo mi sembra che l'illustrazione di copertina di "Viaggio dimenticato" - un particolare di "The girl at the fence" di H. Schierfbeck - riassuma con efficacia l'atmosfera generale di queste tre raccolte. Il colore offre soltanto sottili variazioni di grigio, le linee tracciano soltanto diagonali senza alcun punto di appoggio: né per il davanzale, né per l'adolescente che vi si appoggia nell'attesa cieca di qualcosa oltre la cornice, qualcosa di invisibile o forse di inesistente. Anche certi temi presenti in "Viaggio dimenticato" annunciano delle ossessioni che si riveleranno singolarmente pertinaci; ad esempio l'incomunicabilità tra il mondo degli adulti e quello dell'infanzia, che può arrivare all'odio e all'assassinio. In "soffitto di lucernari" i vetri colorati di un lucernario sfumano il gesto criminale di un adulto che possiamo supporre esasperato dai giochi di una bambina. In "L'albero inciso", "La penna magica", è invece un bambino a uccidere il nonno pugnalandolo al cuore, per una causa parimenti futile: il nonno l'aveva castigato. Ma sono queste le motivazioni vere, o non piuttosto quei cuori trafitti che un giorno sono apparsi incisi negli alberi?
Così lo schema dell'azione si sviluppa spesso a partire da situazioni banali, ma che smettono di essere banali per le loro cause, le loro conseguenze, e soprattutto per il brivido di certezza che percorre i fatti; la sicurezza che tutto debba essere così, che è bene sia così: non esistono colpevolezze. E per questo, la prevedibile inquietudine che queste storie provocano è un problema che riguarda essenzialmente il lettore, giacché i personaggi scivolano con serena indifferenza sull'orrore o sull'incomprensibilità.
In queste linee costanti, certe insistenze e certe sfumature definiscono il registro particolare di ogni raccolta. In "Viaggio dimenticato", è l'acuto senso dell'irreparabile che accompagna ogni gesto: innamorarsi di una passeggera quando si è conducente di un tram (come avviene in "La casa dei tram"), oppure prevedere un naufragio nel quale la perdita più dolorosa, imprevedibile, sarà quella di una sconosciuta (come nel bellissimo "Il passaporto perduto"): tutto 'finisce male', per un malinteso, una scoperta tardiva, una speranza senza ragione.
I racconti di "La penna magica" oscillano tra una volontà scientifica di trasformazione della realtà e la rivelazione dell'orrore del quotidiano che si esprime in occasioni innocenti come la festa di compleanno di un bambino che i genitori hanno lasciato solo, e cui le invitate negano i regali ("Le invitate"). Un cameriere, per continuare a servire fedelmente i suoi clienti - e a sbeffeggiarli - ritorna dall'aldilà ("1l sinistro dell'Ecuador"). Una storia d'amore può non essere altro che un preludio al cannibalismo ("La parrucca")...
"E cosi via" suggerisce altre più disincantate esplorazioni della realtà. In "Le conversazioni", un rapporto di amicizia tra due uomini viene troncato dalla morte di uno di loro, ma continua attraverso la relazione amorosa con la sorella dello scomparso, che accetta, consapevole e malinconica il suo ruolo di doppio. Da Andersen a Oscar Wilde, abbiamo letto molte storie d'amore tra un uomo e una sirena, ma nessuna così scarna e desolata come quella che dà il titolo al libro: in essa non sappiamo cosa succederà, percepiamo solo un'atmosfera carica di disastro, che è poi quella della vita.
Così, se in alcuni casi questi libri possono provocare l'insoddisfazione dell'incompiutezza, l'universo di contorni sfuggenti che essi disegnano può anche risultare attraente come un abisso. Ciò che inquieta nei racconti di Silvina Ocampo è soprattutto quell'astuzia del linguaggio che consiste nel dire meno di ciò che narratore, personaggi e persino noi lettori sappiamo, o supponiamo. Si percepisce in questi racconti come un retrogusto che non riusciamo a identificare, e che ci spinge a provare ancora, a inseguire una conoscenza che risulterà alla fine sicuramente mortale. Di essi si può dire ciò che, in "Viaggio dimenticato", si dice di un personaggio di "Il vestito verde oliva": che sono trasparenti come quelle carte che lasciano vedere tutto ciò che avvolgono, "ma all'interno di quelle trasparenze c'erano delicatissimi strati di mistero".
(da: http://www.ibs.it/code/9788806115838/ocampo-silvina/cosi-via.html)


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Progetto Parzifal
Dolci Presenze del Viandante seguono l'Ombra in questo Silenzio popolato di Assenza.

Viaggiare. Dentro. Fuori.


Occhi. Lago di Nuvole.





- a cura di Giovanni Pititto
(E-mail:
parzifal.purissimo@gmail.com)

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domenica 20 febbraio 2011

Arnold Böcklin, Toteninsel (L'Isola dei Morti), 1880. "Lei potrà sognando inoltrarsi nell'oscuro mondo delle ombre finchè le sembrerà di percepire il leggero alito che increspa il mare, e avrà timore di disturbare il solenne silenzio con una parola espressa a voce alta..." ( 29 Aprile 1880. A. Böcklin, alla committente Marie Berna).

Memorie. Colme di Cassetti. 01

Arnold Böcklin, Toteninsel (L'Isola dei Morti), 1880, Olio su tela, 111x155. Firmato in basso a sx: A B. Basilea, Kunstmuseum (Inv. n° 1055). - Bibl. Christ (154); Andree (343).
Il quadro, dipinto a Firenze, è pervenuto al Museo <di Basilea> nel 1920, dopo vari passaggi. E' la prima versione della serie della Toteninsel, il motivo più famoso e celebrato dell'artista. Di questo soggetto esistono cinque versioni:
- la seconda (1880) si trova al Metropolitan Museum di New York,
- la terza (1883)
- e la quarta (1884)
risultano disperse, e l'ultima redazione (1886) è conservata a Lipsia (Museum der Bildenden Kunste).
E' nota la circostanza che originò il dipinto. Marie Berna, visitando a Firenze nel 1880 lo studio del pittore gli aveva richiesto "un quadro per sognare...".
Böcklin cominciò a lavorare al primo dipinto, poi si interruppe, e incominciatone un secondo lo terminò in breve tempo.

Ivi: Lei potrà sognando inoltrarsi nell'oscuro mondo delle ombre finchè le sembrerà di percepire il leggero alito che increspa il mare, e avrà timore di disturbare il solenne silenzio con una parola espressa a voce alta..."
( 29 Aprile 1880. A. Böcklin, alla committente Marie Berna).

Note da: AA.VV. Arnold Böcklin e la Cultura artistica in Toscana, Fiesole, Palazzina Mangani 24 luglio - 30 settembre 1980, De Luca Editore, scheda pp. 102-3.

I.


II.


III.


V.




Versioni
Toteninsel, 1880. Prima versione (Basilea).
Toteninsel, 1880. Seconda versione (New York).

Toteninsel, 1883. Terza versione (Dispersa).

Toteninsel, 1884. Quarta versione (Dispersa).

Toteninsel, 1886. Quinta versione (Lipsia).











 





Sergey Rachmaninov - The Isle of the Dead, Op. 29 (part 1/2). St. Petersburg Philharmonic Orchestra, conducted by Mariss Jansons.
http://www.youtube.com/watch?v=N10YZ2Sk3Kg&NR=1




Sergey Rachmaninov - The Isle of the Dead, Op. 29 (part 2/2). St. Petersburg Philharmonic Orchestra, conducted by Mariss Jansons.
http://www.youtube.com/watch?v=zn0L9-vxv0g&feature=related












Img 01-05 desunte da: http://it.wikipedia.org/wiki/L'isola_dei_morti_(dipinto)
 I.

Gustav Mahler, Symphony No.1 in D Major "Titan" III.Funeral March (A) http://www.youtube.com/watch?v=WVsLCzSK7Rs&feature=related
Music composed by Gustav Mahler. Michael Tilson Thomas; San Francisco Symphony Orchestra.

Sergey Rachmaninov - The Isle of the Dead, Op. 29 (part 1/2). St. Petersburg Philharmonic Orchestra, conducted by Mariss Jansons.http://www.youtube.com/watch?v=N10YZ2Sk3Kg&NR=1


Sergey Rachmaninov - The Isle of the Dead, Op. 29 (part 2/2). St. Petersburg Philharmonic Orchestra, conducted by Mariss Jansons.http://www.youtube.com/watch?v=zn0L9-vxv0g&feature=related


Richard Wagner, Tristan und Isolde - Prelude.
Zubin Mehta conducting Bayerische Staatsoper Bayerisches Staatsorchester (National Theatre
Munich)

http://www.youtube.com/watch?v=fktwPGCR7Yw&feature=related

Richard Wagner, Siegfried funeral march. 
http://www.youtube.com/watch?v=L8wHteSOwW4



Richard Wagner - Die Walküre - Inicio primer acto. http://www.youtube.com/watch?v=lpJj9c2OV-0&NR=1



Richard Wagner - Die Walküre: "The Ride of the Valkyries" (Boulez)
http://www.youtube.com/watch?v=1aKAH_t0aXA&feature=related



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Progetto 
LOSFELD:
Nello sfondo, sulla sponda di un Mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d'avanguardia, sull'Estremo Limite del Nulla: sull'orlo di quell'Abisso combatto la mia battaglia. (Ernst Jünger)



Ad una Naumachìa di barchette dorate affidiamo Ricordi.


"Godi se il vento ch'entra nel pomario / vi rimena l' ondata della vita: / qui dove affonda un morto / viluppo di memorie, / orto non era, ma reliquario. / Il frullo che tu senti non è un volo, / ma il commuoversi dell'eterno grembo; / vedi che si trasforma questo lembo / di terra solitario in un crogiuolo. / [p.16] Un rovello è di qua dall’erto muro./ Se procedi t’imbatti/ tu forse nel fantasma che ti salva: / si compongono qui le storie, gli atti/ scancellati pel giuoco del futuro./ Cerca una maglia rotta nella rete/ che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!/ va, per te l’ho pregato, - ora la sete/ mi sarà lieve, meno acre la ruggine…"
(Eugenio Montale, Ossi di Seppia - In Limine, Mondadori, XV Ediz., 1962 [s.l.st.], pp. 14-16).

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http://parzifalpurissimo.blogspot.com/ - a cura di Giovanni Pititto
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Michelangelo Merisi da Caravaggio, detto Il Caravaggio.Le opere qui in esame risultano caratterizzate da quel profondo senso di angoscia di morte che sembra essere stata l’ossessione esistenziale dell’artista in tali ultimi anni della propria vita.

Caravaggio. Le opere qui in esame appartengono a tale difficile periodo: del soggiorno maltese, di quello siciliano, del secondo soggiorno napoletano. E risultano tutte caratterizzate da quel profondo senso di angoscia di morte che sembra essere stata l’ossessione esistenziale dell’artista in tali ultimi anni della propria vita.


Memorie XXX. Colme di Cassetti.

CARAVAGGIO
Le opere qui in esame appartengono a tale difficile periodo: del soggiorno maltese, di quello siciliano, del secondo soggiorno napoletano. E risultano tutte
caratterizzate da quel profondo senso di angoscia di morte che sembra essere stata l’ossessione esistenziale dell’artista in tali ultimi anni della propria vita.

Che poi ne acuì, nella leggenda che circonda la biografia, l’immagine a volte distorta – di “pittor maledetto” e di “pittor ribelle”.  Distorsione che si registra ben sino al 1951-52, quando, a seguito di importanti studi di Roberto Longhi, che anche ne curò una importante mostra, la nera leggenda intorno all’uomo si intersecò con evidenti incomprensioni e distorsioni anche della vicenda artistica. 

Già le fonti del periodo stesso dell’artista: Baglione, Mancini, Bellori, pur essendo preziose poiché dettagliate sulla vita ed opere, ne risultano nei giudizi fortemente tendenziose.

Nel periodo successivo si registra un vero e proprio silenzio, in merito ad ogni approfondimento sulla figura ed opera di Caravaggio.

Il merito del Longhi è quindi notevole, avendoci restituito sia l’artista nella sua sofferta dimensio ne umana, sia in quella – eccelsa – del valore e spessore artistico.

Dal 1952, quindi, gli studi sul Caravaggio risultano numerosi.

Con specifico riferimento alle tre opere in esame si individueranno quindi quegli elementi attinenti al loro principale portato simbolico: l’ansia e la speranza per una pronta grazia, l’angoscia e la disperazione nella cupa attesa, il sentimento cristiano – di un cristianesimo difficile, di protesta, evangelico – a cui insistentemente nelle tre opere s’appella  nell’invocare il perdono.

Ma per pervenire a questo, è necessario ripercorrere alcuni tratti e della leggenda e del suo sfatamento.

I primi suoi contatti con gli ambienti innovativi (riformati) del cristianesimo lombardo, a loro volta eredi di una lunga tradizione di fermenti medievali, tesi a rinnovare la Chiesa in funzione evangelica, si registrano già nei primi anni della formazione: 1584-1592.

E’ nel periodo romano, specie dopo il primo difficile inserimento, che, al servizio del cardinale Del Monte, la sua produzione si scontra con una critica abituata al gusto celebrativo e delle grandiose rappresentazioni. E’ già un pittore di frontiera. Una tendenziosa e distorta critica da lì a poco lo presenterà quale artista insofferente alle convenzioni, e ribelle. E con ciò si intende alle regole dell’accademica maniera. 

Nelle opere di questo periodo, già Caravaggio innova fortemente sia le categorie dei soggetti rappresentabili, sia il modo stesso della raffigurazione. Supera anche il proprio naturalismo lombardo, concentrandosi non già su una generale “naturalità e veridicità raffirativa del soggetto”, bensì su di una potenza espressiva che si concentra su pochi sceltissimi elementi tratti dal vero.

E’ appunto la frequentazione degli ambienti culturalmente raffinati del suo mecenate e committente: Del Monte, che gli offre quel bagaglio di temi e di riferimenti a far sì che la produzione di questo periodo ne risulti non una semplice copia della realtà, bensi un filtrare l’aspetto della realtà attraverso un animo fortemente emotivo.

E’ dunque un approccio a quella caratterizzazione di arte fortemente simbolica e piena di riferimenti culturali, che da lì innanzi sempre più sviluppò. La tradizione di un Caravaggio semplice, a volte popolaresco, erede di certo tratto “deformante” del naturalismo lombardo è quindi ormai del tutto accantonata.

Nelle sue opere si vede una grande tensione morale, un piano di idee, certo a volte disorganizzato, ma ciò è una delle conseguenze – anche – della vita non certo regolata in cui ebbe più volte a dibattersi.

La produzione degli anni 1595-96 è quindi importante, poiché basilare per tutto un suo successivo sviluppo:
-  studio della classicità ma trattata con un abbassamento dei suoi valori in una resa pittorica che non li elegge a modello, contrariamente all’uso imperante di ritenerla sublime e di raffigurarla idealizzata;
-  metodo di concentrarsi su particolare resa luministica di alcuni effetti, su di essi portando a concentrarsi l’attenzione dello spettatore;
-   porre in primo piano le allegorie riguardanti i sensi, ma in tono minore, approfondendo l’analisi sul mondo dei semplici e dei reietti; cosa che il mondo aulico, celebrativo, accademico, dell’epoca, completamente respingeva anche quale solo concetto;
-  approfondimento, man mano, di una sempre maggiore intima riflessione dell’ordine morale delle cose, della vita, della società;
-  sviluppo, sempre maggiore, di allegorie evangeliche, ma sempre viste in una ricerca di dialogo con quella Chiesa ufficiale che ormai aveva ridotto la religione a formule e gesti; è forte la richiesta di Caravaggio, nelle sue opere, che tale Chiesa si riformi; e che si modelli anche sui poveri e sui reietti, non solo sui ricchi e potenti; è il famoso quanto antico problema se la Chiesa doveva essere povera, o ricca; il che niente altro voleva dire se dei ricchi o anche dei poveri;
-  perfezionamento, ultima fase, in connessione con la sempre richiesta di perdono, dei cicli pittorici in cui è evidente il messaggio dell’artista in merito all’importanza dell’amore divino, e delle sua misericordia.

Barberini.

1.
Michelangelo Merisi da Caravaggio, Giuditta che decapita Oloferne, 1598-1599; Olio su tela, cm 145x195. Roma, Galleria nazionale di arte antica, Palazzo

L’OPERA
L’opera proviene dalla raccolta romana dei marchesi del Grillo. Poi nella collezione Vincenzo Coppi. 
La critica da tempo discute sulla sua attribuzione al Caravaggio. Fonte principale ne è il Baglione, che nel 1642 così scrisse: “ Colorì una Giuditta che taglia la testa ad Oloferne, per i signori Costi.”
La stessa data di esecuzione non è certa: per alcuni 1594-95; 1595-96; per altri 1598-99.
Alcuni si discostano dall’attribuirla al Caravaggio per la plateale violenza della raffigurazione; particolarmente nella vistosa ferocia del gesto.
Altri invece del Maestro in tutto lo indicano, basandosi sugli elementi del ritmo compositivo: serrato; la caratteristica tipicamente caravaggesca di trattare il nudo; le fisionomie, tipiche nei volti dei dipinti caravaggeschi; specialmente il cupo tendone, che, quasi sangue raggrumato molto anticipa quello della Morte della Vergine.
D’altro canto non a molto serve un parallelismo del volto di Giuditta con quello di S.Caterina e della Maddalena, considerato che anche di queste due opere non è del tutto certa l’attribuzione. 
Ciò che è certo è il completo superamento del momento della raffigurazione di un naturalismo dolce e soffuso, elegiaco, in Caravaggio, per pervenirsi da parte di questi al punto centrale del dramma: l’orrore. 



2.
Michelangelo Merisi da Caravaggio, Decollazione del Battista, 1608;olio su tela; m 3,61x 5,20. La Valletta, Cattedrale di S. Giovanni.

L’OPERA

Eseguita per la maltese Compagnia della Misericordia, la tela è l'unica in cui compaia la firma dell'autore, purtroppo lacunosa: “f(rà) Michel Angelo”. 

Ed è proprio il ricordo della personale situazione in cui si trovava l’artista: braccato dai sicari dei nemici che aveva in Roma, e per mano di cui poi fu in Napoli gravemente ferito, che l’osservare la sua firma, vergata nello stesso rosso del sangue che sgorga dalla gola del Battista decollato, a suscitare un inevitabile senso d’angoscia; quasi che avesse presagito la sua prossima fine. 
Collocata nell'oratorio della Compagnia, la tela ha grandi dimensioni: m. 3,61x 5,20. 

Pur lontana dai grandi centri, venne visitata e studiata da molti artisti del '600. Il Bellori la descrisse accuratamente, quale:  
“Laonde  (dopo averne dipinto il ritratto) questo signore (Alof de Wignacourt) gli donò in premio la croce, e per la chiesa di San Giovanni gli fece dipingere la Decollazione del Santo caduto a terra, mentre il carnefice quasi che non l’abbia colpito alla prima con la spada, prende il coltello dal fianco, afferrandolo né capelli per distaccargli la testa dal busto. Riguarda intenta Erodiade, ed una vecchia seco inorridisce allo spettacolo, mentre il guardiano della prigione in abito turco addita l’atroce scempio. In quest’opera il Caravaggio usò ogni potere del suo pennello havendovi lavorato con tanta fierezza che lasciò in mezze tinte l'imprimitura della tela"; ciò è stato comprovato dai restauri avvenuti a Roma nel 1955.

Nella “Decollazione del Battista” l’azione è raffigurata nel suo termine. La violenza, cruda, del carnefice è già passata; il suo effetto raggiunto: la gola è profondamente recisa. La spada ormai deposta; a terra, in una significativa diagonale che, assieme alla positura del braccio ripiegato del carnefice ed al corpo supino del Battista forma un dinamico cuneo compositivo. Che s’affonda verso la parte anteriore sinistra della scena.
Rimane ormai, e con altro evidente simbolismo, il solo gesto di recidere con un coltello gli ultimi brandelli. Del collo, dell’evento, del dramma, della scena. 
E tale coltello, detto “Misericordia”, con cui era uso alleviare le ultime sofferenze procurando la morte, non ad altro allude che alla committenza stessa: la Compagnia della Misericordia. Che generalmente aveva il compito di consolare i condannati a morte.  

E’, anche qui, si suppone, un ulteriore intimistico, drammatico soliloquio dell’artista con la corposità ed il reale stato di pericolo in cui continuamente viveva: quasi uno sperare, od un apertamente chiedere, che una “misericordia” gli venisse, e presto, ad alleviare le sue sofferenze esistenziali d’una vita di fuggiasco: la grazia pontificia. 
Ma se ciò è leggibile, pur nel filtrato mondo simbolista delle compositive allusioni, altro, e di crudo, e di realistica conoscenza del da rappresentarsi pathos di scena, come anche del suo stesso rivedersi in essa, Michelangelo nel dipinto ci racconta.

Le figure, disposte a semicerchio in profondità e in altezza, annegano in un grande senso di vuoto, di stupefatto sgomento impresso allo spettatore. Il cupo interno d’un tetro cortile di carcere è oggetto di un violento rimbalzare di luci sulla decentrata scena principale.
Ma è il risalto della fioca luce, nell’arco a volta che le inquadra posteriormente e nel muro che chiude lo spazio, a suscitarci quell’ansia compartecipativa d’un dover immaginare gli eventi ormai temporalmente cessati. 
Eppure nelle tracce dall’artista lasciate evidenti, è presente tutto il senso dell’accaduto. Il “prima”: cupo, crudo, sanguinolento, di tortura, è ben presente nell’inquietante lunga corda penzolante; e che, raffigurata “mossa”, ancora vibrante di sofferenza, s’inserisce nel grosso anello di ferro alla parete.
La cordicella alle mani del Battista, dietro la schiena, ed il corpo proiettato nella caduta in avanti, sono fin troppo eloquenti. L’avido sguardo dei due galeotti – che quasi “bucano” – il costretto spazio dell’inferriata, è compartecipativo espediente d’un proiettare la dinamica compositiva in un retrostante buio ed ignoto spazio.
E’ la proiezione compositiva della spada, del corpo del carnefice, di quello del Battista. Quasi a bilanciare quella drammaticità dell’anello che “parla”.
Elementi accessori della scena principale sono tre movimenti, tre “linguaggi”, tre artifici: Il barbuto carceriere che con gesto di comando indica il vassoio di Salomé; questa che s’affretta, avida di raccoglierne la testa dell’odiata vittima, a porgerlo. Il volto in penombra; il corpo nella parte superiore solo ritmato dall’avvolgersi delle pieghe della camicia nella raffica di luce.


Unici elementi d’umano, forse, d’un partecipativo, forse, di “misericordioso”, appunto, si hanno e nel gesto inorridito della vecchia che s’avvolge la testa fra le mani, e nelle fitte pieghe della fronte del carnefice stesso. Coerentemente con il raffigurato gesto, e con il descritto mezzo: il pugnale della “misericordia”, è nelle fitte rughe della fronte del carnefice che è dato riscontrare una grande attenzione a ben compiere il gesto. Ed essendo come si è detto il gesto l’affrettare il morire, quindi il far cessare inutili sofferenze, è uno dei pochi elementi umani e pietosi dell’intera scena.
L’insieme è potente. Come altrove, l'illuminazione è determinante: provenendo lateralmente, accresce l'esistenza volumetrica dei protagonisti, li stacca dall'ombra, concentra su di essi lo sguardo rendendo nota una tragica vicenda.


Sono  elementi compositivi che ritroviamo nel “Seppellimento di Santa Lucia”, riprendendo la stessa idea del muro retrostante, ne è ancora accresciuto il significato della mutata concezione compositiva in Caravaggio. (GP)



Contributi






Dell'Orrore. E della Misericordia.

Ma si puo' rimaner sobri dopo aver veduto simili Opere? E averne letto le parole che corredano un riassunto di sentimenti che, in quella fioca luce, la disperazione sopravvive incrociando un complesso gioco di sguardi?

Come proprio in quella Luce, quel frugarle dentro, la Grazia divina che congela posizioni ed espressioni. Fanno orrore queste scene di Morte. Eppure....eppure esercitano oltre che devastazione, una forza inconsueta, un fascino sovrumano. Forse che questo 'palcoscenico' su quale si consuma il Dramma, altro non è che rovesciarsi dalle Tenebre. Da quel buio dello Sfondo, perchè è da lì, che ogni cosa nasce, in quell'angoscia, in quell'impressionante lirismo, l'inquietudine. Padrona e assoluta. Ma stretta, meravigliosamente avvinta, tra le maglie del Destino di Ogni. Non ne possiamo sfuggirgli.

Bellissimo Scritto.


(S., 05.03.11)