1907. PITITTO. Francesco Pititto, Ancora una Poetessa. Anna Maria Edvige Pittarelli.
||3||PARTE I.
Era una splendida sera di agosto. La campagna, tranquilla e maestosa, avea preso un aspetto uniforme: non tirava un alito di vento. La luna di mezzo a un cielo tersissimo proiettava numerosi fasci di luce, e il lontano Appennino pareva sorgere dall’immensità di un oceano. Fra tanta calma di cielo e di terra fissavo lo sguardo nell’infinito e pensavo.... pensavo che sul terreno, che mi si apriva alla vista, una Poetessa, in tempi remoti, si aggirava solitaria fra gli sparsi rottami di un’antichità perduta a interrogare le vetuste grandezze della patria; pensavo che quel medesimo chiarore di luna, quella silente armonia, le dolcezze, le ebbrezze divine di una notte incantata come quella avean dovuto ispirarle quei versi, in cui è vivo e magnifico il sentimento della natura. Udii lo stridulo canto di un uccello notturno: mi parve un rimpianto; il rimpianto di un intero passato che ||4|| svaniva e si perdeva nel nulla… Eppure che immensa resurrezione nel mio pensiero! non di creature distinte, non di avvenimenti umani depositati nella storia (sarebbe follia sperarlo), ma di visioni fantastiche, attraverso le quali il passato pigliava nuove forme e nuovi colori. Qui mi pareva di vedere cuspidi di famose basiliche lanciarsi al cielo, là mura turrite, colonne erette ad eroi infrante, poi altre mura sorgere solitarie sotto il raggio lunare a sfidare la forza del tempo, poi ancora vecchi castelli, poi dirute case, poi boschi, ch’erano boschi reali, poi tenebre fitte ed oblio... la Poetessa s’era trasformata nel mio pensiero: ita pietosa tradizione popolare, il sentimento stesso d’ammirazione, le dolci armonie dei suoi versi, che mi suonavano ancora nell’animo, avevano concorso a quella mirabile evoluzione spirituale, a quel concetto di poetica perfezione alla quale la Poetessa non era pur troppo arrivata. Ella, in una parola, come ogni altra cosa, avea varcati i confini del reale.
II.
Anna Maria Edvige Pittarelli è dunque passata a noi non nella sua realtà storica, ma per una tradizione, che difficilmente riusciremmo a sfrondare del tutto se non sapessimo vincere la carità della patria. Chi tenta la storia delle nostre terre si trova sbalzato quasi in un periodo di preistoria, fra disillusioni e amarezze profonde. Eppure quest’oscuro passato ha per noi un’attrazione invincibile; è come un caro infermo a cui cerchiamo di ridare ad ogni costo la sanità. Tenteremo ||5|| dunque di ricostruire possibilmente quel periodo storico di vita che riguarda la nostra Poetessa, e colla guida dei manoscritti che avanzano di lei e con notizie spigolate qua e là, faremo del nostro meglio per dare un’esatta, sebbene monca, biografia; completeremo poi questo nostro lavoro con un esame particolare e una critica possibilmente giudiziosa dell’attività poetica di lei. Nessuno finora ha parlato come si conveniva della Pittarelli; gli accenni biografici del Capialbi son poca cosa e talora inesatti. Il Pignatari seguì il Capialbi. Monsignor Antonio De Lorenzo, scrivendo della Poetessa ad un amico, diceva: “Mi proponevo quando che fosse procurarmi i suoi versi inediti, e tesserne la bibliografia a modo mio, e forse leggerne una conferenza all’Arcadia. Ma dov’è la lena?” E questo infaticabile ricercatore di cose patrie sarebbe certamente riuscito nel lavoro, se la morte non lo avesse colto improvvisamente in una età ancora robusta. Permettano dunque i lettori che alle poetesse del Cinquecento, pur troppo numerose, se ne aggiunga ancora un’altra, e sarà forse l’ultima.
III.
La vita della Pittarelli si svolse in quel periodo storico che “fu come una rivelazione scientifica fatta dall'Italia a tutto il mondo” e che viene ricordato col nome di Rinascimento. ||6|| In quel periodo l’intelletto uscì dallo stato di marasma nel quale avea languito durante il medio evo; la filosofia prese il posto della scolastica, il libero esame si sostituì al principio d’autorità; si cercarono le leggi dello spirito e della natura; si aprì la via allo sperimentalismo, che giunse al massimo grado col Galilei; al cupio dissolvi sottentrò un desiderio smodato della vita e la gloria divenne un fuogo ardente dominatore dei cuori; al collettivismo anteriore la libera manifestazione della personalità individuale. In una parola, il Rinascimento colle sue idee sta a capo di tutta la civiltà posteriore. In questo risveglio potente d’italianità la donna fu messa in una condizione pari a quella dell’uomo. Uguale era il modo di pensare e di agire, uguali le tendenze e le aspirazioni; naturale quindi che ella prendesse gran parte nello sviluppo della cultura letteraria, che si considerava come l’ornamento più bello della vita; naturale che ella a volte eccellesse tra le sue pari e si designasse anche all’immortalità. “Nella metà del secolo decimoquarto si cominciarono a varcare que’ limiti, nei quali era stata rinchiusa la donna nel medio-evo. La cosa non avvenne sempre in modo salutare. Gli sforzi per l’emancipazione spesso hanno promosso appunto quegl’istinti ignobili e sensuali, contro cui saviamente aveva lottato l’antico costume. In tutto il secolo decimoquinto durò l’antagonismo di queste due tendenze. Se il Rinascimento diede vittoria alla più libera, ciò avvenne, non senza che apparisse spesso giustificata la severità maggiore nell’educazione e nella ||7|| vita della donna. In quella misura, in cui si estendeva la cerchia d’azione concessa al femminile, si svolgeva e si rendeva più ideale il concetto della natura muliebre. Laddove le idee del Rinascimento circa la cultura della donna andavano d’accordo con la retta assimilazione di essa con la cultura dell’uomo, e non si trasgredì alla bella armonia, mentre se ne allargava infinitamente l’orizzonte, esse non urtavano coi principii più severi dalle antiche leggi ecclesiastiche e domestiche assegnati alla vita femminile. Sul principio del secolo decimoquinto non soltanto fu messo in mano della donna il libro di preghiere ma fu affermata altresì l’uguaglianza di diritto della donna con l’uomo nel governo della famiglia. La madre, scrive un Fiorentino di quei tempi, è l’albero maestro della nave. Non solo nel secolo mentovato, in cui, tanto nelle case principesche, quanto nelle borghesi, ci si mostrano così splendidi modelli dell’unione della cultura più liberale col più severo costume femminile, ma anche nel secolo decimosesto, nel quale parecchi vincoli erano già in parte troppo rilassati ed in parte sciolti, non mancarono begli esempi di armonia delle due tendenze, fra cui spesso eravi stato conflitto”. Tuttavia quando questa nuova corrente di vita raggiunse il pieno sviluppo degenerò in una libertà male intesa, e così l’Italia verso la fine del secolo decimoquinto presentava un singolare contrasto tra la sua coltura e le sue condizioni morali e politiche. “Nonostante che così vivo e diffuso fosse in Italia il sentimento del bello, scrive Finzi, nonostante che fosse così colta, versatile e gaudente, quella società nostra, priva di vera fede e di ||8|| coscienza nazionale, era profondamente corrotta; si cullava nel ricordo e nell’imitazione di un mondo caduto, tutta intenta nei godimenti del presente e improvvida dell’avvenire che batteva cupo e minaccioso alle porte, recando seco lo sfacelo morale e politico della nazione”. Nell’ultimo decennio del secolo decimoquinto, difatti, spezzatosi colla morte di Lorenzo dei Medici (1492) quell’equilibrio politico che aveva assicurato all’Europa un relativo periodo di pace, l’Italia si trovò aperta agli stranieri quantunque questi ne avessero già in mano una parte, e Carlo VIII nel 1494 la conquistava col gesso. Carlo fu ricacciato poco dopo di là dalle Alpi. Il suo successore, Luigi XII, conquistò Milano e si alleò con Ferdinando il Cattolico contro Ferdinando II di Aragona per muovere alla conquista del Regno di Napoli, ma non raccolse il frutto delle vittorie riportate perché di lì a poco i Francesi venivano ricacciati, e lo spagnuolo restava solo ed incontrastato padrone. Per un momento parve che la speranza volesse risorgere sotto il pontificato battagliero di Giulio II, il più italiano degl’italiani d’allora, che gettò il guanto di sfida ai Francesi col grido: fuori i Barbari!; ma egli per combattere gli stranieri ebbe bisogno di aiuti stranieri, e “così l’Italia si aggirava sempre in un circolo vizioso del quale anche gl’ingegni più vigorosi non trovavano l’uscita”. Il tentativo di una rigenerazione politica era dunque tramontato per sempre e l’Italia moriva fra gli abbaglianti splendori dell’intelligenza. “L’Italia morì; ma pur è conforto che morì da regina, raggiante dello splendore eterno ||9|| delle lettere e delle arti. Generosa e benedetta Niobe delle nazioni, essa donava alle sorelle, che la spegnevano la fiaccola immortale del pensiero e della civiltà.”
IV.
Né migliori erano le condizioni morali degl’Italiani. Colla caduta politica cominciava fatalmente a spegnersi anche la lampada della nostra gloria letteraria; “le dottrine pagane irrompenti all’ombra degli studi classici avevano aduggiato il buon seme evangelico” e la Riforma trasportava di là dalle Alpi il centro di gravità della cultura Europea. Però fuori d’Italia lo sviluppo della cultura va inteso coi più grandi avvenimenti politici e religiosi. Quando l’Italia risorgeva ai più alti ideali dell’arte e della letteratura, la Francia con Luigi XI, la Spagna con Ferdinando ed Isabella, l’Inghilterra con Enrico VII erano agitate da uno spirito nuovo, perché si preparavano a far scomparire quasi interamente le divisioni territoriali create dal feudalismo e a comporsi in singole unità politiche. “Da per tutto, scrive il Guizot, vediamo le medesime tendenze alla centralizzazione, all’unità, alla formazione ed alla preponderanza degl’interessi generali, dei pubblici poteri.” Di più, quando la cultura cominciava ad emigrare dall’Italia, nuove idee agitavano le popolazioni d’Europa. ||10|| Fino al secolo decimoquinto altre idee non vi erano state in Europa generali, potenti, le quali veramente influissero nelle masse fuorché le religiose. Coll’aprirsi del secolo decimoquinto nuove idee di mutamento, di riforma agitano la Chiesa stessa per estirpare i gravi abusi del clero. “In Francia e in Germania sopra tutto le più alte dignità ecclesiastiche erano divenute appannaggio della nobiltà, le prebende e i canonicati semplici rifugi per i cadetti di famiglia, diretti frequentemente agli ordini, senza che ne avessero il desiderio e la vocazione. In conseguenza i capitoli delle Cattedrali di Germania in questo tempo avevano fama di immoralità esemplare. Dietro tali funesti esempi non poteva dal clero inferiore aspettarsi qualche cosa di meglio; e le sue condizioni poco vantaggiose gli impedivano di prendere uno slancio d’animo più sublime. I monasteri e i capitoli si erano accaparrate le parrocchie ed i loro redditi, e non accordavano che un magro salario ai preti, che adempivano in lor vece le funzioni del ministero. Il concubinato era tanto comune che un sinodo francese del 1429 (Parigi o Sens. c. 23) si lamentò di vedere diffondersi l’opinione che la semplice fornicazione non fosse peccato mortale; e l’Imperatore Sigismondo, nel concilio di Costanza e Basilea propose d’abrogare la legge del celibato. Persino in città piccole vi erano case di mala vita. Da parte dei superiori ecclesiastici la repressione degli abusi era fiacca: tutte le loro cure essendo rivolte ai mezzi di difendere i loro diritti e sostenere le loro pretese ad accrescere le loro rendite. “Gli uomini di questi tempi risentivamo vivamente questi mali e per tutto questo periodo ci si presenta la convinzione che la Chiesa abbisognasse urgentemente di una riforma; e se da una parte questa convinzione fa onore a questo periodo di tempo, dall’altro tuttavia il fatto, ||11|| che, nonostante il desiderio universale e gli sforzi fatti in due secoli, la riforma non fu attuata, getta uno strascico significativo sulla profondità e sulla veemenza del male.”Durante lo scisma di Occidente ancora più alto si levò il grido che richiedeva una riforma, in capite et in membris. Il concilio di Pisa ricompose lo scisma, ma non avendo potuto definire la riforma, la rimandò ad un prossimo concilio; quello di Costanza poi prese a riformare la Chiesa, ma anch’esso fallì nella soluzione. “La dilazione della rinforma, già in sé deplorevole, conteneva un grave pericolo. Certe speranze ed aspirazioni, quando per lungo tempo non trovano considerazione da chi di ragione, cercano infine uno sfogo per altra via. Il malcontento che regnava su vasta sfera, gli svariati contrasti di diritti ed interessi tra i vari ordini della società cristiana, tra ecclesiastici e laici, tra il clero regolare, tra l’alto e il basso clero, tra il papato e l’impero, contribuiva non poco a favorire un tale tentativo”. Già fin da quando il concilio di Costanza toglieva a riformare la Chiesa erano scoppiati violenti in Boemia i primi sforzi di riforma religiosa, predicata da Giovanni Huss. La riforma fu soffocata, però era sempre disposta a dar fuori di bel nuovo. Ed infatti, fallita la riforma religiosa, scoppiò una rivoluzione. In questo stato di cose la cultura classica, come quella che affrancava la mente da ogni vincolo, non poté giungere che gradita, e la Riforma passò come un turbine attraverso le coscienze del popolo settentrionale. Quelle idee rivoluzionarie si diffusero rapidamente per l’Europa, ma […] ||14||di voler fronteggiare in ogni campo, la supremazia del popolo latino. Si vedrà che la riforma luterana non fu se non l’ultima e la più alta espressione della coscienza tedesca, e la causa prossima per cui le falangi poderose della rivolta si schierarono davanti alla Roma dello spirito. In Italia invece pochissimi fecero un’opposizione recisa ed apertamente ostile al Cristianesimo.
VI.
Quando Francesco d’Angoulême saliva, col nome di Francesco I, sul trono di Francia, per la morte di Luigi XII avvenuta il primo gennaio del 1515, l’arciduca Carlo saliva giovanissimo su quello dei Paesi Bassi. Due potenti rivali spuntavano così all’orizzonte europeo a minacciare una conflagrazione generale; e le loro gelosie scoppiarono realmente quando varie circostanze li portarono sullo stesso terreno politico. Il tentativo fatto da Francesco per avere la corona di Germania parve un motivo sufficiente di guerra: le ragioni avanzate da l’uno e da l’altro sul Reame di Napoli e sul ducato di Borgogna ne affrettarono l’urto. Ma le guerre susseguitesi dal 1521 in poi assicurarono il sopravvento all’Imperatore Carlo, che poteva ripetere con orgoglio: “Sui miei Stati non tramonta il sole”. Miserando era allora lo spettacolo dell’Italia: costretta ad assistere impassibile all’epiche lotte di stranieri violenti, si veniva abituando al destino della tirannia invadente. Le vittorie strepitose di Carlo la precipitarono in questo baratro di rovina: non le sorrise più una speranza ben che fugace, non osò neppure spingere inquieto||15|| lo sguardo nell’avvenire: il sacco di Roma e i misfatti di Firenze erano piaghe troppo recenti, e nessuno si lusingava più su quel nuovo stato di cose, su cui s’affermava la preponderanza spagnuola. Col Congresso di Bologna, tenuto nel 1530, Carlo presumeva di aver assicurata la pace d’Italia; ma il vero è che un malcontento serpeggiava per tutta la penisola. Il re di Francia ritenendo che fosse quello il momento opportuno di agire, colse l’occasione per intromettersi di nuovo nelle cose nostre, e per assicurarsi la vittoria suprema contro l’antico avversario, si alleò col Turco. Kaireddin Barbarossa comparve difatti per la prima volta nel luglio del 1534 davanti a Messina, e dopo d’avere orribilmente saccheggiate a varie riprese le coste d’Italia o di Spagna, si stabilì a Tunisi, sottomettendo quella terra all’alta sovranità della Porta. L’Imperatore meditava di assicurarsi definitivamente quelle terre vessate dagli Infedeli non solo, ma di rendere anche un servigio alla cristianità, “acciocché prima ch’io diventi vecchio, scriveva al viceré Lannoy, possa far cosa per la quale resti servito Iddio e a me non venga biasimo”; e non tardò a compire l’impresa, poiché nel luglio del ‘35 il Turco fu da lui completamente disfatto e Tunisi restituita nuovamente a Mulay Hassan.
VII.
Dopo questa vittoria, pregato Carlo dai principi di Salerno e di Bisignano e dal marchese del Vasto di venire ||16|| a visitare il Regno di Napoli, passò in Sicilia, sbarcando a Trapani, donde, dopo quattro giorni, andò a Palermo, e poi, per Termine, Polizzi, Nicosia, Traina, Randazzo, Taormina, passò a Messina, dopo essere stato due giorni nel Monastero di S. Placido. A Messina venne ricevuto con grande onore e solennità, e passò a Reggio, coll’intenzione di recarsi ||18| terrestri itinere come dicono Fazelli e Maurolico, a Napoli. Da Reggio fece una cavalcata sino a Fiumara di Muro, visitò parecchi altri luoghi litoranei e andò poi a Seminara. Il De Salvo ne descrive così l’ingresso “L’Imperatore da Reggio pervenne a Seminara, nel giorno 3 novembre (anno 1535), dove ebbe un’accoglienza trionfale, accompagnato da Baroni e da altri Signori di queste contrade, sotto un baldacchino di broccato, e in mezzo a grandissima e tripudiante calca di gente seminarese e delle terre vicine, insieme col clero in processione, cantando lodi; e al suono a festa delle campane, e a spari di gioia, sempre preceduto da trombettieri, andò nella chiesa dello Spirito Santo, e poi alloggiò nel castello del conte Spinelli: il quale gli aveva apprestato cacce ed altri divertimenti; ma egli partì nel giorno appresso, e dopo di avere attraversato la Calabria e la Basilicata, giunse in Napoli alla fine di novembre.
||19||A perpetuare tale avvenimento, sul fregio della facciata della Chiesa dello Spirito Santo, nell’antica Seminara, fu incisa la seguente iscrizione: “Anno 1535 Carolus V Romanorum Imperator semper Augustus postquam debellavit Carthaginem, ingressus est Seminariam, tertio novembre die Mercurio, et in quarto mensis ejusdem recessit.” La quale però mutilata in parte e con parole mancanti, tuttavia si legge incisa nella facciata esterna, tra il pianterreno e il primo piano del palazzotto della pretura e carcere, nella nuova Seminara.” Ricusando poi gentilmente l’invito dei Catanzaresi di recarsi per qualche giorno nella loro città , prese la via di S. Maura, dove venne ad incontrarlo Pier Antonio Sanseverino, principe di Bisignano, il quale l’ospitò per vari giorni con tutta la corte “in un palazzo fatto di legno tra i boschi e i fiumi delle cacce reali, che tiene nei ||20|| propri stati”Passò quindi a Salerno, dove il Principe con “la pompa dovuta ad un imperatore sì grande trattollo per molti giorni nella sua città capitale.” Carlo partì soddisfattissimo di questo trattamento, passò per Cava, visitò poi altri luoghi, si fermò tre giorni a Pietrabianca, nella villa di Bernardino Martirano, e il 25 Novembre entrava in Napoli: l’ingresso fu un vero ||21|| trionfo. I cronisti si diffondono in descrizioni di tutti i particolari di quell'avvenimento così importante: gli archi superbi, il lusso delle mostre facean vedere come tutte le arti belle avessero gareggiato a mostrare il fascino che emana dalla città dei sogni e dell'ebbrezza. Il cielo e la natura pareva che si fossero accordati a rendere più serena quella gioia di un immenso popolo esultante. Anche qui i Sanseverino furono lesti a prestare il loro ossequio, poiché il "Principe di Salerno fu, come dice il Parrino, eletto sindaco in questa sontuosa ||22|| azione" e il Principe di Bisignano Pier Antonio prese parte alle giostre tenutesi in onore dell'Imperatore. Il 22 Marzo del 1536 Carlo partiva da Napoli, chiamato in aiuto dei Paesi Bassi, minacciati dal re di Francia, e con la sua partenza spariva anche la pace dal Regno. I Turchi ritornarono di lì a poco a devastare le nostre belle contrade, e, inoltre, si acuirono maggiormente quegli odi di parte che afflissero in ogni tempo l'Italia e per cui ben potremmo ripetere i noti versi di Dante:
Ed ora in te non stanno senza guerra
Li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode
Di quei che un muro ed una fossa serra.
VIII.
Al tempo della Pittarelli la Casa che qui da noi imponeva maggior rispetto, e per tradizioni gloriose e per potenza di dominio, era quella dei Sanseverino, a cui la Poetessa si trovò legata per ragioni che diremo in seguito. ||23|| Non vogliamo parlare qui della potenza stragrande dei Sanseverino, che si era venuta formando ed aumentando sempre più attraverso le vicende politiche e sociali di parecchi secoli, per cui dall’umile dignità feudale ascesero a quella suprema del principato; a noi importa ricordare che nei vasti domini di questa Casa, al tempo della Pittarelli, erano compresi anche il feudo di Francica e la Contea di Mileto, che già possedevano da tempo, non senza interruzione. Nel 1505 i Sanseverino ||23|| perdettero la Contea di Mileto. VIII.
Al tempo della Pittarelli la Casa che qui da noi imponeva maggior rispetto, e per tradizioni gloriose e per potenza di dominio, era quella dei Sanseverino, a cui la Poetessa si trovò legata per ragioni che diremo in seguito. ||23|| Non vogliamo parlare qui della potenza stragrande dei Sanseverino, che si era venuta formando ed aumentando sempre più attraverso le vicende politiche e sociali di parecchi secoli, per cui dall’umile dignità feudale ascesero a quella suprema del principato; a noi importa ricordare che nei vasti domini di questa Casa, al tempo della Pittarelli, erano compresi anche il feudo di Francica e la Contea di Mileto, che già possedevano da tempo, non senza interruzione. Nel 1505 i Sanseverino ||23|| perdettero la Contea di Mileto. "Nel 1535 l'Imperatore Carlo V, ritornando dalla guerra di Tunisi, passò in Calabria; e da lui Mileto fu data alla Casa Spagnola Mendoza dell'Infantado, la quale tante possessioni ebbe nelle nostre Provincie. La donazione ai Mendoza fu contrastata dai Sanseverino, che prima avevano Mileto, ma nel 1541 Pietro di Toledo Vice-Re di Napoli impose in favore del Principe di Bisignano Conte di Mileto, quasi in compenso per la perdita di questo Contado, alcune tasse sopra tutta la seta che si raccoglieva in Calabria. Nel 1592 fu data ai Gomez de Silva, come rilevasi da autentici documenti."Ma oltre le famiglie dei Sanseverino e dei Gomez de Silva, celebri erano anche quelle dei Pignatelli e Monteleone, dei Conclubeth ad Arena, e di altre, colle quali la Pittarelli ebbe relazione di amicizia. Il concedere protezione ai letterati o ai sedicenti letterati nel medio evo era un lusso di moda, che ogni famiglia dell'alta aristocrazia si permetteva per rendere splendido il fasto della Corte o per far meno sentire la tirannia, colla quale si governavano i sudditi. Famiglia liberale, più di ogni altra, quella de' Sanseverino||25|| aveva aperte le Corti di Salerno e di Bisignano ai migliori ingegni del tempo, ed era tale il fasto e la potenza di quei Signori, che non a torto destavano l'odio e la gelosia dei regnanti.In queste Corti la nostra Pittarelli passò quasi tutta la vita giovanile; ma, più che altro, ella era stata probabilmente attirata dalle Principesse Sanseverino, che elogia così spesso nelle sue poesie, e dal desiderio di coltivare il bello fra tanta nobile intellettualità.
IX.
L'Imperatore con tanti trionfi era riuscito ad aggiogare al suo carro i Sanseverino, ma questi non avevamo mantenuta una condotta sempre leale. I principi di Salerno specialmente non si erano mostrati mai molto teneri verso gli Aragonesi, e Ferrante, ultimo di questa famiglia, scontò amaramente le tendenze sovversive dei suoi. Ecco quanto scrive di questo principe il Parrino: