Alessandro Guardassoni(Bologna, 1819 - Bologna, 1888)La conversione dell'Innominato(dall'Album dell'Esposizione di Belle Arti in Milano, 1858)Copertina diLa Milano dei Promessi Sposi. Pubblicazione edita dall'Ufficio Stampa del Comune di Milano. Referenze fotografiche:Civica Raccolta delle Stampe ( Achille Bertarelli) Museo di MilanoBiblioteca ComunaleBiblioteca d'ArteMedagliere MilaneseArchivio StoricoMuseo Teatrale alla ScalaSanto Gioia della RAI Radiotelevisione Italiana.La mostra è stata promossadal Prof. Dott. Gian Guido Belloni.L'allestimento è stato curato dal Prof. Domenico Petrosino.L'esecuzione fotografica della Ditta Saporetti è stata diretta da Pantaleo Di Marzo.Hanno collaborato :Fernanda Marini, Severo Corti e Ovidio Canesi, tutti della Direzione delle Civiche Raccolte d'Arte.(Da colophon)
1993. Vittore Branca, “I Promessi sposi di Vicenza. Le prepotenze di un Don Rodrigo e l’onestà di un Fra Cristoforo in una storia vera del Seicento veneto”, in Il Sole 24 ORE, domenica, 27 giugno 1993.
Vittore Branca, I promessi sposi di Vicenza: una storia vera
Negli Archivi Storici dello Stato di Venezia vengono ritrovati gli atti del processo contro un tale Paolo Orgiano, signorotto prepotente di un paese, per gli atti di persecuzione e violenza contro le giovani del paese. Dalla loro lettura Vittore Branca (1913-2004), un protagonista della vita culturale italiana del Novecento, ricava elementi di confronto e di analogia con la vicenda di Renzo, Lucia e don Rodrigo (e non manca neppure un provvidenziale padre Cristoforo), che se non giunge a un rapporto diretto di conoscenza del testo sicuramente illustra con efficacia la realtà sociale di un diffuso malcostume dell’epoca.
Notti di oltracotanti violenze da parte di signorotti, ancora in velleità da feudatari, su villani di ambo i sessi, quelle nella bassa Vicentina all’inizio del Seicento. Si scatenava, con impudenza da impunibile, nel villaggio tra Lonigo e Este, da lui dominato, Orgiano, quel don Rodrigo – don Giovanni da strapazzo che era il venticinquenne despota locale, Paolo Orgiano. Vantava un’antica nobiltà, intrecciata anche, attraverso delitti e faide e matrimoni, coi Fracanzan, e un consistente patrimonio fondiario e mobiliare. E la sua impunità era garantita, oltre che dal superstite clima feudale, da un potente conte-zio: il fratello della madre, Settimio Fracanzan, omicida di un rivale, ma, riuscito a passare, sia pur con difficoltà e prigionie, al di sopra della legge per la sua astuzia e la sua prepotenza e l’autorità della famiglia e della consorteria patrizia. Settimio sarebbe stato l’unico che avrebbe potuto frenare i soprusi continui che Paolo faceva soffrire alla misera società contadina. Era sì ancora sottomessa e umiliata come da secoli e secoli, ma proprio in quegli anni aveva manifestato una certa insofferenza verso le sopraffazioni nobiliari. Al conte-zio Settimio non riusciva sgradito quindi il clima di intimidazioni e di arbitri stabilito dal nipote tirannello campagnolo.
Era un tirannello spesso infoiato e violento con le belle villane del luogo: “sete sparso per uomo che n’abbia negoziate infinite donne anco contro natura” gli dirà il giudice, nel processo che citeremo, a proposito di Isabetta Fideletta condotta da sgherri a forza alla casa di Paolo e da lui sodomizzata, e a proposito di Angela violentata selvaggiamente e che piangendo esclamava “mi ha rovinata dal mondo, avendomi tolto ogni mio onore”. A molte giovani del villaggio veniva impedito il matrimonio, i fidanzati erano minacciati e bastonati e feriti dai “bravi” del signorotto stesso, che voleva per sé quelle belle prede. Alcune delle concupite riuscivano a concludere nozze più o meno clandestine, o si allontanavano dal paese per evitare il peggio.
Invece Fiore, povera ma avvenente orfana diciassettenne convivente con la madre vedova, resiste alle attenzioni pesantemente pressanti, tra profferte e minacce, del giovane nobile; e convola a giuste e oneste nozze con Vincenzo Galvan. Ma, poco dopo, una notte dell’inverno del 1604 è dai “bravi” di Paolo prelevata a forza dalla sua casa e trascinata nella dimora dell’Orgiano e violentemente stuprata e sodomizzata da lui e dal cugino Tiberto, figlio di Settimio: “Consta in processo – registra il giudice che citeremo – che tutta quella notte voi (Paolo) la conosceste carnalmente et anco due volte dalle parti posteriori; et elle medesima, tutta vergognosa della forza patita, ... si querela che la conosceste violentemente anche contro natura ... e che non volendo a modo alcuno sopportare un tal vituperio la costringesti con minacce...” “Volse aver da far ancor de drio come fanno le bestie... Io crisava e egli mi voleva dar dei pugni”, dichiara Fiore. E poi fugge discinta e scalza e giunge a casa sua in condizioni pietose, “anzi vien detto” aggiunge il giudice “che per aver fatto quel viaggio senza niente in piedi se li era rovinati i piedi, in modo che per alquanti giorni non puoté caminare...”.
Onde si vede che la meschina parla per termine di verità, portando tanti particolari come fa e non essendo verisimile che volesse vergognar se medesima sconfessando voi che sete reso formidabile (cioè “spaventoso”, “tremendo”) per le vostre operazioni in quei paesi del Visintin, se la forza della verità non la necessitasse a così fare.
La forza della verità – cioè la forza dell’evidenza dei fatti, confermata dalle testimonianze delle molte persone offese e di coloro che suffragavano la deposizione – era quella che colpiva nell’istruttoria l’onesto e intelligente giudice Giuseppe Medolago. Era “una forza che emergeva prorompente dal fascicolo istruttorio” nel processo svoltosi a Padova, in più riprese, dal 24 marzo al 15 settembre 1607, per volere del Consiglio dei Dieci di Venezia nell’ambito di procedimenti promossi dal settembre 1605 contro le prepotenze di alcuni esponenti della nobiltà vicentina (Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei Dieci, Processi delegati ai Rettori, busta 3). Gridava così forte quella “forza della verità” che induceva il giudice “a sorvolare sulle tante disquisizioni e sui tanti distinguo che i testi giuridici dell’epoca prevedevano come requisiti essenziali di una buona testimonianza. Ed era questa forza della verità che l’aveva profondamente convinto della colpevolezza dell’imputato” pur nobile, pur potente e prepotente, pur avvezzo all’impunità . Così ora illustra ampiamente e rigorosamente in una ampia, documentatissima, appassionante memoria, presentata per la stampa da Gaetano Cozzi e da me all’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, un giovane ma già autorevole storico vicentino, Claudio Povolo (che vivamente ringrazio per avermi consentito questa anticipazione in cui ho usato e userò più volte sue parole stesse). La “forza della verità” si poteva facilmente fare strada perché dietro quei villani c’era un sicuro confortatore e un coraggioso e fermo accusatore degli scellerati sopraffattori. Era riuscito persino a smuovere l’intera comunità di Orgiano convincendola a inviare a Vicenza e poi addirittura a Venezia, tramite due suoi procuratori, denuncia alla Signoria di quanto era accaduto e accadeva continuamente nel villaggio. Era un frate, aveva nome Lodovico (Lodovico Oddi); era stato pietoso raccoglitore in confessionale e fuori confessionale delle lagrime e dei lamenti di quelle povere giovani. E anch’egli sarà vittima delle malizie e delle calunnie del Conte-Zio Settimio simille a quelle di Attilio e don Rodrigo al Conte-Zio contro un altro Lodovico, poi padre Cristoforo (“protegge una contadinotta... e ha per questa creatura ... una carità molto gelosa”). Settimio non vedeva l’ora di togliere di mezzo un irriducibile oppositore, e operava quindi contro di lui pervicacemente a tutti i livelli: per questo Lodovico non sarà risparmiato dal provinciale e dalla Curia, come Cristoforo non lo fu dal Padre provinciale.
Eppure già al Concilio di Trento, come ha rilevato Gaetano Cozzi, i vescovi, trattando del matrimonio, erano stati categorici contro le violenze e i ricatti esercitati spesso dai potenti sulle giovani. Le stesse “istituzioni civili e religiose sulla spinta di una nuova sensibilità si erano apprestate a combatterli” come nota Povolo.
All’integerrimo Medolago padre Ludovico, quasi anticipazione del padre Cristoforo, appariva “la personificazione del Bene”, un uomo che con il suo coraggio e la sua onestà aveva saputo far fronte alle azioni delittuose di Paolo Orgiano; e a quest’ultimo il giudice poteva opporre che “appunto procedendo il travaglio che avete (voi, Paolo) da persona religiosa, s’ha da presumere che per termine di verità siate accusato e perseguitato da lui, non essendo verisimile che persona religiosa, che si è, si può dir, tolto fuori dal mondo voluntariamente per salvar l’anima, volesse poi dannarla con perseguitar et accusare falsamente”.
Paolo cercava di atteggiarsi a vittima di una persecuzione popolare (“non diedi mai si può dir uno schiaffo ad un gatto che non fosse il tutto denonziato et sempre alla peggio”) e in particolare di quella astiosa dei due procuratori e del Padre Lodovico. Medolago però implacabile: “quest’odio universale dà ancor lui argomento et indizio che siate persona di quelle qualità delle quali sete decantato in questi processi, non essendo verisimile che volessero veder la ruina di uno che operasse bene... Non è possibile che questi doi procuratori con il Padre solo possano mover un comun a cacciarvi contra, se le imputazioni che vi danno non fossero vere”. E ripugnava al giudice l'estrema difesa di Paolo che voleva contrapporre la sua “civiltà” il suo “onore cittadino” “aristocratico” alla “rabbia di tanti villani”.
“A un diritto particolaristico e fortemente connotato sul piano sociale, si andava lentamente sostituendo un diritto superiore che proveniva dalla suprema autorità dello Stato e che tendeva attraverso i suoi principi ad accogliere le istanze di tutti i governati”. Rispondeva del resto, questa tendenza, alla costante politica della Serenissima mentre espandeva il suo dominio sulla terraferma veneto-lombarda: tutelare e favorire il popolo contro le particolaristiche e autoritarie pretese dei nobili nelle varie città e nelle varie antiche signorie. Uomini, come Paolo, “appartenevano ormai ad un mondo che stava lentamente scomparendo di fronte all’affermazione di ideali e di costumi che nella città trovavano la più piena estrinsecazione esercitando sullo stesso mondo rurale una fortissima attrazione”.
È una coscienza che, in accordo alla tradizione politica della Serenissima, stava affermandosi risolutamente nello stato veneziano già tra Cinquecento e Seicento: una coscienza da cui discende consequenziale la condanna al carcere a vita per Paolo Orgiano (morirà in prigione nell’aprile del 1613).
Nello spagnolesco stato milanese ci vorranno invece ancora decenni e decenni – fino quasi al governo austriaco – prima dell’imporsi di una tale coscienza, prima di avere dei Medolago al posto dei podestà e degli azzeccagarbugli pavidi e servili: a togliere di mezzo, nel 1630, il don Rodrigo lecchese sarà la peste, non la giustizia. “Viva San Marco” grida Renzo giungendo in terra veneziana; i governanti qui “fanno le cose... quietamente... con giudizio... coltivando l’inclinazione degli operai” gli dice il cugino Bortolo, si preoccupano della gente minuta di fronte alla calata dei lanzichenecchi e al divampare della peste, nota direttamente poi il Manzoni.
Manzoni: è un nome e una presenza che ha sotteso continuamente la nostra narrazione delle scelleratezze e dei soprusi di quel don Rodrigo che è Paolo Orgiano e di quel cugino conte Attilio compagno di bagordi che è il cugino Tiberto, delle sofferenze di quelle Agnese e Lucia che sono la vedova e la figlia Fiore sposa a un contadino e vittima per la foia del tirannello locale, della sete di giustizia di quel fra Cristoforo – già Lodovico – che è padre Lodovico Oddi impavido difensore degli oppressi e accusatore del sopraffattore, e perciò bersaglio predestinato dei Conti-zio. Le fosche violenze di nobili vicentini su poveri villani e sulle loro nozze si profilano naturalmente così come anticipazioni, quasi filigrane, delle dolorose peripezie di Renzo e Lucia. Così del resto, anni fa, l’episodio del ratto di una Luciana da parte di uno spietato signorotto, nel romanzo seicentesco Historia del cavalier perduto di Pace Pasini, anche lui di Vicenza, aveva offerto l’occasione a un finissimo manzoniano come Giovanni Getto di proporre elegantemente una possibile filigrana vicentina per il rapimento di Lucia. Proprio a Vicenza, come ha illustrato anni fa il Mantese, Manzoni sostò, ebbe amicizie e rapporti di studio e di lettere.
Ma questa volta, se si volesse proprio pensare a un tramite per la conoscenza del processo Orgiano da parte del Manzoni, sarebbe più facile, come propone e documenta ampiamente il Povolo, pensare a amici veneziani del romanziere (che a Venezia, com'è noto, aveva dimorato vari mesi fra il 1803 e il 1804). Le carte di quel processo istruito dal Medolago – come in generale quelli promossi dal Consiglio dei Dieci e dagli Inquisitori – erano state deposte, alcuni anni dopo la fine della Repubblica, nelle varie sedi dell’Archivio, che stava costituendosi a Venezia. Già a partire dal 1812 vi aveva accesso e le consultava un amico – ammiratissimo – del giovane Manzoni, Andrea Mustoxidi. Era (fin dal 1803) amico fedele e collaboratore di Alessandro che gli affidò nel 1809 la sua Urania per la stampa; frequentava assiduamente la “sala rossa” di casa Manzoni, aperta solo a un gruppo ristretto di fedelissimi letterati e intellettuali, in certo senso consiglieri e collaboratori. Ma proprio in quegli anni stessi, dal 1812, “entrava a far parte dell' esigua équipe cui era stata affidata la conservazione degli antichi archivi della Repubblica un uomo che sicuramente conosceva bene l’ambiente milanese e probabilmente lo stesso Alessandro Manzoni: Agostino Carli Rubbi, figlio del più famoso Gianrinaldo. Li univa (Manzoni e Rubbi) un ambiente che entrambi conoscevano o avevano conosciuto molto bene; li univa un personaggio come Cesare Beccaria”; li univa, aggiungo, anche la passione per lo studio dei processi penali antichi, operante nel Manzoni fin dal ’21-’23 e dalla prima idea della Storia della colonna infame e dall’elaborazione del Fermo e Lucia. Il Rubbi, come prospetta il Povolo, aveva avuto dalle autorità politico-civili ampi poteri, aveva la facoltà di prevalere ufficialmente o privatamente documenti archivisti, faceva spesso viaggi a Milano. Non è impensabile che del processo di Orgiano abbia potuto giungere – attraverso il Mustoxidi o più probabilmente il Rubbi – notizia al Manzoni: una notizia però certo privata e confidenziale, perché le autorità austriache avevano imposto severe regole di segretezza per gli archivi del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori. Rubbi e Manzoni si trovavano “nella situazione reciproca di non poter svelare la consultazione di una fonte che era stata vietata dalle autorità austriache: l’accesso stesso agli altri fondi archivistici era del resto filtrato con attenzione dalle autorità austriache e le consultazioni degli studiosi furono sporadiche per tutta la prima metà del secolo”.
Seducente è l’ipotesi del Povolo di scorgere una sia pur “esile traccia” della conoscenza manzoniana di quel processo vicentino “proibito” in uno di quei silenzi o meglio di una di quelle oppressioni spesso così rivelatrici del Manzoni. Nella prima e provvisoria introduzione al Fermo e Lucia l’autore, dopo aver parlato del famoso manoscritto dell’anonimo, vantata fonte del suo narrare, voleva “antivenire un’accusa... grave e pericolosa... a questo scritto: cioè che non sia altrimenti fondato sopra una storia vera di quel tempo ma una pura invenzione moderna... un romanzo, genere proscritto nella letteratura italiana moderna, la quale ha la gloria di non averne o pochissimi”. E, dopo questa battuta sarcastica e antifascista, soggiungeva “Per... allontanare... questo sospetto... il migliore espediente sarebbe di mostrare il manoscritto, ma a questo egli non può indursi per altri e pur degni rispetti”.
È un discorso autoironico che il Manzoni “riprese un po’ tortuosamente nel saggio sul romanzo storico, laddove avrebbe sostenuto l’impossibilità di un genere che avrebbe semmai dovuto cedere alla storia”. Ma in quella frase, poi soppressa nella stesura definitiva, non poteva essere presente anche la preoccupazione di coprire il Rubbi e le sue confidenze “proibite” sul processo vicentino “manoscritto”? Certo, fino alla vigilia della pubblicazione dei Promessi Sposi, non sembra apparire – forse per rispetto alla filigrana vicentina? – il sottotitolo Una storia milanese del XVII secolo. Ma, conclude il Povolo, “il 18 marzo 1825 moriva Agostino Carli Rubbi. Intorno a quegli stessi giorni usciva il primo tomo dei Promessi Sposi con il sottotitolo che sembra indicare l’ormai autonoma affermazione di Alessandro Manzoni da un personaggio e da una vicenda processuale che pure, forse, gli avevano offerto trama e ispirazione per il suo grande romanzo”.
Siamo certo nell’ambito di quelle possibilità che sempre ci avvincono quando tentiamo di cogliere l’opera di un genio nel suo germogliare e nel suo prender a poco a poco la vita. Di quell’implicato e sollecitante intreccio nel Manzoni, fra suggestioni lievitanti dell’a corpo a corpo tra verità della storia e folgorante arbitrarietà della fantasia che interpreta la storia, ha splendidamente narrato proprio ora un manzonista e romanziere come Ferruccio Ulivi (Tempesta di marzo, ed. Piemme). Alla prima origine dei Promessi Sposi sarà la seicentesca “grida... contro chi minaccia un parroco perché non faccia un matrimonio”, come il Manzoni accennava al figliastro Stefano Stampa? o la lettura convergente di Walter Scott e del Ripamonti e del Gioia, come testimoniava la figlia Vittoria? o l'Historia de l cavalier perduto proposta dal Getto? O questa fosca e romanzesca storia di Orgiano?
Non si può escludere categoricamente nessuna di queste suggestioni, sia pur vaghe e occasionali. Ma per la invenzione del grande romanzo bisognerà soprattutto tenere sempre presente la dichiarazione allo Chauvet del Manzoni stesso sull’invenzione, in cui deve rimanere fondamentale “le besoin de la vérité”: “compléter l’histoire, en restituer, pour ainsi dire, la partie perdue; imaginer même des faits là où l’histoire ne donne que des indications; inventer au besoin des personnages pour représenter les mœurs connues d’une époque donnée; prendre enfin tout ce qui existe et ajouter ce qui manque, mais de manière que l’invention s’accorde avec la réalité, ne soit qu’un moyen de plus de la faire ressortir”. È l'invenzione di un “verosimile poetico”, definito con fulminea intuizione nel Del romanzo storico come “un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente”. È quella “storia più ricca” che nello stesso Discorso il Manzoni auspicava non come “un racconto cronologico di soli fatti politici e militari e, per eccezione, di qualche avvenimento straordinario d’altro genere”, ma come “una rappresentazione più generale dello stato dell’umanità in un tempo, in un luogo, naturalmente più circoscritto di quello in cui si distendono ordinariamente i lavori di storia nel senso più usuale del vocabolo”. È quel far storia totale, dell’uomo in tutte le sue espressioni, che più abbiamo amato e amiamo anche in questo nostro tempo (e che, in questo nostro tempo, qualcuno si è illuso di inventare).
Vittore Branca, “I Promessi sposi di Vicenza. Le prepotenze di un Don Rodrigo e l’onestà di un Fra Cristoforo in una storia vera del Seicento veneto”, in Il Sole 24 ORE, domenica, 27 giugno 1993
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2017. Tra Bigotta e Petronilla: Manzoni e i matrimoni a sorpresa
DICEMBRE 17, 2017
DA ENZO SARDELLARO
Nell’ormai lontano, e quasi mitico 1960, l’anno in cui comparve l’altrettanto mitica Dolce vita di Fellini, il Professor Giovanni Getto usciva con un libro che dal titolo stesso rinviava il lettore alle possibili fonti barocche dei Promessi Sposi: Echi di un romanzo barocco nei Promessi Sposi (1). Nel suo ragguardevole saggio, il Professor Giovanni Getto riscontrava indubbie similitudini del romanzo manzoniano con l’ Historia del Cavalier perduto, opera del vicentino Pace Pasini:
“ Nessuno si è mai accorto dell’importanza di questo libro, riconoscibile in tutta una serie di particolari che vi sono contenuti, i quali stanno in stretta e sorprendente relazione con i Promessi Sposi […] Nel Fermo e Lucia [Manzoni] ricordava invece ‘i celebri romanzi del Pasta, e fra questi anche l’ Historia del Cavalier perduto ( non ne sarà un’ironica spia quell’inizio: ‘La storia [e nella successiva stesura, la seconda del Fermo, proprio l’ Historia] si può veramente chiamare?’”.
Stabiliti ordunque i rapporti dei Promessi Sposi con il romanzo barocco, negli anni ’80 M. Fantuzzi, dal canto suo, riscontrò altre similitudini interessanti riguardo un famoso episodio dei Promessi Sposi, il “matrimonio a sorpresa”, con un eguale episodio della Gondola a tre remi di Girolamo Brusoni (2). Infatti, in un passo della Gondola, troviamo scritto:
“Faremo quello, che si potrà, disse Glisomiro, e nel caso, che noi siamo in presentaneo pericolo la legge dispensa l’osservanza di molti riti, che peraltro si ricercano alla validità di somiglianti misterij. A me basta, che Guglielmo dichiari Giustina sua moglie in presenza del sacerdote” (3).
Se il romanzo barocco può effettivamente aver offerto spunti a Manzoni, come nel caso del matrimonio sorpresa, nulla vieta però che lo stesso Manzoni possa esser venuto a conoscenza di un qualcosa di più concreto di un romanzo. Sappiamo la passione di Manzoni per la storia, né è da escludere che, “oltre” la letteratura, egli possa aver visto documenti storici rilevanti riguardo tale pratica. Esempi di matrimoni a sorpresa di “sapore” strettamente manzoniano ci vengono incontro dal Seicento veneto e lombardo.
Molto prima dei saggi di G. Getto e di M. Fantuzzi, precisamente nel 1951, G. B. Zanazzo, scrisse su Convivium un articolo molto interessante, in cui riportava esempi storicamente accaduti di matrimoni a sorpresa del secolo XVII (4). Zanazzo andò molto oltre le semplici fonti letterarie, scrivendo:
“ Il Manzoni, che ha ritratto con tanta realtà e fedeltà le luci e le ombre della Lombardia del sec. XVII, ha senza dubbio avuto tra le mani documenti che ritraevano al vivo questo espediente di matrimoni clandestini e di sorpresa”.
Il fatto.
“La mattina del venerdì 8 agosto 1681, il rettore della chiesa [di Mason vicentino], Don Giovanni Battista Lovisani, appena celebrata la Santa Messa, si era recato in Sagrestia, quando all’improvviso, mentre era ancora ‘parato’ con gli indumenti rituali, gli si presentò il parrocchiano Fiorio Pellegrino, accompagnato dalla fidanzata Lavinia Bigotta di Schio, e senza preamboli, con voce alta, ferma e risoluta pronunciò le parole: ‘Signor Parroco, questa è mia moglie’. A sua volta la Bigotta, con pari decisione […] rivolta al Fiorio, completò l’atto con la formula: ‘Signor Parroco, questo è mio marito’. Avevano condotto come testimoni i compaesani Pietro Vaccaro e Giovanni Pigato”. Indi, Zanazzo riportava anche il documento originale, ricavato dall’Archivio parrocchiale di Mason Vicentino, Registro dei matrimoni, anni 1658-1716, e vergato di pugno da Don Giovanni Battista Lovisani :
Alli venerdì 8 del mese d’agosto 1681
“A perpetua memoria et ad ogni bon fine et effetto notorio, noto io Giobatta Lovisan, Rettor di questa parrocchial chiesa di Mason, come nel giorno sudetto [sic], mentre io medemo [sic] (=io medesimo) havevo celebrato la Santa Messa et andavo nella sachrestia [sic] à dispararmi (= mentre andavo in sacrestia a spogliarmi dei paramenti sacri), avanti di me anchora [sic] parato si presentò Sig. Pelegrin Fiorio di questo loco (=località) di Mason mio parochiano [sic] il quale haveva de mano la signora Lavinia Bigotta da Schio, diocese [sic] vicentina e disse queste precise parole: questa è mia moglie è [= e , congiunzione] subito la ditta [=suddetta] signora Lavinia disse e sogionse [=soggiunse]: questo è mio marito, parlando del sudetto [sic] Sig. Pellegrino è dalli medessimi [ = e dai medesimi] furrono [sic] chiamati in testimoni del medesimo fatto da essi m. Pietro Vacaro [sic], m. Zuane Pigato, abidue (=ambedue] di Mason; essendovi ancho [=anche] molti altri ivi presenti quando sucesse [sic] tal fatto, a quali io opponendomi è [=e] dolendomi le dissi con parole assai aspre che non si faccevano [sic] in queste maniere gli matremonii (i matrimoni), et altre simili parole, al che altro non rispose il Sig. Pellegrino, che lo scusassi, et io del sucesso [sic] (= e io, di ciò che era successo) ne porsi subito con mie lettere haviso distinto (= informai immediatamente) al Rev. Sign. Mantovani, vicario generale dell’Ecc.mo et Rev.mo Sig. Cardinale Barbarigo, vescovo di Padova, mio Ordinario et ad ogni bon fine ho registrato in questo loco la presente memoria” (Archivio Parrocchiale di Mason, Registro dei matrimoni, 1688-1716).
A parte l’italiano maccheronico del nostro ottimo Curato di Mason Vicentino, il documento redatto dal nostro Don Abbondio di Mason parla chiaramente di un matrimonio a sorpresa che egli subì passivamente, al contrario del “vero” Don Abbondio, che fece il diavolo a quattro, dimostrando una presenza di spirito non comune, nonché l’agilità del ghepardo (la scena secondo l’Edizione Le Monnier del 1845):
“Don Abbondio intravvide, vide, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: ‘Signor curato in presenza di questi testimonj quest’è mia moglie.’ Le sue labbra non erano ancora tornate in riposo, che don Abbondio aveva già lasciata cader la quitanza afferrata colla mano e sollevata la lucerna, ghermito con la destra il tappeto che copriva la tavola, e tiratolo a sé con furia, gittando a terra libro, carta, calamaio e polverino; e balzando tra la seggiola e la tavola s’era avvicinato a Lucia. La poveretta con quella sua voce soave, e allora tutta tremante aveva appena potuto preferire: ‘E questo …’ che don Abbondio le aveva gittato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul volto, per impedirle di pronunziare intera la formola” (5).
Ad ogni modo, il matrimonio a sorpresa non costituiva poi una rarità così assoluta nel XVII secolo, e anche più tardi, tanto è vero che Zanazzo, citava altri due documenti simili, uno tratto dall’Archivio parrocchiale di Laverda, anni 1735-1829, e un terzo dall’Archivio parrocchiale di Breganze, anni 1779-1787, sempre di area vicentina.
La famiglia Manzoni aveva da secoli contatti diretti con Vicenza e il Vicentino, Alessandro, dal canto suo, era a Vicenza nel 1804, al suo ritorno da Venezia. G. Mantese, grande esperto di cose vicentine, scrisse che i Manzoni dell’area lombarda avevano “relazioni col Vicentino e proprio nella zona interessata dalla presenza dello scrittore […] I Manzoni di Milano già dal sec. XVI erano mercanti di seta, come gli Arrigoni, ed avevano, se non proprio un rappresentante fisso, certo un procuratore in Vicenza” (6).
“Assurti a fama letteraria grazie ad Alessandro Manzoni, questi matrimoni erano piuttosto diffusi in età moderna e vengono riscontrati parecchi casi anche a Vicenza e nel territorio […] Erano questi i matrimoni clandestini, cioè quelle unioni che venivano strette alla presenza del parroco e di testimoni all’uopo prodotti senza osservare le prescrizioni della Chiesa” (7).
Va da sé che è molto probabile che l’idea fosse venuta a Manzoni più per “esperienza” di cose sentite e da documenti storici piuttosto che da fonti letterarie, le quali altro non facevano se non registrare fenomeni sociali di ampia portata largamente conosciuti. Ora, senza stare a incomodare troppo Vicenza e il suo territorio, molto più vicino a Manzoni, nel Milanese, accaddero fatti consimili, debitamente registrati dai parroci locali. In uno di questi, di cui fu vittima Prete Giovita Buzzoni, ne diede notizia A. Manetti (8), il quale osservò:
“Per il matrimonio di sorpresa, se si toglie il romanzo del Brusoni, che del resto non sappiamo se fosse noto al Manzoni, quali esempi gli offrivano i testi storici a sua disposizione? Oggi siamo a conoscenza di due episodi storicamente documentati […] In provincia di Bergamo, ma allora soggetto alla diocesi di Milano, […] ne è conservata memoria in un documento dell’archivio parrocchiale. Eccolo: Primo Gennaio Mille Settecento e Dodici (1712)
Matrimonio a sorpresa
“Federico Rota quondam Francesco ha contratto Matrimonio clandestino con Petronilla figliuola del quondam Giovanni Regazzoni Quattrolegni. Venuti esso signor Federico, Petronilla e due testimoni Giacomo Buzzoni e Simone Buzzoni tutti di Val Torta in casa mia a un’ora di notte et senza farsi sentire, aperto l’uscio della Saletta ove io ero in quell’ora a studiare non sapendo cosa alcuna di questo attentato, disse il Signor Federico: ‘Sappia Signor Parroco alla presenza di questi testimoni come la qui presente Petronilla è mia moglie ed intendo sia mia moglie’. La detta Petronilla tostamente disse: ‘ Se voi Federico siete mio marito, io sono vostra moglie’. Restai tutto confuso a tal cosa inaspettata né prevista et mentre proferivano il loro sentimento volevo uscire dalla saletta, ma il detto Federico chiuse subito l’uscio e non mi fu più possibile l’uscita sicché dopo averli molto ripresi e detto apertamente che ‘non sapevo quello dicessero li scacciai di casa con parole cattive et anche con violenza assieme con li testimoni. Scrissi subito a Monsignore Vicario Generale il quale mi rispose che dovessi far intendere alli detti contraenti la scomunica incorsa e di presentarsi a Milano per esserne assolti. Ma il Signor Federico la notte stessa che fece questo si partì di Val Torta per Venezia et la Petronilla fu da me avvisata della scomunica et li 25 febbraio successivo fu anche da me assolta con facoltà et grazia datami da Monsignor Vicario Generale”.
Et in fede.
Prete Giovita Buzzoni
Parroco di Val Torta.
Se dovessi scegliere tra la Bigotta di Schio e la Petronilla di Val Torta, sceglierei la seconda, e non foss’altro perché Prete Giovita Buzzoni diede prova di più “bello stile” rispetto a “Giobatta Lovisan, Rettor [della] parrocchial chiesa di Mason”, il quale forse risentiva un po’ troppo del sostrato dialettale veneto. Ma al di là delle questioni linguistiche, rimane il fatto che Manzoni, tra Vicenza e Milano, ebbe la possibilità di registrare certi aspetti della realtà popolare che egli poté acquisire ben oltre le fonti letterarie. Anche perché, come chiosò A. Manetti riguardo lo stesso romanzo di Girolamo Brusoni, “non sappiamo se fosse noto al Manzoni”.
Note
1) G. Getto, “Echi di un romanzo barocco nei Promessi Sposi”, in Studi e problemi di critica testuale, Convegno di studi di filologia italiana …, 7-9 aprile 1960, Bologna, 1961, pp. 439-467. Anche in Lettere Italiane, 1960, XII, pp. 141-67, e dipoi ripubblicato in Manzoni Europeo, Milano, Mursia, 1971, da cui citiamo, p. 13, 49.
2) M. Fantuzzi, Meccanismi narrativi nel romanzo barocco, Padova, Antenore, 1975, pp. 262-278.
3) G. Brusoni, La gondola a tre remi: passatempo carnevalesco, In Venetia, Per Francesco Storti, MDCLVII [1657], p. 274.
4) G. B. Zanazzo, “Matrimoni di sapore manzoniano”, in Convivium, 1951, pp. 68-73.
5) I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Storia milanese del secolo decimosettimo, Firenze, Le Monnier, 1845, p. 109.
6) G. Mantese, Scritti scelti di storia vicentina …, Istituto per le ricerche di storia sociale e di storia religiosa, 1982, p. 308. Cfr. anche G. Franceschini, Manzoni a Vicenza, Nuova Antologia, 1924, fasc. 1246, p. 381.
7) A. Broglio & L. Cracco Ruggini, Storia di Vicenza: L’età della repubblica Veneta, 1404-1797, Neri Pozza, 1993, p. 193.
8) A. Manetti, “A proposito di matrimonio clandestino”, in Esperienze Letterarie, aprile-giugno 1980, Anno V, n. 2, pp. 84-89.
(Da: http://interpretazioni.altervista.org/bigotta-petronilla-manzoni-matrimoni-sorpresa/ )